Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
“Non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne anche padri o madri. L’adozione è tra le forme più alte di amore e di paternità e maternità”
Gabriele Guarrera era in macchina diretto verso la campagna quando ha sentito tramite la Radio Vaticana, di cui è assiduo ascoltatore, le parole del Papa durante l’udienza generale. Non nega lui, 71 anni, genitore adottivo di due ragazzi provenienti dalla Colombia, di aver avuto un sussulto. “Le parole del Papa confermano la mia idea di una famiglia che si completa con i figli”, dice a Vatican News. “È quello che ho pensato adottando. Non mi sentivo del tutto completo, io e mia moglie desideravamo un bambino, anzi tanti bambini”. Un’operazione chirurgica a cui la moglie Giuseppina, 70 anni, si era sottoposta anni prima per un tumore l’aveva però resa sterile. La coppia di Roma, sposatasi nel 1987, l’ha scoperto anni dopo. Inizialmente non ha rappresentato un grave problema, poi però è divenuta forte “la mancanza”: “Vista questa impossibilità naturale, ci siamo orientati verso l’adozione, anche confrontandoci con coppie di amici che lo avevano fatto e ci hanno riportato esperienze bellissime”. “Ci siamo finiti quasi per caso, trascinati dagli eventi, da porte che si chiudevano”, rammenta Giuseppina.
Pratiche e lungaggini
Le pratiche sono iniziate nel 1993, in mezzo a lungaggini e interruzioni: “Alla fine tutto è andato in porto nel ’97. Sono passati cinque anni, tanto tempo”. Pochi gli ostacoli burocratici, nessun problema tra la coppia e il Tribunale dei Minori: “Ci siamo messi senza maschere e senza la corazza di quelli risoluti e motivati davanti a istituzioni e psicologi per avere l’idoneità. Ci siamo mostrati per quello che eravamo”, dice Giuseppina. Erano però altri tempi e all’epoca non erano ancora attive le associazioni per le adozioni all’estero: “In un certo senso ci siamo dovuti organizzare tra di noi”.
Verso la Colombia
Grazie a un sacerdote appartenente al Cammino Neocatecumenale, del quale la coppia fa parte da oltre cinquant’anni, lo sguardo è andato alla Colombia: “Paese vivace, giovane, allegro, tutto è stato abbastanza veloce lì. Abbiamo subito ricevuto una lettera del Tribunale dell’infanzia che ci indicava un bambino di Bogotà”, Jenderson, chiamato Andy.
L’incontro con Andy
Fatti i bagagli, i Guarrera sono arrivati dopo un volo di circa quindici ore nella capitale colombiana. Lì il primo “incontro” con Andy: prima virtuale, con le foto e la lettera con le generalità presentata dall’Istituto dell’infanzia, poi dal vivo in una struttura chiamata ‘Il mio secondo focolare’, che accoglieva orfani e bimbi di strada. Andy era stato lasciato lì dal padre quando aveva circa 3-4 anni e al momento dell’adozione ne aveva 7: “Il papà aveva avuto vari figli da varie donne e la mamma, giovanissima, era scappata di casa con tutti i beni. Il padre si è trovato da solo e non si è sentito più in grado di seguirlo: da un certo punto di vista è stata un’assunzione di responsabilità. Era una persona disorganizzata, lavorava fuori città nelle piantagioni di caffè di giorno e come vigilante di notte e non era presente con i due figli: oltre a Andy c’era infatti una sorella più grande che gli ha fatto da mamma e di cui lui ancora ha ricordi e che ha avuto modo di rincontrare in diversi momenti. All’epoca il papà ha pensato, di nascosto dalla figlia maggiore, di lasciare Andy in orfanotrofio. Questo bambino passava ore intere da solo davanti alla tv, in una baracca autocostruita. Per lui è stato comunque un trauma terribile essere trasferito perché, da un giorno all’altro, si è trovato senza più niente, in un istituto che, seppur accogliente, non faceva parte delle sue figure di riferimento”.
