Andrea De Angelis – Città del Vaticano
Tredici anni. Quando la vita esplode dentro, la voce cambia e gli occhi cercano tinte nuove, ancora inesplorate, il suo percorso toccò invece il punto più basso. Il dolore più atroce, quello della prigionia e della morte, violenta, insensata dei suoi affetti più cari a cominicare dai genitori. Edith Bruck, 90 anni, ungherese naturalizzata italiana, aveva solo 13 anni quando fu deportata ad Auschwitz e poi in altri sei campi di concentramento. L’ultimo, Bergen-Belsen, fu quello della sua liberazione. Era l’aprile del 1945. Un anno prigioniera, assieme alla sua famiglia. Tornerà con lei solo una sorella.
L’arrivo in Italia
La giovane Edith Bruck rientra così in Ungheria, a maggio compie 14 anni. La povertà, il lutto le impediranno però di restare a casa. Cecoslovacchia prima, Israele poi sono i Paesi dove si reca alla ricerca di una vita nuova, della serenità. Desiderosa di pace. Si fermerà in Italia, a Roma, solo nel 1954. La città dove ancora oggi risiede. La sua casa romana, dove
In molti ancora oggi si chiedono come si sia potuto volgere lo sguardo dall’altra parte dinanzi a ciò che accadeva nei campi di concentramento. Tanti si interrogano anche sui cosiddetti nuovi lager di oggi e sull’assenza di indignazione. Lei cosa pensa?
Credo che si sapesse tutto. Lo sapevano gli americani, i tedeschi. Tanti agenti ebrei andavano in America, ma si sentivano rispondere che era impossibile. Una verità in qualche modo respinta, oppure si faceva finta di non credere per interesse politico o bellico. Anche i tedeschi hanno detto dopo la guerra che non sapevano. Ma come io vedevo loro ogni giorno, anche loro hanno visto me! Il negazionismo ha avuto inizio dopo la guerra, ma anche gli americani avrebbero potuto bombardare prima la ferrovia che portava ad Auschwitz. Si continuava a deportare anche nel febbraio del 1945, a Bergen-Belsen. I campi di oggi sono terribili, ma non li confonderei con quelli nazisti. Per me restano un’altra cosa.
Vede però la stessa indifferenza? Crede che i cuori degli uomini siano ancora troppo duri dinanzi alle ingiustizie?
Gli uomini non hanno imparato dai loro misfatti. Non hanno imparato da Auschwitz, come dal Vietnam. La situazione è tragica, ma ci tengo a separare Auschwitz dalle altre pagine buie della storia.
Che effetto le ha fatto vedere in Italia, poche settimane fa, persone vestite da deportati per dire no al green pass? Una ferita che si riapre?
Una cosa vergognosa, un’oscenità. Un circo dinanzi a milioni di morti. Sono stravolta, come lo sono quando vedo le manifestazioni con bandiere naziste in Italia. Penso a Casapound, a Forza Nuova. Non dobbiamo dimenticare cosa c’è scritto nella Costituzione italiana. Il pericolo in questo modo avanza e lo fa in tutta Europa, di certo non solo in Italia. Si pensa, sbagliando, che la cosa non riguardi tutti, perché non tocca tutti. Questo è l’errore di sempre! Non tocca soltanto me, non riguarda qualcuno in specifico, ma l’umanità! Riguarda tutti noi ciò che accade agli esclusi, agli ultimi. Oggi non possiamo dire che non sappiamo! Oggi vediamo tutto e siamo responsabili, la cosa ci riguarda eccome.
Quando legge i dati relativi alle vittime della pandemia di Covid-19, cosa prova dinanzi a quelle cifre? Le trova fredde?
Sì, ho protestato per questo. Non mi piace l’elenco di numeri. Sono uomini, essere umani. L’uomo è un mondo, non è un numero. Una vita vale l’altra, non ci sono vite più preziose di altre. Di qualsiasi religione e cultura sia. Ogni uomo è un mondo. Non mi piacciono questi elenchi, duecento, trecento… sono vite, non numeri.
Nei giorni più bui, quando lei fu deportata, c’era una canzone, una melodia che lei sognava di poter riascoltare? Ci si rifugia anche nelle note nei momenti peggiori?
Purtroppo sentivo, conoscevo solo le canzoni naziste, quelle contro gli ebrei. Nessun’altra canzone, solo quei testi vergognosi. Molte persone nei campi avevano composto, diciamo così, delle orchestre, ma per i tedeschi, non per noi. Le uniche musiche erano urla e pianti. Silenzio, morte e spari.
