Adriana Masotti – Città del Vaticano
La pandemia da Covid-19, dentro cui ci troviamo ancora in pieno, a dispetto delle speranze e delle nostre previsioni, è stata anche un rivelatore della nostra vita personale e sociale e di come va il mondo globalmente. Ha fatto luce ad esempio sulle disuguaglianze esistenti e oggi, a causa del coronavirus, aumentate. In particolare il libro edito da Città Nuova “Dopo la pandemia”, scritto a due mani, dal sociologo Pierpaolo Donati e dal fisico e teologo Giulio Maspero, intende mostrare che la pandemia ci ha rivelato qualcosa che la modernità aveva rimosso: la realtà delle relazioni sociali. “È attraverso le relazioni che le epidemie di ogni genere si diffondono. Serve – è la loro tesi – una nuova visione creativa e soprannaturale delle relazioni affinché siano portatrici di bene”.
Un anno per scoprire l’importanza delle relazioni
Da mesi il nostro stile di vita si è modificato radicalmente, ma come sarà la vita sociale quando il Covid-19 sarà stato debellato? Ritorneremo alla vita di prima, puntando ancora su obiettivi come benessere e progresso, o dovremo adottare altre modalità e altri valori? I due autori si interrogano sugli effetti della pandemia sulle nostre relazioni sociali: distanziamento fisico, didattica a distanza, smart working sono stati e sono la nostra nuova quotidianità. Offrono dei vantaggi, ma con il passare dei mesi ci siamo resi conto che le relazioni sociali sono un elemento essenziale della nostra vita, non sostituibile con i mezzi di comunicazione digitale. Ma in cosa consistono le relazioni e come rimodularle tenendo conto dell’esperienza vissuta con la pandemia? Nel volume i due autori offrono una pista illuminante di riflessione sull’argomento, spiegando come e perché è necessario creare una nuova visione relazionale della vita umana e dell’organizzazione sociale.
Donati: distanziamento fisico non è distanziamento sociale
Una apparente contraddizione che emerge da questo strano tempo: la pandemia ci obbliga a stare lontani e ci dice però quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri. Come mettere insieme questi due elementi? Nell’intervista a Vatican News, risponde a questo e a tanti altri interrogativi Pierpaolo Donati, uno dei due autori del libro “Dopo la pandemia”. Professore Alma Mater (PAM) di Sociologia nell’Università di Bologna, già presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia, dal 1997 Donati è membro della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. È internazionalmente conosciuto come fondatore di una originale Sociologia relazionale o Teoria relazionale della società:
R. – In realtà ciò che vediamo è quello che le pandemie portano con sè, cioè il bisogno di stare distanti un po’ gli uni dagli altri. Ora, le relazioni sono come l’aria, cioè sono invisibili, ma realissime, senza l’aria non viviamo, così anche senza relazioni non possiamo vivere e quindi il problema è capire come gestire queste relazioni. La pandemia è stata quella che nel libro chiamo una ‘epifania delle relazioni’, cioè ha rivelato la realtà delle relazioni, che non dipendono dalla nostra volontà, dai nostri desideri, ma sono una realtà esterna a noi che emerge nelle interazioni tra le persone. Allora non è tanto che ci obbliga a stare lontani quanto direi a prendere le distanze, però qui dobbiamo imparare a distinguere tra la distanza fisica e la distanza sociale, cioè relazionale, il problema è che la modernità non ci ha insegnato a gestire le relazioni. La distanza fisica è una distanza spaziale, un metro, due o tre dall’altra persona, la distanza sociale invece è distanza della relazione e si può stare in relazione anche a una certa distanza fisica. Ma per questo dobbiamo vedere le relazioni, cioè sapere che esiste qualcosa tra me e l’altro e le altre persone e che dobbiamo gestire la relazione assieme, non è semplicemente quello che sono io e quello che sei tu. Il problema è che non abbiamo una cultura della relazione perché la modernità ci ha spiegato che la relazione è una proiezione dell’io, dei suoi desideri e opinioni, mentre invece la relazione è una realtà oggettiva che non dipende nè da me nè da te, anche se siamo noi che dobbiamo creare questa relazione.
Qualche giorno fa, ho sentito un papà dire a suo figlio, un bambino di 5/6 anni: ti avevo detto di stare lontano dalle persone… Gli altri sono un pericolo. E domani? Come crescerà il sentimento di fiducia nei bambini che stanno vivendo questo tempo?
R.- Certamente questa generazione di bambini e di ragazzi che non possono, diciamo, vivere una vita relazionale ricca, ma devono gestirla in modo limitato, crescono con un bisogno di di fiducia molto più forte, rispetto che nel passato È proprio per questo che dobbiamo insegnare loro che la fiducia è una relazione. Non è un sentimento soggettivo, ma è un modo di gestire il rapporto con l’altro, che cosa facciamo io e l’altro insieme. Quindi ai bambini va spiegato che la distanza fisica che devono avere non è la stessa cosa che la distanza relazionale: la distanza relazionale presuppone un’apertura, diciamo così, di credito all’altro, però sapendo che ci sono sempre dei rischi nel rapporto con gli altri. Ai bambini va insegnato proprio questo, che bisogna gestire le relazioni.
Il tema delle relazioni è balzato in primo piano come una cosa bella e desiderabile perfino nelle pubblicità televisive. Un traguardo da raggiungere. Intanto dobbiamo continuare a tenerci collegati con gli strumenti che ci offre la tecnologia che sono meravigliosi, ma il ricorso a queste modalità ha qualche conseguenza su di noi, a lungo andare?
