Deborah Castellano Lubov – Città del Vaticano
L’emergenza umanitaria nello Yemen che affama milioni di persone, ricordata dal Papa in tante occasioni ma dimenticata dal mondo e da quanti si sono stancati di sentir parlare di conflitto. La considerazione è al centro della lunga intervista a Vatican News del vescovo Paul Hinder, che ha ricoperto per più di un decennio l’incarico di vicario apostolico della penisola arabica, e le cui dimissioni per raggiunti limiti di età, sono state accettate domenica primo maggio dal Papa. Tragici i dati del Paese: su una popolazione di 31,9 milioni di persone, 23,4 milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria, secondo l’ONU. 17,4 milioni, cioè più della metà del totale, sono in condizioni di insicurezza alimentare acuta, e 2,2 milioni di bambini rischiano la vita.
Il vescovo di origine svizzere, che ha compiuto 80 anni una settimana fa e che ha curato la realizzazione del primo viaggio, nel 2019, di un Papa nella penisola arabica con la storica prima Messa tenuta per i suoi fedeli in circa 1400 anni, discute sia dei frutti di quel viaggio sia della fase attuale dello Yemen, in cui sta per scadere la tregua concordata a inizio aprile senza alucna certezza per il futuro:
Monsignor Paul Hinder anche se tutte le parti del conflitto in Yemen hanno concordato una tregua di due mesi, che per altro sta per scadere, qual è la situazione in Yemen?
Spero che la tregua sia l’inizio di negoziati seri, perché ho l’impressione che le parti siano un po’ stanche della guerra e abbiano capito che non può essere vinta sul campo. Devono trovare un altro modo, e speriamo che funzioni. Ma i negoziati non risolvono tutti i problemi. Dobbiamo considerare come riconciliare le diverse fazioni all’interno del Paese per evitare che ci siano sacche che possano in qualsiasi momento riprendere il fuoco. Questo è un altro problema.
Molti interessi stanno alimentando questa guerra. La comunità internazionale tace sullo Yemen. Il Papa ha fatto diversi appelli. Perché la questione è assente nei media? Da una prospettiva internazionale, cosa si può fare oltre a fornire aiuti umanitari?
Penso che abbia in parte a che fare con l’inflazione di informazioni e col fatto che le persone sono semplicemente stanche di sentire sempre le stesse notizie. A livello internazionale, lo Yemen è stato discusso nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e nell’Assemblea Generale dell’Onu, ma è successo relativamente poco. Anche la missione speciale dell’Onu ha fatto del suo meglio, ma alla fine, ci sono stati pochi risultati. Chi sia responsabile di questo è molto difficile da dire. Naturalmente, ci sono diversi protagonisti: l’Arabia Saudita con i suoi alleati. C’è l’Iran. Ci sono questioni interne: tribali, interessi politici, interessi economici. Teologicamente parlando, dobbiamo anche tener conto del diavolo che è sempre lì a fare da disturbatore. Questo mi fa riflettere ulteriormente sull’importanza del potere della preghiera, come ci ha detto Gesù. Noi sappiamo come pregare.
Cosa si può fare per aiutare l’emergenza alimentare e la malnutrizione che colpiscono il Paese?
Vedo soprattutto due aspetti. Uno è cercare di stabilire corridoi di trasporto sicuri, in modo che il cibo e gli aiuti possano essere portati nei luoghi e nelle regioni critiche. In secondo luogo – questo è forse altrettanto se non più importante – non appena ci sarà un cessate il fuoco più lungo e, se possibile, una pace conseguente, il Paese ha bisogno di tornare a produrre. Ci sono delle possibilità. Lo Yemen è un paese povero, ma ci sono possibilità di produrre cibo all’interno e per il Paese. Tuttavia, una guerra in corso mette a rischio tutta la produzione interna, come è successo qui nello Yemen e anche in Ucraina. Nello Yemen è stato così per anni. Temo che ora con la guerra in Ucraina la situazione diventi ancora più grave, perché sappiamo bene che l’Ucraina è uno dei principali produttori di grano e indirettamente di cibo per diverse parti del mondo. E cosa succederà se non potranno piantare i semi e andare avanti con la produzione a causa della guerra?
Che valore hanno gli appelli del Papa per le guerre dimenticate, come quelli che ha fatto per lo Yemen? C’è un modo in cui la tregua può continuare o cosa deve accadere una volta scaduta?
