Domenico Agasso
Santità, domani andrà ad Asti per la prima volta da Papa. Con i Suoi familiari festeggerà i 90 anni di Sua cugina Carla Rabezzana. Eravate ragazzini durante il secondo conflitto mondiale e negli anni bui della guerra fredda: che effetto Le fa dovere affrontare da Pontefice la «terza guerra mondiale», come lei l’ha definita, con una nuova minaccia nucleare?
«È assurdo. E provoca particolare rabbia e tristezza la consapevolezza che dietro tutte queste tragedie ci sono la brama di potere e il commercio delle armi. Mi hanno detto che se in un anno non si fabbricassero e vendessero armi, si cancellerebbe la fame nel mondo. E invece prevale sempre la vocazione distruttrice, che sfocia nelle guerre. Quando gli imperi si indeboliscono puntano a fare una guerra per sentirsi forti, e pure per vendere le armi. In un secolo tre guerre mondiali! E non impariamo! Eppure basterebbe andare al cimitero di Anzio, e pensare all’età di chi è seppellito lì: io ci sono andato e davanti alla tomba di quei ragazzi americani, ventenni, morti nello sbarco di Anzio, ho pianto…. E il mio cuore piangeva a Redipuglia (mio nonno aveva fatto il Piave e mi ha raccontato che cosa accadeva laggiù). E come ho già detto altre volte: lo sbarco in Normandia… è stato l’inizio della caduta del nazismo, è vero… ma quanti giovanissimi sono rimasti sulla spiaggia, morti ammazzati? Dicono 30mila…. Non impariamo…».
C’è qualche novità diplomatica tra Vaticano e Cremlino?
«Siamo continuamente attenti all’evolversi della situazione. Come ho detto sull’aereo tornando dal Bahrein, la Segreteria di Stato lavora e lavora bene, ogni giorno, e sta valutando qualsiasi ipotesi e dando valore a ogni spiraglio che possa portare verso un cessate il fuoco vero, e dei negoziati veri. Nel frattempo, siamo impegnati nel sostegno umanitario al popolo della martoriata Ucraina, che porto nel cuore insieme alle sue sofferenze. E poi cerchiamo di sviluppare una rete di rapporti che favorisca un avvicinamento tra le parti, per trovare delle soluzioni. Inoltre, la Santa Sede fa quello che deve per aiutare i prigionieri».
Il Vaticano è pronto a ricoprire un ruolo di mediatore di pace, a ospitare eventuali trattative?
«Come confermiamo da mesi, e come ha dichiarato più volte il Cardinale Segretario di Stato Parolin, la Santa Sede è disponibile a fare tutto il possibile per mediare e porre fine al conflitto in Ucraina».
Lei ha speranza che possa avvenire una riconciliazione tra Mosca e Kiev?
«Sì, ho speranza. Non rassegniamoci, la pace è possibile. Però bisogna che tutti si impegnino per smilitarizzare i cuori, a cominciare dal proprio, e poi disinnescare, disarmare la violenza. Dobbiamo essere tutti pacifisti. Volere la pace, non solo una tregua che magari serva solo per riarmarsi. La pace vera, che è frutto del dialogo. Non si ottiene con le armi, perché non sconfiggono l’odio e la sete di dominio, che così riemergeranno, magari in altri modi, ma riemergeranno».
Prossimamente incontrerà Giorgia Meloni, la prima premier donna d’Italia: che cosa le dirà?
«Non voglio interferire nelle questioni politiche specifiche italiane. C’è un governo legittimo, votato dal popolo, è all’inizio del suo percorso, e auguro il meglio a chi lo guida e ai suoi collaboratori, e anche all’opposizione affinché sia collaborativa, perché il governo è di tutti, e ha come compito e obiettivo il bene comune, e come unico orizzonte a cui puntare un futuro migliore per l’Italia. Domenica abbiamo celebrato la Giornata Mondiale dei Poveri: come a tutti i governanti di ogni paese, chiedo per favore di non dimenticare gli ultimi».
Lei spesso ha messo in guardia l’Europa da nazionalismi e populismi. In questo periodo si parla e si scrive del pericolo di un ritorno di qualche forma di fascismo in varie nazioni: che cosa ne pensa?
«Bisogna essere sempre attenti a tutti gli “-ismi”, perché seminano, con ipocrisia, cattiveria sociale e politica».
Domenica presiederà la Messa nella cattedrale di Asti, per incontrare la comunità diocesana dalla quale erano partiti i Suoi genitori per emigrare in Argentina. Che effetto Le fa tornare nella Sua terra d’origine vestito di bianco?
