Stefano Leszczynski – Città del Vaticano
Come se non bastasse il dramma umanitario provocato dal conflitto ancora in corso nella regione etiopica del Tigray tra il governo centrale di Addis Abeba e il Fronte Popolare di Liberazione, la guerra si è trasformata in un’occasione per regolare i conti con i dissidenti anche da parte di Asmara. L’allarme è stato lanciato dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, e trova conferma nelle testimonianze dei rifugiati eritrei che sono riusciti a fuggire dalla zona dei combattimenti. Nonostante il presidente eritreo Isaias Afewerki continui a smentire la presenza di truppe in territorio etiope, le notizie del rastrellamento e del rimpatrio di circa 6mila dissidenti eritrei si fanno costantemente strada attraverso il blocco di tutte le vie di comunicazione imposto dal premier etiope Abyi Ahmed.
100mila rifugiati eritrei in Etiopia
Dal 2001 hanno trovato rifugio in Etiopia circa centomila eritrei in fuga dal regime repressivo di Isaias Afewerki, al potere dal 1993. La maggior parte dei profughi ha trovato riparo nei quattro campi gestiti dall’UNHCR, l’Agenzia Onu per i rifugiati, nel Tigray due dei quali proprio a ridosso della frontiera etiopico-eritrea. Nonostante la protezione internazionale, la vita nei campi profughi era già precaria prima dell’inizio della guerra il 4 novembre, ma da allora, complice anche la pandemia da Coronavirus, l’emergenza umanitaria è esplosa in tutta la sua drammaticità. Anche i pochi aiuti che arrivavano sono cessati a causa dell’isolamento e della chiusura delle frontiere alle organizzazioni internazionali. Don Mussie Zerai, sacerdote eritreo fondatore dell’agenzia umanitaria Habeshia, intervenendo alla Radio Vaticana ha ribadito la richiesta delle agenzie internazionali di aprire dei canali umanitari per soccorrere i profughi e i civili tigrini.
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Le deportazioni dei profughi
I profughi eritrei che avevano trovato rifugio in Etiopia – spiega don Mussie Zerai – sono per la maggior parte giovani uomini e donne fuggiti per non dover sottostare alla leva obbligatoria la cui durata in Eritrea è a tempo indeterminato. Un crimine quello della diserzione che Asmara punisce molto severamente. Tra questi rifugiati, poi, alcuni sono dissidenti politici o che hanno lasciato posizioni di responsabilità nelle istituzioni eritree e per loro un eventuale rimpatrio significherebbe la fine. La pace siglata tra Etiopia ed Eritrea a Gedda nel 2018 – e che è valsa ad Abyi Ahmed il premio Nobel per la pace – sembra essersi trasformata oggi in un’intesa militare in funzione anti-tigrina, un’occasione per regolare i conti con un nemico politico comune e per sopprimere ogni dissidenza interna.
La voce delle Chiese locali
La settimana prima di Natale la Chiesa etiope, per voce della sua Conferenza episcopale (Cbce), ha lanciato un forte appello al sostegno internazionale per aiutare la popolazione colpita dalla guerra e dalla carestia. Lo stesso è avvenuto da parte dei vescovi cattolici dell’Eritrea che hanno denunciato i mali di un conflitto che “uccide, distrugge e semina rancori ed odio duraturi tra le persone”, chiedendo a tutte le parti di tornare al dialogo ed avviare un tavolo di trattative. “Io spero – dice don Zerai – che si torni presto a una normalizzazione della crisi e che venga istituita anche una commissione indipendente di inchiesta per verificare cosa sia realmente successo nel Tigrai. Perché si parla di massacri, di tante violenze e abusi sia sui rifugiati, sia sulla popolazione locale. La gente ha bisogno di pace, di sviluppo, non di guerra e distruzione, ne abbiamo avuti fin troppi di morti. Negli ultimi 300 anni questa regione non ha conosciuto che guerre”.
La paralisi della Comunità internazionale
Nonostante la preoccupazione crescente in ambito internazionale per le possibili conseguenze del conflitto del Tigray sui fragili equilibri del Corno d’Africa, né le Nazioni Unite, né l’Unione africana hanno saputo avviare azioni concrete per fermare il conflitto. L’intreccio di interessi geopolitici ed economici internazionali nel Corno d’Africa – spiega ancora don Mussie Zerai – fa prevalere le ragioni della realpolitik. La gente che soffre e che muore continua ad essere considerata come un inevitabile effetto collaterale e il diritto dei più deboli continua ad essere considerato come un ‘diritto debole’. Non si può certo chiedere ai piromani di improvvisarsi pompieri… Bisognerebbe interrogarsi – conclude don Zerai – su chi investe sulla guerra, chi guadagna sulla morte della povera gente. Non esistono fabbriche di armi in quei Paesi, ma sono tutti armati fino ai denti. Bisognerebbe agire su chi vende le armi e sfrutta quei territori per arricchirsi sulla vita delle popolazioni locali.”