Andrea De Angelis – Città del Vaticano
“Ho visto un uomo correre verso di noi, voleva salvarci. Poi ho saputo che era un prete e da quel giorno lavoriamo insieme per le persone e contro il caporalato”. Inizia così il racconto di Mohammed Souleiman, per tutti Muda, responsabile del personale di Casa Betania, che a Serra Marina – provincia di Matera – continua a cambiare le vite di molte persone. In gran parte sono uomini come lui, migranti e rifugiati, giunti in Italia dopo aver lasciato tutto e tutti, fuggendo da fame, povertà, guerre e carestie. La Chiesa ha restituito loro un futuro, grazie al lavoro di tante persone, in primis di don Antonio Polidoro, il sacerdote che, quasi tre anni fa, corse incontro a Muda.
La Casa della Dignità
Serra Marina fa parte del comune di Bernalda, in provincia di Matera. Qui sorge Casa Betania, la “Casa della Dignità”, una struttura acquistata dalla diocesi con i fondi dell’ 8xmille Cei tramite la Caritas Italiana. Ospita persone migranti che lavorano nelle campagne del territorio e che, quasi sempre, sono vittime del caporalato. Per l’arcivescovo di Matera-Irsina, monsignor Antonio Giuseppe Caiazzo, questa “è casa loro, per chi ci vive ed è anche casa nostra. Una casa gestita insieme, una casa che è famiglia per tutti”. Domani, domenica 25 settembre, si celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato e, per una fortunata coincidenza, il Papa sarà in visita pastorale a Matera per la conclusione del 27.mo Congresso Eucaristico Nazionale. Il vino della Santa Messa celebrata da Francesco è stato prodotto proprio dai lavoratori che ospita Casa Betania e una bottiglia dello stesso sarà donata a tutti i vescovi e sacerdoti presenti. Don Antonio Polidoro è il direttore di Casa Betania.
Don Antonio, iniziamo con la genesi di questa idea, di un progetto che vuole combattere il caporalato, una piaga a volte nascosta, ma che spesso si fa finta di non conoscere. Come è nata la vostra realtà?
Nasce da una situazione di estremo bisogno perché si era formato un ghetto dove c’erano quasi 500 persone. Vivevano in situazioni davvero pietose. In questo campo le persone erano emarginate da tutti i punti di vista, non avevano i documenti regolari e dunque si annidava il problema del caporalato. Per lavorare finivano sfruttati, in modo indegno. Per questo abbiamo creato innanzitutto una rete, insieme ad associazioni cattoliche e non, da cui è nata Casa Betania. Il fine è accogliere i poveri tra i poveri, chi viveva all’aperto, in condizioni igieniche disumane. Abbiamo iniziato un percorso non solo di accoglienza, ma anche di integrazione.
Avete restituito dignità a queste persone, mostrando loro che un futuro migliore è possibile. Risuona allora l’invito del Papa a non dire “è sempre stato così” dinanzi alle difficoltà, ma ad agire. Nel vostro caso è stato così?
Sì, esattamente. Una svolta anche dal punto di vista culturale, perché spesso si fa finta di non vedere, ma invece è possibile costruire qualcosa di bello. Quando si fa il bene, questo per suo natura si diffonde. Non conta solo quello che offriamo a questi ragazzi, ma quanto poi ci restituiscono. Ogni giorno. Anche durante la pandemia hanno continuato a lavorare, ovviamente in modo regolare, nei campi. Vogliamo farli diventare protagonisti nel lavoro e, dunque, nella loro vita. Sono loro i protagonisti dei nostri progetti di integrazione, grazie anche alla formazione. Insieme alla diocesi, a Migrantes, al progetto “Liberi di partire, Liberi di restare”, vogliamo creare un campo nostro, dove unire lavoro, formazione e quindi integrazione.
Domenica il vino per la Santa Messa prodotto da questi ragazzi sarà distribuito ai sacerdoti e vescovi presenti alla celebrazione eucaristica di Papa Francesco. Anche questo è un segno tangibile del vostro progetto, di come si possa andare al di là delle aspettative? Che significato ha per voi?