Un nuovo inizio
Tramite un avvocato Gabriele e Giuseppina si sono messi in contatto con la struttura e hanno abbracciato Andy che si è mostrato da subito affettuoso e tenero, specialmente con la madre. “Abbiamo vissuto un mese in Colombia per accompagnare nostro figlio in questa ‘seconda infanzia’. È stato tutto molto bello e gioioso, grazie ad amici abbiamo fatto un giro per il Caribe, le isole, i laghi interni. Un nuovo inizio per noi”.
La storia dei Guarrera riparte quindi da Bogotà. Poi c’è stato il ritorno a Roma, poco prima di Natale, con una grande festa con i parenti. Alla “grande dolcezza” e al “grande bisogno di affetto” che mostrava continuamente, Andy alternava tuttavia “manifestazioni di vivacità o anche intolleranza”: “Aveva scatti d’ira che non capivamo, ribellioni improvvise. Ma soprattutto aveva nostalgia di altri bambini”.
Alla ricerca di un fratellino
“Noi eravamo disponibili ad un’altra adozione. Eravamo anzi pronti ad accogliere già allora due figli”, racconta Gabriele. Ma cavilli burocratici e lacune istituzionali hanno fatto trascorrere un periodo lunghissimo: otto anni. Rivolgendosi ad alcune associazioni, la coppia è riuscita ad adottare nel 2005 un secondo figlio, Mauricio: “11 anni, anche se allora ne dimostrava 7-8 perché durante la prima infanzia non era stato molto seguito né stimolato. C’era un ritardo nella crescita sia fisica che cognitiva legato alla sofferenza dell’abbandono”.
La storia di Mauricio
I tre sono tornati quindi in Colombia per incontrarlo. Questa volta, tappa Medellin. Mauricio viveva in un orfanotrofio chiamato “Casa de Maria e del Niño”, un luogo apparentemente ben tenuto ma con non poche difficoltà interne. Il ragazzino era già seguito da uno psicologo dal momento che erano state individuate diverse problematiche organiche e psicologiche. “Mauricio veniva da una baraccopoli, Antioquia, sul dorso di una collina. È stato portato in istituto da una zia dopo che la mamma era morta. Il padre non si è mai saputo chi fosse. Ha vissuto un po’ abbandonato a sé stesso. Nel mese che siamo stati lì ci ha raccontato la sua storia, ad esempio che si attaccava alle macchine con i tricicli per correre in strada o che cercava nella spazzatura oggetti interessanti da rivendere. Poi è stato portato nella pensione dove è stato meglio seguito”.
Nella struttura Mauricio era “il bambino che nessuno voleva”, come disse la direttrice a Gabriele e Giuseppina. “Aspettava una famiglia da quando aveva 5 anni, intanto ne aveva compiuti quasi 12. Era diventato grande e mostrava alcuni limiti. Lo abbiamo visto prima in foto e ci aveva fatto grande tenerezza perché aveva le orecchie a sventola (poi si è fatto operare all’interno della struttura) e ricordava Cucciolo di Biancaneve e i Sette nani. Quando l’abbiamo conosciuto era simpaticissimo, di lingua sciolta, parlava con gli adulti naturalmente per raccontare o inventare storie. Ci colpì molto”. Dalla struttura non negarono a Gabriele e Giuseppina il carico di problematiche che il bambino si portava dietro: “Avevamo anche noi dei dubbi, non lo nego”, ricorda il papà, “ci abbiamo pregato tanto su ed è stato un aiuto importante”. La famiglia ha deciso perciò di fare questo passo: “L’adozione non era per noi ma per loro, questi ragazzi potevano così condividere con dei genitori l’ultima parte dell’infanzia”, dice Giuseppina.