R. – Certamente, ci sono delle conseguenze enormi che vanno sotto il capitolo della ibridazione delle relazioni. Nel senso che le dimensioni umane della relazione e quelle tecnologiche si ibridano, e il problema, ancora, è che non abbiamo una cultura delle relazioni, non sappiamo distinguere la relazione interpersonale faccia a faccia, dalla relazione mediata dalla tecnologia. Quanto più usiamo le tecnologie che mediano la relazione con gli altri, quanto più gli elementi della tecnologia – cioè il modo di funzionare della tecnologia – entra anche nella mente. Cioè noi ci adattiamo al mezzo e in questo modo ibridiamo la nostra identità perché questa diventa la nostra immagine, la fotografia che mettiamo sui social ecc… Quindi bisogna stare attenti a distinguere le relazioni interpersonali da quelle mediate tecnologicamente. Per molte persone sono la stessa cosa e anche molti studiosi lo dicono, ma non è vero.
Non solo zoom, messaggi sul cellulare e videochiamate. C’è anche il lavoro da casa che ci tiene lontani dai colleghi e per i ragazzi la didattica a distanza. Modalità che offrono vantaggi, ma che hanno anche molti limiti…
R. – E anche qui, di nuovo, c’è la scoperta che il lavoro è una relazione sociale, che studiare, che l’educazione è una relazione sociale e non è semplicemente il lavoro come prestazione funzionale, cioè fare un certo compito, questo si può fare anche al computer da casa, o l’educazione non è mera istruzione, cioè trasferimento di una conoscenza informatica e tecnologica, ma che c’è una socialità implicata nel lavoro nell’educazione. Allora che cosa fare? Beh, bisogna appunto pensare che lo smart working, il lavoro agile come si dice, o a distanza, va bene, ma bisogna dosarlo e bisogna sempre combinarlo con altre forme di collegamento tra colleghi di lavoro o tra l’insegnante e l’alunno. Io faccio sempre l’esempio anche nella messa del “Datevi il segno di pace”: molti sacerdoti evitano questo perchè giustamente non ci si può dare la mano, però tra il non far nulla e avere un segno di pace che sia un inchino, un saluto con la mano ecc…, questo ha un valore enorme perché significa sentire che siamo persone umane fatte anche di un corpo che ha bisogno di relazionarsi e non soltanto una mente: ci sono tante altre forme, non abbiamo mobilitato le comunità, le reti comunitarie per far fronte alla pandemia, in modo da avere un lavoro, un’educazione meno sostituibile dalle tecnologie.
Qual è l’indicazione che viene dall’analisi contenuta nel testo?
R. – Il messaggio del libro è che non si tratta di ritornare a una supposta normalità del passato, che non si tratta neanche di ricostruire, nel senso di ricostruire quello che avevamo e che abbiamo perso, ma si tratta di rigenerare la società, cioè generarla nuovamente. E questo significa fare attenzione alle relazioni, imparare come sono fatte, gestire le relazioni interpersonali per una maggiore umanizzazione delle persone, anche per non cadere nel mito tecnologico. C’è in tanti l’idea che le epidemie del futuro si potranno risolvere con la tecnologia, oppure con i vaccini. Il libro indica una conversione che vuol dire cambiare direzione. Dobbiamo capire che la relazionalità tra le persone è un fatto culturale di umanizzazione, non è la movida, l’assembramento. Per molti oggi è un oscillare continuo tra il “mi chiudo, sto in casa e non vedo nessuno” e il “faccio il branco, mi metto in maniera gregaria in un mucchio di persone perchè mi piace questo stare insieme agli altri”. Dobbiamo invece imparare a gestire le relazioni, capire che attraverso le relazioni dobbiamo diventare più umani. E non individualmente, perchè la relazione è triadica, non è mai individuale, implica che ci siano almeno due persone, ma la relazione come tale è il terzo della relazione.
Immagino che questo terzo sia il risultato, diciamo, chimico che si produce tra le due persone. E’ così?
R. – Sì è così, e a questo proposto vorrei evidenziare che i due ultimi papi, Benedetto XVI e Papa Francesco, hanno dato una spinta in questa direzione, cioè sono pensatori relazionali. Benedetto XVI nella Caritas in veritate scrive che dobbiamo guidare la globalizzazione dell’umanità in termini relazionali di condivisione dei beni relazionali e, sempre Benedetto, dice che l’umano è la relazionalità. E Papa Francesco è un pensatore relazionale per eccellenza, perché lui dice che tutto è connesso con tutto. Ma nella Fratelli tutti scrive addirittura che per il pensiero cristiano la primazia deve essere data alle relazioni, cioè all’incontro del mistero sacro dell’altro, cioè la comunione universale con l’intera famiglia umana, che è una vocazione di tutte le persone, di tutti gli esseri umani. Che la primazia vada data alla relazione significa superare l’individualismo, superare quel modello di società verso cui stavamo andando prima della pandemia, che è un modello di società dei consumi individualistici. La Trinità è relazione, quindi se il mondo è stato fatto da Dio a sua immagine, vuol dire che il mondo è ontologicamente relazionale, è questo che noi non riconosciamo. E questo coinvolge la vita umana e naturale, le scienze sociali e la teologia. Ecco perché abbiamo scritto il libro in due, un sociologo e un telogo.