Antonella Palermo – Città del Vaticano
All’indomani della chiusura dell’Anno ignaziano, padre Roberto Del Riccio s.j., provinciale della Provincia Euro Mediterranea della Compagnia di Gesù, parla in un’ampia intervista sul tema della fede alla luce di quanto ribadito da Francesco in terra canadese, offrendo una chiave di lettura ispirata al suo fondatore con cui guardare ai drammi delle guerre e della dignità ferita dei popoli. Sentire la responsabilità di essere attivamente artefici di processi di pace, consapevoli di un bene che è sempre all’opera e che continuamente ha bisogno di essere ri-scelto: questo l’atteggiamento autenticamente evangelico che rilancia padre Del Riccio.
Come interpreta l’invito fatto ai gesuiti dal Papa all’Angelus di domenica scorsa, festa di Sant’Ignazio di Loyola, ad essere “coraggiosi”?
Lo interpreto come un prendere atto che tutti i giorni siamo chiamati a fare un passo in più rispetto a quello cui siamo abituati, perché le sfide che siamo chiamati ad affrontare sono tutte le volte un pochino nuove. Di fatto il bene cresce ma, crescendo, pone nuove difficoltà a essere realizzato. Quello che ieri sembrava impossibile perché le situazioni sembravano non modificabili, nel momento in cui migliorano ecco che aprono nuove prospettive di altro bene. E quindi ogni giorno siamo chiamati a prendere sul serio queste sfide e ci vuole coraggio perché è più comodo stare lì dove eravamo e continuare a fare come abbiamo sempre fatto.
E questo chiama in causa anche l’altro invito, che Papa Francesco spesso ribadisce, a usare massima creatività nel portare l’annuncio del Vangelo. La Compagnia di Gesù, fin dalle origini, si è spinta a esplorare le frontiere assumendo la grande sfida dell’inculturazione, aspetto che peraltro è stato al cuore del pellegrinaggio penitenziale del pontefice in Canada: voi gesuiti come la vivete oggi?
Direi che la cosa necessaria è capovolgere la prospettiva. Non immaginare, come in parte è anche vero, che coloro che credono e che appartengono alla Chiesa, arrivando in un luogo dove la Chiesa non c’è o non c’è in maniera solida portano ciò che non c’era. Dobbiamo imparare infatti a guardare Dio già all’opera laddove noi arriviamo, quello che è già stato fatto da Dio in quella situazione. In questo senso, le culture – come vengono presentate da Papa Francesco nella Evangelii gaudium – sono esattamente questo: la maniera di vivere in una determinata realtà territoriale, con tutta una ricchezza di usi, costumi, modi di affrontare la realtà, di interpretare quello che succede, la società… In questo non è tutto da buttare solo perché magari non è cristianamente qualificato. Allora, lo sguardo della fede che si incultura è quello di una fede che si domanda: quali sono i semi che già qui sono stati seminati e hanno dato frutto? E, facendo leva su questo, convertire ciò che invece ha ancora bisogno di essere convertito. Non è necessario quindi dover accogliere in modo esplicito la fede, piuttosto serve da parte nostra un lavoro di lievito nella pasta. Questo richiede la Chiesa, non tanto come imposizione ma come comunità viva che testimonia un modo di vivere anche all’interno di quella cultura. Cioè, non può essere fatto da uno o dall’esterno. Richiede una comunità inserita in quella specifica cultura che mostra nella propria vita inculturata di poter vivere come comunità significativamente.
Si è appena concluso l’Anno ignaziano che ha celebrato i 500 anni della conversione di Ignazio di Loyola, il vostro fondatore. Che bilancio sente di fare in questa ricorrenza?
Mi pare che la grazia che chiedevamo a Dio in questo anno con insistenza era di vedere sempre di più tutte le cose in Cristo. E credo che questo sia stato effettivamente il frutto più grande. Per questo non è stato un anno celebrativo, nel senso superficiale del termine perché, ovunque abbiamo celebrato questo passaggio d’anno, lì si è ribadito che questo era il cuore. Tornando a ciò che dicevo prima, un cambio di sguardo è necessario. Per fare ciò bisogna assumere lo sguardo che era di Gesù: questo è un dono, non solo un esercizio in cui mi sforzo di imparare a fare qualcosa. Richiede lo Spirito del Signore risorto che abita in me e mi permette di vedere le cose da una prospettiva che non è la mia.
Il segretario della Compagnia, padre Antoine Kerhuel, nel presiedere a Roma la celebrazione della festa di Sant’Ignazio lo scorso 31 luglio, ha ricordato il dramma delle guerre, non solo quella in Ucraina, ma anche per esempio quella nello Yemen, molto dimenticata dai media. Come guarda a questi scenari preoccupanti?
Riprendo ciò che dicevo poco fa. Che il bene è sempre qualcosa da ricostruire e che c’è la tentazione di ricadere in vecchie forme, comprese quelle drammatiche della violenza e della guerra. Ora, questo riaffrontare la lotta tra il bene e il male che nasce dalla libertà che Dio ha dato all’uomo è l’atteggiamento con cui starci dentro. E richiede la capacità di riconoscere che, nonostante il male che appare, c’è un bene che può essere alimentato. Ma non esclude che qualcuno possa scegliere un’altra strada, rispetto al bene. Siamo chiamati incessantemente a prendere posizione per il bene. Paradossalmente sembra ogni volta di essere tornati indietro, ma non è vero. Penso a tante situazioni, anche solo guardando alla guerra più vicina a noi, in cui, per esempio, c’è una consapevolezza di dover difendere delle categorie, penso ai bambini, di doversi mettere a disposizione nel preparare il terreno – come i nostri confratelli hanno fatto in Romania – per poter ospitare le persone in difficoltà. In passato forse questo sarebbe stato molto più casuale o meno evidente. Una novità del nostro tempo è una dimensione collettiva, un condividere che questo atteggiamento è fondamentale, travalica i confini, unisce i popoli in una volontà di bene in un modo scelto, perseguito. Per cui anche l’opinione pubblica può prendere posizione e dire: possiamo fare in un altro modo, sulla base di un riconoscimento di un bene comune. Questo è segno di una mentalità nuova emersa grazie a oltre un secolo di pace nel nostro continente.