«Da tempo desideravo trascorrere un po’ di ore insieme ai miei parenti nei luoghi della mia famiglia. Prima di diventare papa andavo spesso nell’Astigiano, era un’abitudine: quando arrivavo a Roma da provinciale dei Gesuiti d’Argentina, oppure come arcivescovo per partecipare a qualche sinodo. In ogni occasione facevo un salto in Piemonte per vedere i cugini di papà. Noi siamo molto legati. Con la cugina più grande, Carla, ci sentiamo spesso al telefono. Domani ci troveremo insieme anche ad altri cinque cugini, e questo mi riempie di gioia».
Che cos’è per lei il Piemonte, che cosa rappresenta?
«È la mia lingua, perché quando avevo 13 mesi mia mamma ha avuto un secondo figlio, e i nonni abitavano a 30 metri da casa nostra: mia nonna veniva a prendermi, stavo con loro che parlavano piemontese. Si può dire che mi sono “svegliato alla vita” in piemontese».
Sul soglio pontificio pensa ogni tanto al «suo» Piemonte?
«Sì, molto. E spesso ripeto mentalmente due poesie di Nino Costa. E mi commuovo».
Quali sono?
«”Rassa nostrana” (“Razza nostrana”), che mi aveva insegnato nonna Rosa. (Il Papa recita alcuni versi in italiano, ndr). “Dritti e sinceri, quel che sono, appaiono: teste quadre, polso fermo e fegato sano, parlano poco ma sanno quel che dicono, anche se camminano adagio, vanno lontano. Gente che non risparmia tempo e sudore – razza nostrana libera e testarda –. Tutto il mondo conosce chi sono e, quando passano… tutto il mondo li guarda”. Parla di gente che non perde tempo e non teme la fatica e va a cercarsi il pane in altri paesi del mondo, in Argentina, Brasile, Francia, Germania. È una storia, quella di “Rassa nostrana”, che rappresenta la vita di nonna Rosa, donna tenace. E io mi sento parte di questo cammino».
E l’altra?
«La preghiera alla Madonna Consolata. “La Consolà” (“La Consolata”; il Pontefice la pronuncia in piemontese, ndr): “O’ Protetris dla nòstra antica rassa, cudissne Ti, fin che la mòrt an pija: come l’aqua d’un fium la vita a passa, ma ti, Madòna, it reste” (“O Protettrice della nostra antica razza, custodiscimi tu, fino a che la morte mi prenda: come l’acqua di un fiume la vita passa, ma tu, Madonna, tu resti”). Quanta forza, quanto coraggio, quanta fede trasmette questa poesia!».
Quale ruolo dovrebbero avere le radici nella nostra epoca globalizzata e iper-tecnologica?
«Sono fondamentali per due aspetti. Il primo culturale: mai dimenticare e rinnegare le proprie radici culturali. Il secondo familiare: bisogna sempre alimentare e valorizzare le proprie radici familiari, specialmente i nonni. Lo dico sempre: credo che i giovani dovrebbero parlare il più possibile con i nonni; per mantenere salde le proprie radici, non per rimanere lì, fermi, senza guardare al mondo. Anzi: i nonni possono aiutare a trovare l’ispirazione per andare avanti e lontano. Ma se l’albero si stacca dalle radici, non cresce, si secca, muore. È fondamentale tenere vivo il rapporto con le radici, per la nostra crescita culturale e sociale, e anche per lo sviluppo della nostra personalità».
Quali cibi piemontesi le piacciono di più?
«La bagna cauda. In ogni zona del Piemonte viene preparata in modo diverso. Ad Asti la si cucina senza la panna, solo con il burro. Al di là dei miei gusti, sono contento che i cibi e i vini del Piemonte siano diventati così rinomati. Non bisogna dimenticare che il cibo e il vino hanno anche un valore culturale e sociale, oltre a ciò che riguarda il lavoro e l’occupazione. La mia famiglia coltivava l’uva a Bricco Marmorito (territorio di Portacomaro, provincia di Asti, paese d’origine del padre di Jorge Mario Bergoglio, ndr) e ho avuto anche zii e il nonno che erano commercianti di vino. Io ho conosciuto un cugino, sposato con una cugina di primo grado di mio padre: era così esperto, che se gli davi un bicchiere di vino senza dirgli quale fosse lui capiva subito di cosa si trattava. Mi impressionava molto questa sua capacità. Allo stesso tempo, parlando di cibo in generale, vorrei ribadire un appello».
Quale?
«Non trascurare mai, mai, che ci sono milioni di persone e di bambini che muoiono di fame. Non si può restare indifferenti. Questa deve essere una priorità per tutti: chi ha la fortuna di avere il cibo nella quotidianità non deve sprecarlo – e questo vale anche per l’acqua – insegnandolo anche ai bambini; e la comunità internazionale è chiamata a operare per eliminare davvero la fame nel mondo, che è uno scandalo, una vergogna, oltre che un crimine».
Si avvicina ai dieci anni di pontificato: quali riflessioni le suscita questo traguardo?
«Ogni giorno rifletto sulla mia vita. Una delle cose che sant’Ignazio di Loyola (fondatore della Compagnia di Gesù, ndr) raccomandava a tutti, non solo a preti e suore, era esaminare la propria coscienza almeno una volta al giorno. Non per sapere quali peccati si siano commessi, no, ma per rendersi conto di che cosa succede a noi e intorno a noi. Talvolta il nostro cuore, la nostra coscienza, sono come una strada dove passano in tanti e nessuno si accorge di che cosa accade. Invece è importante fermarsi, magari alla fine della giornata, e osservare cosa stiamo vivendo. E così uno capisce le benedizioni che riceve dalla vita, le azioni buone che ha compiuto, e anche ciò che pensa e realizza di brutto. In questo modo va avanti, comprendendo con quale spirito si relaziona nei vari ambiti: per esempio con volontà di conciliazione, amicizia, fratellanza, o cadendo nella tentazione della vendetta, del litigio, della prepotenza, della ricerca di prevaricazione».
È contento di essere e fare il Papa?
«Grazie alla mia vocazione, sono sempre stato felice nei posti in cui il Signore mi ha messo e mandato. Ma non perché “ho vinto qualcosa”, ho vinto niente… questo è un servizio, e la Chiesa me lo ha chiesto; io non pensavo di essere eletto, e invece il Signore lo ha voluto. Dunque avanti. E faccio quello che posso, ogni giorno, cercando di non fermarmi mai».
Dopo 76 anni in Argentina, con una parentesi in Germania, i viaggi a Roma, e ora Pontefice in Vaticano, che cos’è per Lei oggi, a quasi 86 anni, la vita, il mistero della vita?
«A me piace guardarla da dove sono io. C’è un verso molto bello in un poema che Holderlin scrisse per sua nonna. Dice una cosa che io sento tanto: “Es ist ruhig, das Alter, und fromm”, parla di vecchiaia tranquilla e religiosa. Questo è ciò che percepisco alla mia età: tranquillità, una pace grande, una gioia genuina. E religiosità. La vecchiaia la sento tranquilla e religiosa».
Dove cerca e trova Dio?
«Io prego. Al mattino celebro l’Eucaristia, lì trovo il Signore. E poi lo trovo in ciò che faccio e soprattutto nelle persone che incontro, in ognuno di voi».
Recentemente ha affermato che «si cercano più risposte su internet che davanti al Crocifisso»: che cosa direbbe a una persona che sta soffrendo?
«Nulla. Semplicemente e solamente ascolterei. Tante persone addolorate e angosciate non hanno bisogno di sermoni, di prediche, ma solo di qualcuno che prenda loro la mano e lasci parlare, sfogare. Le dico la verità: negli anni ho imparato tanto ad ascoltare la gente. Ad ascoltare i “piccoli”: i bambini, che ti dicono la verità in faccia; la saggezza degli anziani; la testimonianza umana e cristiana dei poveri. E anche ad ascoltare la gente torturata nell’anima perché ha tanti soldi e non sa che cosa fare della propria vita, e non è felice. Ascoltare a me fa tanto bene, perché imparo anche a servire la gente».
E ai giovani che vedono un futuro cupo, precario e incerto?
«Secondo uno scrittore latinoamericano, ogni donna e ogni uomo, e in particolare ogni ragazza e ogni ragazzo, ha dentro di sé due occhi: con un occhio, quello di carne, guarda ciò che vede; e con l’altro, di vetro, guarda ciò che sogna. Ai giovani consiglio di provare a osservare la loro esistenza, e in particolare il loro avvenire, con entrambi gli sguardi, sulla realtà e verso il loro proprio sogno. Un giovane che non vede la realtà vive “sull’aria”, e un giovane che non sogna è sotto terra. Riusciranno ad affrontare con determinazione le sfide della vita se si impegneranno ad avere entrambi gli sguardi: quello realista e oggettivo, che vede, e quello che lancia, che porta oltre gli ostacoli, cioè il sogno. Sognare sempre. E canticchiare quella canzone tanto bella, “Volare, nel blu dipinto di blu”».
Santità, per concludere: è pronto a gustare la bagna cauda?
«Sì… Mi auguro solo che i miei parenti non esagerino con le quantità, non sono più un ragazzino (sorride, ndr)».