Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
“Entrare in carcere da volontario ti cambia, ti arricchisce. Cambia il tuo modo di pensare e capisci che chi è lì dentro può riuscire a recuperare”. “Nella ‘Nave’ mi hanno fatto sentire una persona, non il reato che avevo commesso, e per me è stata la rampa di lancio per reinserirmi nella società”. Le voci di Eliana Onofrio, presidente dell’associazione “Amici della Nave”, e di Khalid, ex detenuto del reparto “La Nave” del carcere milanese di San Vittore, oggi dipendente di una cooperativa sociale, sono la migliore presentazione per il docufilm “Exit”, visto in anteprima nazionale ieri a Milano, all’interno della Movie Week 2021, nel teatro del Refettorio Ambrosiano, e che viene replicato oggi, 8 ottobre, sempre alle 21, ma in piazza Greco, su un maxischermo davanti alla mensa solidale, per la grande richiesta del pubblico (è necessaria la prenotazione, gratuita alla mail [email protected] , e il green pass).
“La Nave”, modello per il recupero di detenuti con dipendenze
“Exit”, presentato in un evento curato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo dal titolo “La cultura rende liberi”, in 40 minuti, per la regia di Stefano Sgarella, racconta le esperienze de “La Nave”, reparto “modello” per il recupero di detenuti-pazienti con problemi di dipendenza, del suo coro di reclusi e volontari e del Refettorio Ambrosiano, mensa e polo di solidarietà anche culturale della Caritas diocesana.
Il percorso di “attivazione” di Alex
Girato tra il 2017 e l’agosto di quest’anno, narra la forza che la cultura e le diverse forme di espressione artistica possono avere nell’accompagnare tutti gli individui, non solo i detenuti, all’esterno della prigione, fisica o mentale, in cui vivono la propria esistenza. Attraverso lo sguardo di Alex, interpretato da Loris Fabiani, un ragazzo che ha perso il fratello per una storia di droga e che al recupero di chi ha sbagliato non crede affatto, prima di iniziare un “percorso di attivazione”, come lo definisce il regista, emergono l’impegno del volontariato, la cultura, la musica e la bellezza come “chiavi” per la libertà. Non mancano riferimenti al blocco traumatico di ogni attività in carcere causato dal Covid-19 e la volontà di ripresa, che si è concretizzata dall’agosto di quest’anno.
“Exit” all’ultima Mostra del Cinema di Venezia
Il progetto “Exit” è stato presentato alla 78.ma Mostra del Cinema di Venezia, il 9 settembre, nello spazio della Fondazione Ente dello Spettacolo, in un dibattito su “Carcere, società e giustizia” al quale ha partecipato, da remoto, anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha ricordato la sua visita a San Vittore e al reparto “La Nave”, il 15 ottobre 2018, quando era giudice della Corte Costituzionale. “E’ stata uno spartiacque nella mia vita professionale e personale – ha raccontato – uno tsunami esitenziale che mi ha fatto capire come il carcere non sia un pianeta ma una galassia con una pluralità di persone: tutti mondi diversi che hanno bisogno di approcci diversi”.
La ministra della Giustizia Cartabia: la mia visita a “La Nave”
Cartabia non può dimenticare Tiziano, uno dei detenuti, che l’ha portata a vedere da una finestra “qual era la loro vista sul mondo”. “Le carceri devono avere finestre” ha detto, citando Papa Francesco, fisiche ed esistenziali. È un segno di speranza, è una proiezione verso un “oltre”. “La Nave – ha aggiunto la ministra, che conserva ancora la felpa con il logo del reparto, donatale quel giorno – non è un’eccezione ma un primo germoglio di un albero vivo che presto metterà fronde”. Sulla situazione sempre più drammatica delle case di reclusione in Italia, l’ex presidente della Corte Costituzionale ha spiegato che “Non potremo fare miracoli, ma è in atto un cammino: in relazione al carcere si incomincia a capire l’importanza che questo ha per tutta la società, anche se ci sono sensibilità diverse e tanti pregiudizi dovuti principalmente a chi non conosce questa realtà”.
Daria Bignardi: in carcere ricevo più di quello che do
“Il carcere è un concentrato di vita – ha detto la giornalista e scrittrice Daria Bignardi, raccontando la sua esperienza di volontaria nel Coro “La Nave di San Vittore” – e io ricevo molto di più di quello che do”. Volontario nel carcere milanese è anche l’ex magistrato di “Mani Pulite” Gherardo Colombo, fondatore dell’Associazione Sulleregole, che ha ricordato come, nella sua “prima vita”, “mandavo la gente in prigione, ma era una grande sofferenza”. Dimessosi 14 anni fa da giudice della Corte di Cassazione, si è detto convinto che “il carcere è dannoso, e chi è davvero pericoloso dovrebbe stare da un’altra parte”.