La voce del Papa è ascoltata, ma ora queste guerre dimenticate interessano poco. Lo Yemen è per molti davvero alla periferia del mondo, anche se strategicamente è un luogo importante. La gente pensa allo Yemen solo quando il canale di Suez è bloccato e le provviste dall’Asia e dall’Africa non passano più come prima. Allora si spaventano. C’è una popolazione di più di 30 milioni di persone che soffre in un Paese antico e bello. Per altre parti del mondo, questo molto spesso viene dimenticato perché altri conflitti sono più vicini al cuore della gente e anche ai media. Io stesso ho parlato con il Santo Padre del traffico di armi e di come ridurre questo potenziale di conflitti e di violenza. Lui deve essere ascoltato e la gente deve seguirlo. Sono anche profondamente convinto che in Ucraina ci sono persone che approfittano di tutta la produzione di armi. Molti non sono nemmeno particolarmente interessati alla vera finalità della guerra. Questa è la tragedia di tutta la storia umana.
Lei è stato il riferimento della Chiesa per la prima visita del Papa nella penisola arabica. In quell’occasione, Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Al-Tayyeb hanno firmato un importante e inedito documento sulla fraternità umana che invita a rispettare i diritti e la dignità dell’uomo, condannando l’estremismo e la persecuzione religiosa. Il Papa ha poi scritto l’ enciclica Fratelli tutti su questi temi. Dopo tutto questo, quali sono secondo lei i frutti concreti di questo incontro che lei sta vedendo in tutta la penisola arabica?
Se si parla di frutti concreti, non è facile dirlo. Ci sono alcuni segni visibili. Uno è la famosa casa abramitica fondata ad Abu Dhabi, che dovrebbe aprire alla fine di quest’anno. Ma queste sono – senza sminuirne l’importanza – azioni simboliche. Certo, è molto difficile ora, dopo due anni di pandemia dire quale sia il risultato perché la comunicazione reale quotidiana è stata fortemente ridotta. Tante iniziative sono state semplicemente messe a riposo in questo periodo. Bisognerà vedere come si riparte ora che la pandemia sembra essere almeno per un po’ diminuita e le comunicazioni dovrebbero poter riprendere. Credo che le persone siano più aperte al dialogo tra le religioni. Dipende un pò dal Paese. Direi che Abu Dhabi non è il Kuwait. L’Arabia Saudita non è il Qatar. Il Bahrain non è l’Oman. Ci sono differenze. Tanti sono interessati a che ci sia più rispetto e accettazione reciproca, più conoscenza l’uno dell’altro anche sul fronte delle diverse fedi. Non dovremmo mai dimenticare che possiamo imparare gli uni dagli altri. Non si può scavalcare il Calvario, per correre alla Risurrezione.
Com’è essere un cristiano e vivere la propria fede nella penisola arabica?
Si tratta sempre di essere un vero e onesto cristiano e di vivere autenticamente. Non ci dovrebbe essere un divario tra ciò che diciamo e la nostra vita reale, personale e comunitaria. L’autenticità della nostra vita cristiana è la cosa più importante. È interessante che all’inizio del cristianesimo, gli schiavi avevano un ruolo importante nel portare il messaggio di Gesù Cristo tra la gente. A volte, anche qui, vedo che il comportamento di persone semplici porta frutto nella testimonianza autentica. Ma tutti abbiamo un po’ la tendenza a voler evitare il Calvario e correre direttamente alla Risurrezione. Non funziona così, non ha funzionato così nella vita di Gesù Cristo.
Mentre la guerra infuria in Ucraina, cosa pensa della tregua che Papa Francesco ha chiesto per la nazione devastata dalla guerra?
La posizione di Papa Francesco, ne sono convinto, è la posizione che noi leader cristiani siamo chiamati ad adottare, cioè la posizione di fede e di forte impegno per la non violenza; di compromesso, dove è possibile, senza negare il diritto alla difesa quando la nostra esistenza vitale è minacciata. E’ difficile però dire quale strada percorrere in ogni momento. Questo è uno dei problemi. Anche i capi della Chiesa in Ucraina si domandano fino a che punto si può spingere il popolo a resistere alla violenza, la violenza ingiusta. Penso che il Papa sia anche abbastanza prudente e saggio da sapere che c’è una tensione tra l’idea di base che dobbiamo difendere come seguaci di Gesù Cristo, come veri cristiani, e la realtà brutale che si sta generando nel mondo politico. Questo non sempre si concilia. Quindi, semplicemente, non ho una risposta soddisfacente per il conflitto in Ucraina.
Intervista integrale in lingua originale: