Il deserto del Sahara, frontiera mortale per i migranti

Vatican News

Secondo un recente Rapporto Onu, il viaggio che migranti e rifugiati intraprendono attraverso il deserto africano è più fatale dell’attraversamento del Mediterraneo, a sua volta una delle rotte migratorie più pericolose al mondo. Oltre un migliaio di persone vi hanno perso la vita negli ultimi tre anni. Cochetel (Unhcr): il 79% si è pentito di aver deciso di partire. Per il 70% di coloro che hanno lasciato i propri Paesi, la Libia finisce per essere il luogo di approdo

Delphine Allaire – Città del Vaticano

Se il Mediterraneo è un cimitero, il deserto è un calvario. Per l’ultimo Rapporto “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori” – pubblicato dall’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e dal Mixed Migration Centre (MMC) – l’UNHCR ha intervistato 32.000 migranti e rifugiati, nei cui racconti c’è la descrizione dei cadaveri disseminati sulla sabbia del Sahara. Hanno confidato la paura di morire durante la traversata in fuga dai propri Paesi, fatale per molti. Oltre il 60% di coloro che arrivano in Libia dichiara di aver raggiunto la propria destinazione finale.

Vincent Cochetel, inviato speciale dell’organismo delle Nazioni Unite per il Mediterraneo occidentale e centrale, ha presentato il documento a Ginevra agli inizi di luglio e ne illustra i dettagli a Vatican News

Ascolta il podcast in francese

Perché attraversare il Sahara è più pericoloso che attraversare il Mediterraneo?

Il primo pericolo di cui ci parlano i migranti e i rifugiati sono gli attacchi di bande criminali che li derubano privandoli di tutti i loro averi. Per le donne c’è un rischio maggiore di violenza sessuale su queste rotte. C’è poi la violenza esercitata da parte dei contrabbandieri o le minacce dei trafficanti: estorsioni, lavoro forzato e talvolta sfruttamento sessuale. I pericoli vengono anche dalle autorità ai posti di frontiera, persone che abusano della loro posizione per estorcere denaro a questi sfortunati e non solo sulle rotte verso il nord dell’Africa o verso l’Europa via mare, ma anche sulle rotte verso l’interno e il sud del continente africano. Hanno visto persone morire nel deserto, persone cadute dai camion e non raccolte dai contrabbandieri, persone malate abbandonate in mezzo al nulla. La maggior parte di loro ha visto cadaveri su queste strade nel sud dell’Algeria, nel nord del Niger e nel sud della Libia, ma anche in altre zone del Sahara. Quando viene posta la domanda: “Conosci qualcuno che è morto in mare?”, le risposte sono molto meno numerose. Sulla base di queste testimonianze, pensiamo dunque che siano molte di più le persone che muoiono sulla terraferma che in mare. 

Il Sahara è un “buco nero” per le Ong e le istituzioni internazionali?

Assolutamente sì. Ci sono molti buchi neri come questo, ai quali nessuno ha accesso, o comunque ce l’hanno pochissime persone. Per le organizzazioni internazionali è molto difficile recarsi sul posto a causa delle condizioni geografiche estreme ma anche perché alcuni governi non vogliono che le organizzazioni umanitarie siano testimoni di questa violenza, segreta e taciuta. Si tratta di un fenomeno, quello delle morti nel deserto, che ottiene molta meno copertura mediatica perché è meno visibile di una barca in difficoltà nel Mediterraneo. Le organizzazioni umanitarie devono trovare altri canali di informazione: lavorare un po’ di più con i leader tradizionali, con le autorità locali, che sono testimoni e a volte anche vittime di queste bande. Lavorare su un sistema di ricerca, identificazione e rinvio di queste persone che controllano piccole città e oasi su queste rotte.

Qual è il profilo dei migranti che tentano la traversata del deserto? I loro Paesi di origine stanno cambiando?