Nel docufilm, anche il direttore di San Vittore
Il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, ha sottolineato che il carcere “può essere la cosa più brutta del mondo”, e che spesso si gestiscono anche “patologie psichiatriche” che non competerebbero alle case di reclusione. Ma “La Nave”, ha aggiunto, “è un carcere diverso, con operatori che vengono dall’esterno per curare progetti di recupero”.
L’idea dell’associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”
“Exit” è nato dall’ incontro dell’ associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”, dal quale è partita l’idea del film-documentario, realtà sorta in occasione di Expo 2015 per animare culturalmente il Refettorio Ambrosiano, il luogo che la Caritas diocesana ha fatto nascere nell’ ex teatro della parrocchia di Greco a Milano; l’ associazione “Amici della Nave”, che sostiene il “Coro La Nave di San Vittore” e promuove anche all’ esterno del carcere le attività del reparto La Nave, gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo di Milano; gli attori del “Macrò Maudit Teàter”; l’ associazione culturale “Forte? Fortissimo!Tv”.
Gli attori della fiction e gli intervistati nel documentario
Il film vede la partecipazione di Loris Fabiani, Daria Bignardi e Alessandro Castellucci. Contiene interviste a Pietro Buffa, provveditore dell’ Amministrazione penitenziaria della Lombardia, Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore, Graziella Bertelli, responsabile del reparto La Nave, e don Giuliano Savina, già presidente dell’ associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”. La sigla finale è composta, suonata e cantata da Franco Mussida, già chitarrista della Premiata Forneria Marconi.
Onofrio (Amici della Nave): l’importanza di “fare cose”
A margine della presentazione alla Mostra di Venezia, Vatican News ha raccolto le voci di alcuni dei protagonisti del progetto Exit come Eliana Onofrio, presidente dell’associazione “Amici della Nave”.
Eliana Onofrio, perché promuovere e sostenere un documentario che racconta “La Nave”?
“La Nave” è un reparto meraviglioso che esiste all’interno di San Vittore, la casa circondariale di Milano, che meritava di essere raccontato. Noi ci lavoriamo da tanto tempo, sono quasi 15 anni che “La Nave” è nata, ed è un’esperienza pilota perché c’è un recupero delle dipendenze di tutti i pazienti, che noi chiamiamo “i marinai” all’interno, per non chiamarli detenuti, e che decidono di fare una sorta di contratto, accettando di declinare la loro attività, dalla mattina alla sera, facendo delle cose. Noi abbiamo capito che il “fare cose” all’interno del carcere, ha come risultato davvero il recupero dell’ospite del carcere. Il film racconta sostanzialmente di queste esperienze di volontariato. Sentendo le parole della ministra Cartabia e di Daria Bignardi che da tanti anni fa volontariato insieme a noi, si capisce che è necessaria questa osmosi tra il dentro e il fuori. E’ necessario che i detenuti non rimangano “a fare niente”, ma che vengano invitati, tramite gli stimoli che i volontari riesco a dare, a “fare delle cose”. Che sono le attività più disparate: dal cantare, che è liberatorio e condivide il gusto della musica e la bellezza, al lavorare, ad esempio alla pubblicazione di un giornale. All’interno di San Vittore, noi riusciamo a fare “L’oblò”, che è una rivista di ascolto e di riflessione su alcuni temi, gestita e guidata da due giornalisti, con l’intenzione di recuperare le riflessioni di questi detenuti. E’ un mensile edito da Feltrinelli, che è gratuito e si trova nelle varie librerie di Milano. All’interno de “La Nave” vengono fatte tante altre attività di volontariato che sono molto importanti proprio perché mettono in condizioni il detenuto di non rimanere fermo sulla propria pena, ma di cercare di fare un passo in avanti. Per consentirgli poi di arrivare fuori, scontata la pena, pronto a riprendere in qualche modo una vita che se no si sarebbe interrotta. Quindi il compito della nostra associazione “Amici della Nave” è quello di fare un lavoro di promozione all’interno del carcere e di continuare a fare questa promozione all’esterno, per creare un ponte tra fuori e dentro.
Dal documentario emerge, ed è stato detto anche nella presentazione, che è più quello che il volontario riceve, nell’esperienza di servizio in carcere, rispetto a quello che da’? E’ proprio così?
Assolutamente sì, parlo per esperienza personale. Io sono entrata un po’ in punta di piedi, quasi timorosa, nel carcere di San Vittore, oramai nel 2017. Ero entrata per partecipare come volontaria al coro e all’interno del carcere ho ricevuto una valanga di emozioni, di storie, sono stata molto in ascolto di queste persone. Ed è vero che si esce arricchiti, si esce con una testa completamente diversa: io non conoscevo determinate realtà, nelle quali mi sono calata e mi hanno fatto capire davvero che può riuscire a recuperare. Queste persone vanno aiutate a reinserirsi tramite questa osmosi del volontariato e del carcere.
