L’Osservatore Romano
La prima cosa da fare a Natale è credere all’amore di Dio per l’uomo. È questo, in sintesi, il messaggio al centro della terza e ultima predica d’Avvento tenuta oggi, nell’Aula Paolo VI, dal cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa, alla presenza di Papa Francesco. «L’atto di carità tradizionale, almeno nella recita privata e personale — ha spiegato in proposito il porporato — non dovrebbe cominciare con le parole: “Mio Dio, ti amo con tutto il cuore”, ma “Mio Dio, credo con tutto il cuore che tu mi ami”».
Il predicatore della Casa pontificia ha scelto per quest’anno, com’è noto, il versetto tratto dal salmo 24, 7 — «Sollevate, porte, i vostri frontali, apritevi, porte antiche, ed entri il re della gloria» — intendendo «per le porte da aprire quelle delle virtù teologali: fede, speranza e carità». E proprio quest’ultima, «la porta più interna del “castello interiore”», una volta dischiusa, permette di «aprire a Cristo la porta dell’amore».
Ma questo cosa significa? Esistono innumerevoli trattati sul dovere e sui gradi dell’amore di Dio, in altre parole, sul «Dio da amare». Una sola però è la strada che il fedele deve seguire: accogliere l’amore del Padre e crederci fermamente, visto che «Natale è la manifestazione — alla lettera, l’“epifania” — della bontà e dell’amore di Dio per il mondo». A prima vista sembra facile, ha avvertito il cardinale, ma in realtà «è tra le cose più difficili al mondo. L’uomo è più incline ad essere attivo che passivo, a fare, più che a lasciarsi fare. Inconsciamente non vogliamo essere debitori, ma creditori; vogliamo, sì, l’amore di Dio, ma come premio, piuttosto che come dono».
Per evitare ciò, ha consigliato Cantalamessa, occorre ritornare bambini, i quali «credono all’amore, ma non in base a un ragionamento». Tanto che «Gesù raccomanda spesso di diventare come loro per entrare nel suo Regno». Diventare fanciulli: cosa non facile ma che ogni credente, come battezzato, è invitato a fare, in una sorta di «rinascita e di un battesimo “nello Spirito”, o “dall’alto” (Gv 3, 3), che può rinnovarsi più volte nell’arco della vita». Come quello che gli apostoli e i discepoli sperimentarono a Pentecoste — ha portato a titolo di esempio il porporato — e che «anche noi dovremmo desiderare per conoscere in qualche misura quella “novella Pentecoste” che Papa san Giovanni xxiii chiese a Dio per tutta la Chiesa nell’annunciare il Concilio».
L’amore di Dio, ha proseguito il predicatore della Casa pontificia, ha quindi un aspetto oggettivo che chiamiamo grazia santificante, o carità infusa; ma comporta anche «un elemento soggettivo, una ripercussione esistenziale, come è nella natura stessa dell’amore». Non bisogna allora dimenticare, ha sottolineato, l’aspetto edificante della carità, che è «ciò che costituisce la realtà invisibile della Chiesa, la societas sanctorum, o comunione dei santi, come la chiama Agostino». Essa «è l’unica che rimane cessate le Scritture, la fede, la speranza, i carismi, i ministeri e tutto il resto».
La carità non edifica però soltanto la società spirituale che è la Chiesa, ma anche la società civile, in cui deve prevalere quello che il santo vescovo di Ippona definisce l’amor socialis, cioè «l’amore del bene comune». Concetto, questo, che impone a tutti i cristiani di agire affinché sia ridotto il divario «tra un ridotto numero di ricchissimi e lo sterminato numero dei diseredati della terra».
In un’ulteriore analisi del tema trattato il cardinale, richiamando san Tommaso d’Aquino, ha osservato che la grazia suppone la natura, non la distrugge, ma la perfeziona. Applicando pertanto tale assunto alla terza virtù teologale, si può comprendere «che la carità suppone la capacità e la predisposizione naturale dell’essere umano ad amare ed essere amato. Questa capacità ci può salvare oggi da una tendenza in atto che porterebbe, se non corretta, a una vera e propria “disumanizzazione”», ha chiarito Cantalamessa. Anche se, ha rassicurato, «nonostante tutti i nostri errori e misfatti, noi esseri umani non siamo — e non saremo mai — di troppo sulla terra!». Con la venuta di Cristo, infatti, «il grande fiume della storia è arrivato a una “chiusa” e riparte a un livello più alto», in quanto è stato «colmato il grande “dislivello” che separava Dio dall’uomo, il Creatore dalla creatura».
Con la nascita del Salvatore, ha concluso il predicatore, l’amore del Padre «è davvero diventato un bambino, noi sappiamo che esso è ormai una realtà, un evento, anzi una persona». La cosa più bella che si può fare a Natale, allora, non è soltanto offrire qualcosa a Dio «ma accogliere con stupore il dono che Dio Padre fa al mondo del suo stesso Figlio».