Insomma, nessuno è immune dalla responsabilità di essere attivamente artefice di processi di pace…
Sì, e direi che questo tra l’altro è il modo ‘giusto’, nel senso biblico, dove pace non è solo assenza di guerre ma è pienezza di vita e convivenza delle diversità. La storia biblica comincia con il caos messo in ordine da Dio, con la creazione, e poi c’è la caduta dell’uomo con una serie di peccati gravi e che si conclude con Dio che chiama un uomo come tutti, Abramo, e gli affida di poter essere benedizione per i popoli. Ciò richiede che qualcuno si renda protagonista di un progetto di pace che Dio affida all’uomo.
La Provincia Euro Mediterranea della Compagnia di Gesù comprende l’Italia, l’Albania, la Romania e Malta. Proprio quattro mesi fa il Papa si recava sull’isola e ribadiva di dover trattare i migranti con umanità. Come risuonano oggi a lei queste parole?
Mi risuonano profondamente a causa del fatto che ero presente con i confratelli maltesi quando ci ha incontrati nella nunziatura. Ci ha molto colpito un fatto che ancora mi commuove. Uno dei confratelli è intervenuto dicendo: le hanno detto ieri che Malta è un Paese accogliente. Santità, non è vero. Essere stato presente è stato un momento molto forte. Innanzitutto per la chiarezza delle parole con cui è stata posta la questione, considerato che in quei momenti c’era una nave a cui era stato vietato di attraccare, pur avendo persone in gravi difficoltà a bordo. Più forte ancora è stata la reazione del Papa. La prima cosa che ha chiesto è se c’era bisogno di aiuto concreto da parte sua e che ha immediatamente posto in atto. Noi lo abbiamo visto accadere in pochi secondi. Credo che si tratti di nuovo di essere protagonisti di un bene che cresce.
Con parresia…
Proprio così, senza avere timore di porre le cose, nonostante possa apparire che grandi soluzioni in quel momento non ci siano. Se non vengono poste – come è capitato lì, lo abbiamo visto – non accadono cose.
C’è una iniziativa, che riguarda specificamente la realtà italiana dei vostri apostolati, che vi vede coinvolti con gratificazione particolare?
Vorrei menzionare una attività che riguarda le nostre scuole: noi ne avevamo tante, oggi ne abbiamo quattro più due affidate a società e cooperative esterne ma legate con un protocollo alla Compagnia. Si tratta di una rete che permette di far incontrare tra di loro i nostri alunni, compresi quelli di Malta e dell’Albania. E permette di alimentare quella formazione alla cittadinanza attiva non solo limitandosi all’attività scolastica nel proprio ambiente quotidiano, ma anche di incontrarsi in una realtà che va al di là. Mi sembra molto bello. Piano piano costruisce relazioni, rapporti significativi, si scoprono tanti pregiudizi proprio attraverso lo scambio. Altra esperienza che stiamo vivendo è che alcuni dei nostri vanno a cercare luoghi in cui sanno di poter trovare quell’ambiente che hanno vissuto nella scuola insieme a noi gesuiti. A Bologna, per esempio, ci sono una serie di appartamenti in cui i ragazzi sanno di poter vivere insieme in forma comunitaria, sostenendosi nello studio. Si creano così circoli virtuosi sulla base di valori comuni che stanno mostrando già tutta una ricchezza in termini di far crescere delle sensibilità e delle prospettive.
A proposito di giovani, non c’è giorno in cui il Papa li invita a non sedersi… In base alle vostre esperienze, ricordiamo che lei è anche assistente ecclesiastico generale dell’Agesci. Come guardano alla Chiesa oggi i giovani?
Laddove incontrano la Chiesa per quello che è, un luogo accogliente che aiuta a dare risposte di senso alle domande più essenziali, è un luogo molto molto bello. Laddove la Chiesa è un luogo dove andare a imparare delle forme che non dicono più nulla alla mia vita oggi, allora si tengono ben lontani.
Siamo a dieci anni dalla morte del cardinal Martini. Quale la sua più grande eredità?
La dimensione più significativa del cardinale Martini mi pare proprio l’invito ad avere uno sguardo contemplativo sulla realtà. Mi torna in mente una delle sue prime Lettere pastorali alla città di Milano. Una città la cui Chiesa veniva invitata a scoprire la presenza del Signore nella vita. È uno sguardo che per un non credente vuol dire cercare il bene, il desiderio comune di cercare uno sguardo capace di bucare le opacità della realtà. E qui veniamo al razzismo che a volte riaffiora oggi, veramente l’incapacità di vedere cosa che di bello, di buono, di vero, di ricco tu possiedi e io non ho e che tu sei diverso da me e che solo nell’insieme potremo esprimere la totalità di bene che altrimenti non può essere manifestata.