Antonella Palermo – Città del Vaticano
La Protezione Civile di Haiti ha accertato un aumento del numero di morti per il terremoto: siamo a 2.189. e 12.268 sono le persone rimaste ferite. Decine di persone sono ancora disperse. Gli aiuti procedono, sebbene a rilento. Questo fa crescere le tensioni. Nel piccolo aeroporto nella comunità sud-occidentale di Les Cayes, una folla si è radunata fuori dalla recinzione quando è arrivato un volo di soccorso e gli equipaggi hanno iniziato a caricare le scatole di viveri sui camion in attesa. Una guardia della sicurezza ha sparato due colpi di avvertimento per disperdere un gruppo di giovani.
A seguire “con molta tristezza” quanto accaduto sull’isola caraibica è Giovanni Calì, imprenditore catanese che ha vissuto per quattro anni ah Haiti, dall’agosto 2017. Poi un triste epilogo della sua permanenza là lo ha costretto a tornare in Italia, fortunatamente da sopravvissuto.
Il ricordo del rapimento
Calì è ingegnere e ad Haiti stava dirigendo i lavori, per conto di una importante industria, per un progetto europeo di costruzione di una strada al centro del Paese. Racconta di grosse difficoltà che intralciavano l’opera “grosse manifestazioni, blocchi sulle strade, ritorsioni molto pericolose. Abbiamo cercato di essere quanto più possibile prudenti. Credevamo di essere immuni da rapimenti – dice – perché portatori di lavoro e infrastrutture”. Finché cinque persone armate lo spinsero in un’auto togliendogli tutto e portandolo in un casolare in aperta campagna. Qui ha passato 23 giorni da prigioniero, lo scorso giugno. “Ho dormito su un foglio di cartone sulle pietre, senza poter trovare una condizione di riposo. Una vita sospesa”.
L’impunità dei reati
“Cosa ci sia dietro questi sequestri mi è ignoto – spiega Giovanni – immagino che tutto sia dovuto alla grande povertà che c’è nel Paese e soprattutto alla quasi certezza dell’impunità. La polizia, per quanti sforzi faccia, non riesce a presidiare la normale vita quotidiana. È troppo facile agire disonestamente, tutto sembra possibile”. È un aspetto, questo, che procura ancora più tristezza – osserva – rispetto al fatto, pure assai doloroso, di vedere le immagini di un Paese che crolla e dove risultano vanificati gli sforzi di chi prova ad edificare qualcosa di utile.
Un Paese bellissimo che non merita questa precarietà
Eppure, Calì dice di aver imparato ad amare quello che definisce un “Paese bellissimo che non merita il suo presente”. E aggiunge che “purtroppo, condizioni sociali, economiche e amministrative non permettono alla popolazione di Haiti di avere più di ciò che sta avendo. Considerando, poi, le terribili conseguenze di terremoti e tempeste”, di cui lo stesso Giovanni è stato testimone. “Quanto più debole è uno Stato, tanto più forti sono le bande”, scandisce. “Le poche regole non si rispettano ed è così più facile che si verifichi il proliferarsi delle bande armate. Io ne sono stato vittima e non lo immaginavo. Peraltro, non ero lontano dal luogo dove di recente c’è stata la fuga da una enorme prigione che ha generato una diffusione massiccia delle bande che la stanno facendo da padrone sul territorio”.
Che gli aiuti umanitari portino a superare la povertà
Sul fronte umanitario che appello si sente di fare? “La solidarietà internazionale è dovuta in questo frangente, ancora di più”, sottolinea Giovanni Calì, che ricorda il prezioso impegno di tutte le ong che lavorano ad Haiti, un lavoro “enorme”. “Sono più le organizzazioni umanitarie che quelle tecniche”, precisa. Poi aggiunge: “Mi unisco all’appello che ci sia una forte contribuzione per la ripresa ma mi auguro anche che tutti coloro che sono in grado di offrire delle risorse finanziare per questo Paese comincino a pretendere, non so in quale forma, un ripristino di condizioni più adatte allo sviluppo di questo Paese. Non si possono mandare doni a chi poi magari per metà ne fa uso personale. Ci vuole una rivoluzione culturale che dia migliori condizioni all’isola. Altrimenti continuerà ad essere sempre sull’orlo del baratro”.
Quella zuppa che gli salvò la vita
“Gli haitiani sono un popolo magnifico”, torna a dire Giovanni. E ricorda di un’azione, mentre era prigioniero, che in sostanza gli ha salvato la vita. “Ero tenuto in disparte, avevo pochissimo cibo. Solo qualche cucchiaio di riso e fagioli al giorno e due bicchieri di acqua calda. C’erano circa 50 gradi. Un giorno stetti molto male, mi stavano portando a lavare, caddi a terra. Cercai di dire ai rapitori che avevo bisogno di vitamine. Non mi capirono. Accanto alla mia cella c’erano altri sequestrati, tra cui una giovane donna anch’essa rapita, credo perché fosse figlia di un proprietario di albergo. Mi disse se volevo un po’ della sua zuppa che riuscì a passarmi attraverso un tramezzo di lamiera”. Qui la voce si interrompe per la commozione. “Ogni giorno lei si privava di un po’ della sua zuppa per darla a me. Ecco – conclude – Haiti è un Paese che ha tanta bontà e che non può morire nell’indifferenza del mondo”.