Il cardinale arcivescovo di Lussemburgo, relatore generale, spiega in una intervista con i media vaticani la nuova composizione dell’assemblea di ottobre sulla sinodalità. E sottolinea come la Chiesa sia chiamata ad essere missionaria, con le sue diversità, mettendo Cristo al centro
Andrea Tornielli
All’indomani dell’annuncio della nuova composizione del Sinodo dei vescovi il cardinale gesuita Jean-Claude Hollerich, 64 anni, arcivescovo di Lussemburgo e relatore generale della prossima assemblea, fa il punto sui lavori in un colloquio con i media vaticani.
L’assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2023 includerà di un numero significativo di membri con diritto di voto che non sono vescovi: sacerdoti, religiosi, religiose, laici e laiche con il 50 per cento di donne e una particolare attenzione alla partecipazione dei giovani. Qual è il significato di questa decisione?
Non è una novità vera e propria, perché già nel passato ci sono stati membri con diritto di voto che non erano vescovi. Non ci sono state donne votanti, ma membri non vescovi sì. Si può dunque dire che quel piccolo gruppo diventa ora più ampio. Il Sinodo rimane dei vescovi, perché il vescovo è sempre pastore della sua Chiesa, non si può vedere la funzione disgiunta dal suo popolo, dalla sua gente. Sono l’arcivescovo di Lussemburgo, quando sto a Roma la mia Chiesa mi manca: penso alla gente che vedo nella prima fila, la seconda fila, la terza fila nella cattedrale, penso a quelli che incontro quotidianamente… e mi mancano. Una piccola parte di questa gente sarà presente al Sinodo per essere insieme ai loro pastori. Avranno una missione speciale, hanno già vissuto una grande esperienza di sinodalità nelle diocesi, poi a livello di conferenze episcopali e infine a livello continentale. Non tutti i vescovi che parteciperanno hanno fatto questa esperienza. Dunque il compito di questi nuovi membri è di essere testimoni di ciò che hanno vissuto per comunicarlo.
Nonostante ciò il Sinodo rimane “dei vescovi”?
Sì, rimane tale perché i vescovi sono la maggioranza! Ai vescovi spetta di portare avanti un discernimento, che è stato fatto a diversi livelli e che alla fine arriva al Santo Padre. Ora c’è lo stadio dei vescovi, ma c’è una materia di discernimento e questa materia è stata offerta dal popolo di Dio. I nuovi membri del Sinodo rappresentano, per così dire, la porzione “non episcopale” del popolo di Dio.
Si può dire che è un sinodo dei vescovi accompagnato da una rappresentanza del popolo di Dio?
Ma anche i vescovi appartengono al popolo di Dio! Almeno io vorrei appartenervi… altrimenti mi sentirei male! Bisogna comprenderli più come testimoni e memoria del processo sinodale finora svolto.
“Sinodo sulla sinodalità” è un titolo piuttosto tecnico, che suona lontano dalla vita delle persone. Per chi ha vissuto questa esperienza è invece esattamente l’opposto. Ci può dire qual è l’oggetto di questo Sinodo?
Questo: come noi, insieme, possiamo essere una Chiesa missionaria, oggi e domani. Come possiamo essere Chiesa sinodale e missionaria. Penso sia importante sottolinearlo: non si tratta di un’analisi o di una meditazione, no! Siamo lì per vivere la Chiesa come vuole Dio per i nostri tempi, per annunciare il Vangelo al mondo, ai nostri contemporanei. E questo è bello. La Chiesa è sempre stata sinodale. San Giovanni Crisostomo dice che Sinodo e Chiesa sono sinonimi… Il cammino che stiamo facendo, il coinvolgimento di tutto il popolo di Dio, mostra che lo Spirito Santo ci conduce in maniera tale da mettere in pratica ciò che il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione “Lumen gentium” hanno affermato.
Dunque al centro della prossima assemblea generale c’è questo modo di essere Chiesa, e non singoli temi?
Sì, e credo che questa sia anche una risposta alla malattia del nostro tempo. Perché ciò che caratterizza il nostro tempo post-moderno o digitale, come vogliamo chiamarlo, è un individualismo che si accentua ogni giorno di più. E vediamo che con questo individualismo l’umanità non può sussistere: abbiamo bisogno di elementi comunitari per sopravvivere. C’è poi il fenomeno della crescente polarizzazione, nella società e nei media, anche in quelli che si richiamano al cattolicesimo. Il popolo di Dio che cammina insieme è una risposta a queste tendenze. Attenzione: non è che abbiamo “inventato” la sinodalità per rispondere a queste tendenze, ma è piuttosto lo Spirito Santo che in questo periodo ha suscitato di nuovo il desiderio della sinodalità già sperimentato delle prime comunità cristiane. Ed è un modo per rispondere alle sfide che ci troviamo di fronte, perché altrimenti l’umanità è in pericolo.
Il Papa sottolinea spesso l’importanza dell’ascolto in un tempo in cui tutti parlano e tutti fanno polemiche, ma pochi ascoltano…
Come vescovo, io vedo che quando ascolto qualche volta cambio idea, e mi fa bene. La mia non è una diocesi grande, il mio Paese fa 660 mila abitanti, ma il vescovo ha un entourage di persone che hanno più o meno fatto gli stessi studi, qualche volta negli stessi luoghi, con gli stessi professori, pensano nella stessa maniera. Ci sono evidenze che non sono evidenti per tutti nel popolo di Dio. In quel senso è bene avere questa apertura, saper ascoltare. Ed è bene che anche la gente vada ad ascoltare i vescovi, perché i vescovi non hanno soltanto il ruolo di ascoltare ma anche quello offrire delle risposte e di essere i pastori del popolo. Noi non abbiamo un parlamentarismo sinodale, dove la maggioranza decide e tutti seguono, il sinodo non è un parlamento. Vogliamo discernere la volontà di Dio, lasciare che sia lo Spirito Santo a condurci.
Come avviene questo processo?
È un processo spirituale e per questo abbiamo questa conversazione spirituale, o meglio questa conversazione nello Spirito: è un modo di ascoltare e di entrare in dialogo non con atteggiamento di opposizione, per arrivare a una conclusione comune. È chiaro che c’è sempre bisogno di conversione in questo processo: qualche volta è il vescovo che deve convertirsi, qualche altra volta anche i laici che devono convertirsi.
Capita che anche nella Chiesa ci si confronti con una mentalità politica, che ci si voglia “contare” per ottenere certi risultati. Che cos’è che fa veramente la differenza?
Un certo parlamentarismo ecclesiastico appartiene di più alla sinodalità dei nostri fratelli protestanti. Noi dobbiamo praticare una sinodalità cattolica, che è diversa. Abbiamo ministeri ordinati, la collegialità dei vescovi, la responsabilità per la Chiesa, il primato di Pietro. Tutto questo non sarà sradicato con la sinodalità. La sinodalità è piuttosto l’orizzonte nel quale si esercitano la collegialità dei vescovi e il primato del Papa, per cercare insieme la volontà di Dio. Non si tratta dunque di dire: c’è questo problema, ci sono queste due posizioni, chi ha la maggioranza vince e si fa così. Perché questo distrugge la Chiesa, noi non lo vogliamo. Come comunità ecclesiale dobbiamo camminare insieme.
Che cosa significa concretamente “camminare insieme”?
Quando camminiamo, Cristo è il centro. C’è gente a destra, a sinistra, c’è chi cammina più avanti, c’è chi ci mette più tempo e sta indietro: è normale quando si percorre insieme la strada. Dobbiamo imparare che certe tensioni nella Chiesa sono normali, vuol dire che la Chiesa è vicina alla gente, perché non tutti pensano allo stesso modo in tutti i continenti, su tutti i problemi. Perciò è importante ascoltare con molto rispetto anche per le diverse culture, cercando la volontà di Dio, per decidere insieme il senso di marcia. Poiché ci sono diverse persone le quali mi “collocano” a sinistra, diciamo che io sto camminando a sinistra. Se prendo Cristo come centro e lo guardo da sinistra, io non vedo soltanto Lui, vedo Cristo con la gente che va a destra. Non posso vedere Cristo senza vedere anche loro: vuol dire che anche quelli che camminano a destra fanno parte della mia comunità. Vuol dire che dobbiamo camminare insieme. Spero che la stessa mia esperienza capiti a chi va a destra, a chi va avanti, a chi va indietro… Se Cristo è veramente il centro e lo Spirito Santo è strumento e garanzia che al centro c’è il Signore morto e risorto, noi siamo tutti discepoli missionari.
A volte sembra però che si occupi o ci si preoccupi molto di altro, delle strutture e delle strategie.
La Chiesa non può essere sempre occupata a parlare delle proprie strutture, della propria organizzazione. Lei non troverebbe strano un club di calcio dove si parla soltanto delle regole senza mai giocare una partita? Non ci sarà molta gente a far parte di quel club e a sostenerne la squadra! È lo stesso per la Chiesa: la nostra fede si vive servendo, nella Chiesa e fuori dalla Chiesa. Si vive nel servizio a Dio e nel servizio alla gente.
Qual è stata l’esperienza e anche la novità della tappa continentale del Sinodo?
È stata molto bella, abbiamo visto quello che le diverse conferenze episcopali hanno proposto a livello dei diversi continenti. Abbiamo anche visto le differenze: ad esempio, nella maggior parte delle tappe continentali tutti hanno amato l’immagine della tenda. In Africa invece no, perché la tenda per loro è la tenda dei profughi, è la tenda della miseria, della povertà, e loro preferiscono l’immagine della famiglia di Dio. Spiegano che la tenda non si può allargare, si strappa, mentre la famiglia si può allargare. Ho capito in quel momento che noi non possiamo presentare una sola immagine, ma più immagini che parlano alle diverse culture religiose dei nostri popoli. E io sono sicuro che quelli che amano l’immagine della tenda possono imparare qualcosa dall’immagine della famiglia di Dio, e viceversa. È stato importante partecipare alle conferenze continentali, l’ho fatto non per prendere la parola, non per influenzare, ma per ascoltare, per rendermi conto della diversità che si vive. Dovremo fare così al Sinodo dei Vescovi.