Come è stato detto sempre alla presentazione, anche lei crede che questo documentario aiuterà chi ha “le sbarre nella testa”, a togliersele?
Lo spero vivamente, perché è esattamente quello che è accaduto a tutti noi che facciamo i volontari. Abbiamo veramente cambiato, “switchato” come si usa dire adesso, il modo di pensare. Credo che anche la ministra Cartabia, che ho avuto il piacere di conoscere in occasione della sua visita del 15 ottobre del 2018 abbia ben sintetizzato la cosa. C’è un prima o un dopo, rispetto al momento in cui una persona mette piede in un carcere. Uno deve vedere, rendersi conto, capire e fare. Credo che non ci sia esperienza migliore che entrare e provare.
Khalid: sono una persona, non il reato che ho commesso
Alla presentazione del Lido di Venezia ha partecipato anche Khalid Boulad, 37 anni, originario del Marocco, uscito da “La Nave” due anni fa.
Khalid, cosa è stato per lei entrare nella “Nave”, anche se era comunque in carcere? Cosa le è rimasto di quell’esperienza?
Se sono qui a parlare, in questo bellissimo posto, è grazie a loro. Perché nonostante io abbia finito la carcerazione, abbiamo mantenuto un legame, mi invitano spesso ai vari eventi. Quando sono entrato in carcere, mi hanno parlato della Nave, ma all’inizio non volevo andarci. Pensavo: “Già devo scontare una pena, perché devo farmi sgridare da qualcuno perché non seguo le attività?” Sentendola descrivere sembra una passeggiata, ma non lo è. Perché dalla mattina fino alle 6 di sera sei impegnato, anche nei gruppi, dove devi metterti a nudo davanti agli altri, raccontando cose di te che magari fuori dal carcere non eri abituato a raccontare, perché avevi un certo potere. Nella Nave ti metti a livello di tutti gli altri, nessuno è più criminale dall’altro o ha più soldi. La cosa che ci accomuna è la tossicodipendenza. Per cui “Nave” per me è stata una rampa di lancio per il reinserimento nella società di oggi.
Le hai detto qui alla presentazione che “La Nave” l’ha aiutata a non essere il reato che ha commesso. Questo è stato importante per lei…
Si, mi è rimasto impresso, quando all’inizio entravano le scuole, una volta a settimana, noi dovevamo spiegare ai ragazzi tutto quello che si faceva all’interno della “Nave” e per prima cosa iniziavamo sempre descrivendoci solamente nella nostra parte criminale e trascurando che dietro il reato c’era una persona. Io ho anche studiato, ho fatto la terza media qui in Italia, il centro formazione professionale. Però queste cose non le raccontavo mai. Invece nella “Nave” mi hanno fatto sentire una persona, riscoprire tante capacità e risorse che avevo che adesso metto a frutto. Ma anche mi hanno insegnato a sapermi accontentare. Oggi ogni 10 del mese mi arriva lo stipendio è una gioia immensa. Prima magari 1200 euro li guadagnavo in una giornata, adesso aspetto un mese ma sono più contento di riceverli.
Quello che è adesso quindi lo deve anche a “La Nave”. Ma l’hanno aiutata anche ad inserirsi nel mondo del lavoro?
Loro mi hanno aiutato molto, perché nelle relazioni hanno sempre riferito del mio buon comportamento, facendo filtro con i magistrati. Adesso sono in una comunità di recupero, la Comunità Emmanuel, ma comunque sempre grazie a loro. Sono sereno, sto facendo la vita che io ho una volta chiamavo “da sfigati”, adesso mi piace e sono molto orgoglioso della scelta che ho fatto. Come lavoro, la mattina accompagno dei ragazzi disabili con il furgone nel centro riabilitativo, e nel pomeriggio curo il verde nella Cooperativa Agnese, sempre con la Comunità Emmanuel.
Gualzetti (Caritas): togliere le sbarre nella testa di tanti
Il direttore della Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti, ha sottolineato che il lavoro del volontariato è innanzitutto culturale: “Riuscire a togliere le sbarre che sono nella testa delle persone” che non conoscono il carcere. “Chi non è veramente pericoloso – ha aggiunto – deve poter fare altri percorsi, pene alternative al carcere”. “I volontari – ha concluso – sono cittadini non rancorosi che hanno fiducia negli altri, con una sensibilità che possono trasmettere a tanti”.