Sofferenze e difficoltà
Le vulnerabilità e i traumi del passato si sono però riaffacciati spesso nella vita dei due ragazzi, soprattutto nel corso dell’adolescenza, durante la quale la famiglia ha dovuto affrontare “momenti davvero brutti”: “A Mauricio avevano diagnosticato una patologia ereditaria, l’ADHD, e problemi ai reni. Questo ha influito anche sulla sfera psichiatrica”. La coppia si è trovata ad affrontare con i due figli “oscillazioni tra momenti depressivi e iperattivismo” oppure dipendenze, piccoli episodi di violenza, questioni giudiziarie, ribellioni. “Sono state crisi forti, dovute anche alla difficoltà di interpretare i bisogni di questi figli e di poterli aiutare. Di fronte a certe difficoltà ogni tanto mi sono chiesto ‘chi me l’ha fatto fare?’, però siamo sempre andati avanti con l’aiuto di Dio e anche con l’aiuto di una comunità cristiana, famiglia di famiglie, che ci ha sostenuti nel compito di genitori e soprattutto ci ha aiutato a livello personale. Non abbiamo mai dubitato della nostra identità di famiglia, mai messe in discussione le nostre scelte”.
Poco aiuto dalle istituzioni
“Certo – dice Gabriele – avrei voluto maggiore aiuto e comprensione da parte delle istituzioni. Tutta la parte psicologica, ad esempio, è venuta a mancare. Siamo dovuti ricorrere a psicologi privati durante l’adolescenza… Alcuni ci hanno detto pure: ‘Siete stati forse superficiali’ o che dovevamo ‘amare di più’. Ho notato in tante occasioni uno scarico di responsabilità e una inadeguatezza nell’affrontare certi problemi”. “Si fa tanto parlare dell’adozione – fa eco Giuseppina – ma poi i genitori adottivi, dopo il primo momento più bello e poetico, vengono lasciati a sé stessi. Non si pensa in modo sottile a tutte le difficoltà che si possono incontrare”. “Io, come ogni papà”, spiega ancora Gabriele, “ho cercato di andare incontro ai miei figli in tutti i modi possibili, da loro ho imparato anche cose nuove, specialmente nei momenti di dolore della loro crescita. È stata anche la mia storia, una storia importante che sto percorrendo ancora adesso”.
Imparare dai figli
Mai una volta i Guarrera dicono di aver ceduto allo scoraggiamento. E questa stessa fede, questa speranza, che li ha tenuti in piedi in piena notte in momenti di paura e preoccupazione, vorrebbero condividerla con altri genitori adottivi e soprattutto con quelle coppie spaventate dall’adozione, intimoriti dall’idea che quello “non sarà fino in fondo un vero figlio”: “La consanguineità non è mai stato un problema. Ho considerato Andy e Mauricio miei figli in tutto e per tutto. Credo che si è padri quando si fa un’esperienza con un figlio e questo vale per sempre. Magari non ci saranno somiglianze fisiche, ma si rimane stupiti dalla crescita di queste persone. È tutta un’avventura… Con i figli impariamo a diventare padri”.
Una storia difficile ma che merita di essere vissuta
“L’adozione – risponde Giuseppina – è una scelta a cui ci si sente chiamati. Personalmente non ho avuto dubbi che il Signore mi chiamasse a vivere la maternità attraverso l’adozione. Questo dono non si esaurisce una volta cresciuti, ma è una scelta che si fa nella libertà ogni giorno, anche di dare un calcio a tutto. A volte ci si trova alle strette, ho vissuto tanti di questi momenti, ma la chiara percezione è sempre stata quella di mettermi dalla parte di mio figlio, anche quando ci rifiutava, anche quando ha fatto del male a sé stesso. Loro si portano questo vuoto, questo buco nero dentro che è tutto il rifiuto, la non accettazione, la non presa in carico dei genitori naturali. E se lo porteranno sempre dietro. Credo che, da genitori, bisogna sentirsi chiamati ad assumerlo anche se non è facile.
Oggi Gabriele e Giuseppina si dicono entrambi felici: “Sì, è una storia un po’ particolare la nostra, ma senz’altro valeva la pena di essere vissuta”.