Dagli otto documenti finali, quelli dei continenti, ma anche da quello del Sinodo digitale, che cosa emerge? I singoli temi o la via sinodale nell’essere Chiesa?
Il “sinodo digitale” è stata un’esperienza bellissima… Da tutti i documenti emerge l’esperienza che si è fatta, la gioia della gente. In Europa, in Asia, hanno domandato di poter ripetere delle assemblee. Io avevo timore per l’Europa, perché sappiamo che ci sono grandi differenze. Ma anche qui la gente vuole continuare e dobbiamo andare avanti con le nostre differenze a camminare insieme. Dobbiamo guardare a ciò che è importante per la comunione, per la partecipazione, per la missione e presentarlo al Sinodo dei vescovi di ottobre.
Come avete lavorato per mettere in evidenza i contributi dei diversi continenti?
In gruppo, in modo sinodale. Non è l’attività di una sola persona. Ci sono stati diversi gruppi che hanno lavorato su vari temi: primato, ministeri ordinati, ministeri battesimali, collegialità dei vescovi. Ci siamo domandati che cosa hanno detto le assemblee continentali su questo e lo abbiamo messo insieme, guardando a ciò che dice il magistero della Chiesa, i Papi, il Concilio vaticano II, per inserire tutto il portato che è emerso nel cammino comune.
Che cosa ci dobbiamo aspettare dall’Instrumentum laboris?
Sarà un testo breve. Ci aiuterà nella condivisione, nella partecipazione, affinché i membri del Sinodo possano esprimersi. Mi auguro anzi che i membri siano liberi anche di dire: lo buttiamo via, facciamo un’altra cosa, anche perché abbiamo davanti un Sinodo di due anni e non c’è fretta. Non dobbiamo arrivare a un compromesso artificiale. Abbiamo il tempo per comprendere veramente la chiamata che Dio fa alla sua Chiesa nel mondo di oggi.
In concreto, che cosa accadrà da ora fino a settembre?
Il testo sarà inviato e presentato ai partecipanti. Penso che avremo ancora tanto lavoro, perché ci sono tanti elementi nuovi da vedere punto per punto. E non è detto che le nostre decisioni – quelle del relatore, del segretario generale, del segretario speciale – debbano essere seguite, perché tutto sarà sottoposto al Consiglio del Sinodo e al Papa. Non c’è sinodalità senza i vescovi, né contro i vescovi, e non c’è sinodalità senza Pietro o contro Pietro. Tutto viene proposto al Santo Padre per il suo ok, per la sua benedizione, altrimenti non possiamo continuare. Siamo cattolici e vogliamo rimanere cattolici!
Lei ha partecipato alle assemblee nei diversi continenti. Ha incontrato anche risposte “tiepide” o qualche resistenza?
Ho notato due tentazioni. La prima è quella di assimilare tutto nei vecchi schemi. È la tentazione che per comodità definisco “di destra”, che dice: noi vogliamo fare quello che abbiamo sempre fatto, non vogliamo preoccuparci veramente di qualcosa di nuovo. Ma c’è anche la tentazione “di sinistra”, secondo la quale tutti i temi ritenuti importanti nella Chiesa devono essere discussi al Sinodo. Ma ciò non è possibile. Il Sinodo ha un titolo e questo titolo è un compito per noi: sinodalità, comunione, partecipazione, missione. Il Sinodo verterà su di questo, non su tutti gli altri temi. Non discuto l’importanza degli altri temi, che porteremo al Santo Padre, perché lui possa rifletterci nel modo che lui sceglierà. Ma il Sinodo sarà sulla sinodalità.
Come può il Sinodo interpellare una persona che non sarà direttamente coinvolta e non ha avuto modo di esserlo nella fase preparatoria nelle diocesi?
In primo luogo le chiederei di pregare, perché per fare la volontà di Dio bisogna pregare molto. Noi dobbiamo avere il supporto della preghiera di tutta la Chiesa. E poi le chiederei di cercare di vivere il Sinodo nel proprio cuore, nella sua comunità – di lavoro o ecclesiale – perché così la sua preghiera non rimarrà astratta. Sogno una grande partecipazione nella preghiera per il Sinodo. Il cardinale Mario Grech ha detto una cosa che ho trovato bellissima: cerchiamo di avere lo stile di Gesù. Quando si vede la Chiesa, si deve riconoscere Gesù. Questo è molto importante, altrimenti come mai potremmo evangelizzare se la gente non riconosce Gesù in noi? E per questo abbiamo bisogno di conversione. La sinodalità non è possibile senza conversione e questa conversione serve a tutti, a destra, a sinistra e anche al centro.