Luciano Gualzetti, credo che “Exit” sia uno dei primi documentari che veramente vede un luogo, un evento, come il carcere dalla parte del volontario. Quanto è importante questo per far capire sia la vostra attività, sia qual è la realtà del carcere?
La presenza del volontario in queste situazioni, in particolare quella del carcere, è fondamentale per rendere permeabile questo mondo, per creare gli anticorpi che fanno emergere le contraddizioni che oggettivamente in un luogo come il carcere si manifestano. L’aspetto più delicato che la Caritas cerca di affrontare è certamente quello culturale. Attraverso questa presenza dei volontari, non riusciamo anche a far mettere nei panni dei detenuti persone che magari non riescono a entrare o che magari temono il carcere. O addirittura teorizzano che il carcere sia l’unica pena possibile, che le pene alternative non ci debbano essere perché bisogna gettare le chiavi per coloro che hanno commesso dei reati. In realtà ogni persona può ripartire, ogni persona ha diritto di una chance, di un’opportunità per ripartire e per inserirsi come cittadino nella comunità di tutti. Questo conviene anche alle persone che magari hanno paura del carcere. Questo lavoro culturale noi lo facciamo nei nostri luoghi: quello più emblematico è il Refettorio Ambrosiano, il luogo in cui è nata l’idea di questo film, “Exit”. È un luogo appunto che cerca di promuovere la bellezza e una riflessione culturale che arriva anche a coloro che non sono convinti di questo, perché il vero problema è togliere le sbarre nella testa delle tante persone che credono che il carcere sia l’unica soluzione.
Cosa può fare il mondo del volontariato perché esperienze come quelle della “Nave” non restino in un’eccezione nelle carceri italiane? Può essere utile anche un’azione di lobbying e di sensibilizzazione delle istituzioni?
Perché esperienze come “La Nave” non rimangano isolate, non siano eccezioni, ma riescano a contaminare anche le altre carceri, ci vuole una grande opera culturale. Ci vuole una grande coinvolgimento dei volontari nelle situazioni carcerarie, che cerchino, nei contesti in cui operano che sono tutti diversi, di capire quali sono le condizioni per dare una possibilità al carcerato di riscattarsi, di avere una chance per ripartire attraverso il lavoro, attraverso le attività del canto, piuttosto che culturali. Tutto questo ha bisogno di una forte sensibilizzazione delle istituzioni carcerarie, ma soprattutto della presenza di volontari che si mettono in gioco e fanno vedere che c’è fiducia in questi progetti, e che c’è fiducia nei carcerati, perché possano veramente ripartire per una vita nuova.
Il regista Sgarella: riprese a san Vittore dal 2017 al 2021
Il regista Stefano Sgarella, infine, ha definito “Exit” un “tributo al volontariato”, che non poteva essere solo un film, perché non avrebbe potuto esprimere i volti, gli occhi e i sorrisi dei detenuti e dei volontari del Coro della Nave.
Stefano Sgarella, perché un documentario e non un film su “La Nave”?
Perché è impossibile con un film riuscire a far vedere e far rivivere quella parte emozionale così forte della realtà che c’è quando dei volontari entrano in carcere e insieme ai carcerati costruiscono quel percorso di rinnovamento. Il rinnovamento della persona che quel momento sta vivendo una situazione difficile. Quindi abbiamo scelto di documentare dal 2017 a oggi, le attività del coro della “Nave” di San Vittore e cercare di indagare quelle motivazioni che anche i detenuti hanno nel cercare di ricostruire se stessi all’interno di un reparto così difficile. Perché è un reparto dove ci sono anche detenuti che sono dipendenti o hanno problemi di dipendenza.
Che esperienza è stata per lei, come regista entrare in carcere, filmare e poi vivere insieme ai detenuti?
Entrare nel carcere e filmare questi momenti di grande emozionalità è stato importante perché ti insegna a capire quanto è importante per i volontari stessi attivarsi per aiutare gli altri a dare una nuova direzione alla propria vita. Noi in “Exit” abbiamo raccontato questo percorso di attivazione e azione che i volontari fanno nel momento in cui scelgono di entrare nel carcere e aiutare chi ha avuto percorsi difficili.
La scelta degli attori è stata legata anche alla conoscenza e alla sensibilità che possono avere del mondo del carcere e del volontariato?
Gli attori che hanno partecipato alla parte di fiction di “Exit” sono anche volontari all’interno delle carceri, quindi hanno vissuto questo percorso. Alcuni di loro, come Alessandro Castellucci, hanno fatto dei corsi di recitazione per detenuti all’interno del carcere di San Vittore e alcune immagini che vediamo all’interno del docufilm sono proprio state registrate con attori della compagnia “Macro Maudit” di Milano, che Castellucci dirige, e con la quale ha costruito questi percorsi formativi per i carcerati.