In che modo comunicavate, nei campi erano tante le lingue parlate…
Noi ungheresi siamo stati deportati per ultimi, tra noi ci capivamo, ma non si parlava. Non c’era tempo di parlare, neanche per la solidarietà. Contava solo non perdere la vita, questa era l’unica urgenza. Non fare un passo fuori dalle righe. C’era un freddo da impazzire, provavamo una fame che accecava. Non c’era nulla da dire, se non sorvegliare se stessi. Era difficile anche pensare all’amicizia nei campi di concentramento.
La scrittura sarà una delle sue compagne più fedeli nel corso degli anni. Perché è così importante scrivere, anche a 90 anni? Perché le pagine sono così significative?
Non poserò mai la penna finché riuscirò a scrivere (ride, ndr). Dopo la guerra non siamo stati accolti, non siamo stati ascoltati. Come se fossimo avanzi di vita, degli stracci. Non sopportavo questo, il dover tappare la bocca. Scoppiavo di parole, volevo raccontare. Ho incominciato a scrivere in inglese, poi in Italia ho imparato l’italiano e ho ripreso a scrivere quel libro iniziato in Ungheria nel 1946. Così ho pubblicato il primo testo, nel 1959 e da allora non ho più smesso. Credo che lo farò fino alla fine dei miei giorni, come continuerò ad andare nelle scuole. I ragazzi hanno bisogno di conoscere, vogliono sapere. In famiglia si comunica poco, ancora meno lo si fa con i nonni. Invece l’ascolto è importantissimo, necessario. I ragazzi lo desiderano, ma si parla poco o male. Nessun Paese si è confrontato con questo grande discorso, se non in parte e vediamo quanto sta succedendo adesso. Avanza il razzismo, l’antisemitismo. Una responsabilità enorme, di tutta l’Europa.
Quanto è importante che ci sia un dialogo intergenerazionale?
Moltissimo. Gli anziani spesso sono esclusi dal dialogo, perché non producono. Smarriti nelle residenze, muoiono presto. Così la società diventa egoista e arida di cuore, una tragedia vera.
Dialogo, racconto, testimonianza: non abbiamo ancora imparato ad ascoltare davvero?
Credo che l’ascolto sia la cosa più importante. I ragazzi sono più maturi di quanto immaginiamo. Si parla di bullismo e violenza, ma non della loro curiosità, della sete di voler sapere, di comprendere. I giovani valgono molto di più di quanto pensiamo, non sono vuoti, ma pieni di interesse! Siamo noi che non riusciamo a parlare con loro, per farlo dobbiamo imparare ad ascoltare. In quest’ultimo anno ho visto più ascolto, sarà forse per il senso di inquietudine legato alla pandemia. Non so. Io in quest’ultimo anno non mi fermo un giorno, scrivo, rilascio interviste. C’è molta richiesta. Forse il mondo in qualche maniera ha più voglia di capire, questo è molto importante.
Ad ascoltarla è stato anche il Papa, lo scorso febbraio, quando è venuto a trovarla nella sua casa. Qual è il primo ricordo di quel giorno?
Non c’è un primo ricordo, ma quell’abbraccio, le mie lacrime appena l’ho visto. Poi mi ha chiamato un paio di volte. Gli altri Papi sono venuti a chiedere perdono nella Sinagoga, invece Francesco è venuto a casa e questo ha avuto una grande eco. Tutti i giornali se ne sono occupati e ancora oggi, dopo un anno, se ne parla. Un messaggio non per me, ma per tutti. Personalmente lo ritengo il gesto più bello, questo perdono da casa mia si è diffuso in tutto il mondo. Ci siamo sentiti altre volte, devo dire che abbiamo un rapporto molto particolare.
Infine quale messaggio vuole lasciare proprio a noi giornalisti, a chi prova, cerca di raccontare la verità?
Mi sento di dire che si devono raccontare le cose positive, il bene e non solo il male. Nei miei libri ho raccontato anche le luci nel mio anno di prigionia. Non è mai nero tutto, parliamo anche di ciò che è positivo. Questo è molto importante pure per i ragazzi, quando vado nelle scuole parlo anche delle ombre di luce, di speranza. Ci sono tanti volontari, tante persone che fanno il bene. Raccontiamolo, non diamo spazio solo al male.