Chiesa Cattolica – Italiana

Giorno della Memoria, i religiosi che sfidarono la paura per salvare gli ebrei a Roma

Suor Grazia Loparco ricorda i consacrati e le consacrate che durante l’occupazione nazista della capitale misero la vita a rischio per salvare i cittadini dalla deportazione, aprendo le porte degli istituti religiosi: pure avendo timore non si risparmiarono nell’offrire aiuto, riuscirono sempre a proteggerli

Alessandro Guarasci – Città del Vaticano

Una vera rete di sostegno agli ebrei di Roma ricercati dai nazifascisti, un esempio di lotta contro il male. Lo furono i 191 istituti religiosi che, durante l’occupazione nazista della Capitale, dopo l’8 settembre del 1943, e successivamente alla messa in pratica delle leggi razziali e delle deportazioni nei campi di sterminio, salvarono intere famiglie di ebrei. Religiosi e religiose che rischiarono la vita per salvarne altre, quelle di almeno 4.500 persone – quasi la metà della comunità ebraica residente allora a Roma, che contava tra le 10mila e le 12mila persone – riparate in parrocchie ed edifici extraterritoriali. A raccontarlo è suor Grazia Loparco, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, docente di Storia della Chiesa alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium” di Roma che, con un rimportante lavoro di ricerca, è riuscita a ricostruire i fatti.

Il giorno della deportazione

Il 16 ottobre del 1943 segna il rastrellamento degli ebrei: otto ore e mezza, dalle 5.30 alle 14.00, in un giorno sacro per l’ebraismo quale il sabato, in cui vengono arrestati, racconta la religiosa, “1259 ebrei romani, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 bambini. 1023 furono subito deportati al campo di sterminio di Auschwitz, solo 16 di loro avrebbero fatto ritorno a casa”. Nel 1961, fu La Civiltà Cattolica, la rivista della Compagnia di Gesù, ad indicare che, prosegue suor Grazia, “3.657 ebrei vennero nascosti in 100 istituti femminili e 45 maschili, più dieci parrocchie gestite dal clero diocesano. Altri 680 rimasero nascosti per pochi giorni, per un totale quindi di 4.447 persone. Lo studio portato avanti per anni ha individuato gli indirizzi di questi istituti religiosi che, a volte, si celavano sotto altre denominazioni. Allo stesso tempo abbiamo avuto la possibilità di ascoltare altre testimonianze, soprattutto degli ebrei, che raccontavano il loro nascondersi in vari momenti e in vari modi”. Quello rappresentato da suor Loparco è un mosaico estremamente complesso che ha portato oggi ad avere informazioni su “127 istituti femminili con 156 sedi locali, 64 istituti maschili distribuiti in 92 sedi, e che nascosero per un periodo più o meno lungo soprattutto ebrei, ma anche ricercati politici, renitenti alla leva, orfani, sfollati. Furono pertanto coinvolti in totale 191 istituti religiosi presenti in 248 edifici”.

La capacità di proteggere

Istituti religiosi, femminili e maschili, congregazioni e monasteri, parrocchie, ma anche le Catacombe di Priscilla, “non si risparmiarono dall’offrire aiuto, sia per libera iniziativa, sia su indicazione della Santa Sede, diventando luoghi di riferimento per la rete di documenti falsi e ricevendo viveri dal Vaticano per alimentare i rifugiati ospitati”, continua Loparco. Non ci furono arresti, la paura però fu senz’altro tanta, prosegue la religiosa: “A Roma ci furono delle irruzioni, a San Paolo fuori le Mura, al Laterano, i nazifascisti andarono anche dai Servi di Maria e all’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina, nel mese di maggio ci fu l’irruzione. Rischiavano l’arresto, stavano nascondendo ebrei, la paura fu tanta, ma riuscirono sempre a proteggerli, con strategie di occultamento”.

Il valore della testimonianza

Per ragioni di sicurezza non ci si affidò mai a documentazione scritta, e quindi la ricerca è basata essenzialmente sulle testimonianze degli ospitanti e, soprattutto, dei sopravvissuti: uomini, donne, bambini, intere famiglie. “Se in molti casi, per ragioni di sicurezza, gli ospiti dovettero imparare le preghiere cristiane – conclude suor Loparco – vi fu anche chi vestì la tonaca in vista di blitz nazifascisti”. La convivenza forzata fu “un’occasione di conoscenza interreligiosa che aiutò a dissolvere tanti pregiudizi reciproci”.

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