In generale, il profilo non cambia molto. Dipendiamo molto dai dati forniti dagli Stati. Quando migranti e rifugiati attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, circa una persona su due ottiene asilo o un permesso umanitario in Europa. Una persona su due è quindi considerata bisognosa di protezione internazionale. L’altra persona generalmente lascia il proprio Paese per motivi economici o per studiare in Europa o altrove. Nel continente africano, la situazione è più o meno la stessa. La maggior parte dei migranti e dei rifugiati rimane nel continente africano. Il 70% rimane nel Paese vicino a quello di origine con l’intenzione, quando le cose andranno meglio, di tornare a casa. Gli unici cambiamenti recenti che hanno avuto un impatto su questa mobilità verso il Nord Africa sono la crisi del Sudan – 10 milioni di sfollati – e la guerra in Mali e Burkina Faso, che ha portato molti cittadini di questi Paesi all’esilio. Ancora una volta, non tutti si sono diretti verso il Nordafrica: molti burkinabé sono andati verso i Paesi del Golfo di Guinea, in Africa occidentale.

Una volta superati i pericoli del Sahara, si vuole ancora attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa?

Nel proprio Paese, il 21% delle persone intervistate aveva affermato di avere in mente una destinazione e che, indipendentemente dalle informazioni sui pericoli, avrebbe fatto del proprio meglio. Il 79% si è pentito di aver fatto questa scelta: se avessero saputo quali sarebbero stati i rischi reali, non avrebbero intrapreso il viaggio. È piuttosto interessante. Per molti la Libia è la destinazione finale. Il 70% delle persone ha raggiunto la sua destinazione finale quando arriva in Libia. 

Quali politiche di accoglienza sono in atto nei Paesi del Nord Africa alla fine del viaggio sahariano? Quali violazioni e abusi sono stati denunciati?

Il problema principale è che tutti i Paesi del Nord Africa hanno ratificato gli strumenti internazionali relativi alla protezione dei rifugiati, siano essi strumenti internazionali o regionali, ma nessun Paese del Nord Africa ha una legge sull’asilo. Tutti gli altri Paesi del continente africano hanno sistemi di asilo che funzionano più o meno bene, cosa che non accade in Nord Africa. Questi Paesi ci dicono sempre che sono Paesi di transito. Ma non è vero. All’epoca della pandemia di tre anni fa, nei Paesi nordafricani abbiamo visto comunità di ogni tipo, sia di migranti che di rifugiati, la maggior parte dei quali lavorava nel settore informale dell’economia. Ma senza un quadro legislativo, queste persone non hanno diritto di residenza. La loro situazione è molto precaria. E non appena si verificano incidenti, perché ci sono frizioni in alcune comunità, c’è il rischio che le cose finiscano male, come le ondate di espulsioni dall’Algeria al Niger, dalla Tunisia alla Libia, all’Algeria, dalla Libia ad altri Paesi vicini. Queste espulsioni di massa non sono la soluzione, perché le persone vanno in altri Paesi e poi ripartono.

Quali soluzioni di protezione possono essere elaborate per migliorare l’assistenza su queste rotte sahariane, e da quali attori?

Gli Stati devono mettersi d’accordo. Nessun singolo Stato può affrontare le sfide di una migliore gestione di questi movimenti nel continente. Dobbiamo lavorare su un approccio basato sul percorso, sui sentieri che le persone percorrono. Le dinamiche all’interno delle comunità non sono necessariamente le stesse, quindi dobbiamo anche scoprire chi li influenza, come finanziano i loro viaggi, quali attività del programma hanno un valore stabilizzante, dove è necessario migliorare la protezione e lavorare sul ritorno; ci sono persone che hanno bisogno di assistenza per tornare a casa. È necessario mettere in atto un’intera gamma di attività, non solo da parte delle organizzazioni umanitarie. Gli Stati devono assumersi la responsabilità di queste soluzioni basate sullo studio sul terreno, e non dobbiamo abbandonare questo obbligo di solidarietà. Prima di tutto, dobbiamo salvare vite umane, indipendentemente dallo status delle persone coinvolte, che siano rifugiati o migranti. È una denominazione importante ma non in termini di aiuti di emergenza. Il trafficante non sa se una persona è un migrante o un rifugiato. L’Europa deve anche aiutare i Paesi che si trovano lungo queste rotte a mettere in atto meccanismi di protezione e assistenza che forniscano alternative dignitose a viaggi pericolosi e irregolari. Un po’ nello spirito di ciò che gli Stati europei hanno adottato con alcuni Stati africani al vertice de La Valletta nel 2015.