Per noi è un momento di gioia e al tempo stesso di rilancio, perché i progetti sono in itinere. Possiamo già cogliere un primo frutto, l’aver concretizzato l’aspetto umano e relazionale con un prodotto che abbiamo chiamato, si legge sulla bottiglia di vino, ‘frutto della terra e del nostro lavoro’. Un frutto che si sta realizzando, ma che richiede ancora l’impegno di tutti, nel tempo.
La storia di Muda
Mohammed Souleiman, per tutti Muda, è stato il primo ad aver varcato la soglia di Casa Betania. Oggi è responsabile dei tanti uomini che, grazie a questo progetto, ritrovano fiducia nel futuro. La sua storia allora è un esempio per chi pensa di non potercela fare, di non essere in grado di uscire dalla rete dello sfruttamento e della criminalità dove anche lui, arrivato in Italia dalla Libia, era caduto. Prima di rialzarsi.
Muda, vuoi raccontarci la tua storia: come sei arrivato in Italia e in che modo la tua vita è cambiata negli ultimi anni?
Sono arrivato in Italia durante la guerra in Libia, nel 2011. Non avevo il desiderio di lasciare il mio Paese, ma sono stato costretto a farlo per la guerra assurda che era scoppiata. Ho attraversato il Mediterraneo, una situazione terribile, non si può immaginare. Eravamo migliaia, alcuni morivano, altri si salvavano. Io mi sono trovato sulla terra. Qui in Italia ho avuto difficoltà linguistiche e lavorative. Sono andato a lavorare in campagna, ero sfruttato. Dormivo all’aperto, mi ritrovavo a guardare il cielo, avevo perso tutto quello che avevo prima. Sono stato a Foggia, non avevo un lavoro degno, non vedevo un futuro. Sono arrivato poi a Metaponto, al campo ‘La Felandina’, assieme a centinaia di persone come me. Circa ottocento. Per fortuna ho incontrato don Antonio Polidoro, che veniva lì per darci un sostegno. Non l’ho conosciuto dentro la Chiesa, ma sul campo. Ci portava cibo, vestiti. Poi è iniziato il percorso, vari incontri. Quando ci fu la tragedia della ragazza nigeriana, morta nell’incendio del campo (Petty, agosto 2019 n.d.r.), arrivarono tante associazioni, le forze dell’ordine. Tra le persone giunte in nostro soccorso c’era anche don Antonio e sono stato il primo ad entrare a Casa Betania. Oggi gestisco io questa realtà insieme a lui. La mia vita è cambiata al 100%, prima ho conosciuto sulla pelle cos’è lo sfruttamento, lo stare senza casa, senza amici. Oggi vivo qua con i miei fratelli, la Casa Betania ha dato a noi un tetto, è una risposta concreta allo sfruttamento lavorativo. Senza un tetto non si può vivere, senza una doccia, una cucina, senza poter mangiare. Questo è il cambiamento, senza una casa non c’è una vita.
La tua vita ti fa sentire un esempio per chi oggi pensa che sia impossibile uscire dallo sfruttamento del capolarato. Ti senti in diritto e in dovere di essere a servizio delle altre persone?
Certo, ci vuole coraggio e volontà. Quando parlo non dimentico mai che ho incontrato don Antonio sul campo, correva verso di noi per salvare le persone. Quella è stata una scintilla per la mia anima, anche io posso intraprendere la sua strada e aiutare gli altri! Anch’io vado sul campo a cercare i miei fratelli, a dare loro un sostegno. Ho capito il messaggio di don Antonio, ho imparato da lui e sto prendendo tutto questo sul serio. Altre persone possono avere ciò che io ho ricevuto, ci vuole coraggio per affrontare il caporalato.
Il Papa domenica sarà a Matera, tante volte ha chiesto che si combatta la piaga del caporalato, che si difenda la dignità delle persone. Francesco ha ripetuto più volte, anche a noi giornalisti, che i migranti non sono numeri, ma persone. Persone migranti appunto. Cosa provi, cosa hai provato nell’ascoltare queste parole?
Io da sempre trovo grande coraggio nelle parole del Papa. Per me è un esempio, quando ho saputo che sarà qui a Matera ho iniziato a sperare di incontrarlo. Non avrei mai sognato questo, per me è incredibile. Una cosa difficile anche solo da descrivere a parole.