Francesca e le “altre donne come lei”: le peccatrici scomparse cui la Chiesa strappava i bambini per mandarli in America – L’estratto

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È stato sicuramente uno dei momenti più bui per la Chiesa cattolica: tra il 1950 e il 1970, circa 3.700 bambini italiani furono strappati alle loro madri “peccatrici” – violentate, abbandonate, dimenticate –, resi giuridicamente orfani e fatti adottare da coppie americane. Il Vaticano lo chiamò “Programma Orfani”. La CBS News ha appena realizzato un’inchiesta basata su un libro, Il prezzo degli innocenti. Come il Vaticano ha sottratto migliaia di bambini alle loro madri, scritto dalla giornalista e saggista statunitense di origine italiana Maria Laurino. Il volume è stato pubblicato nel nostro Paese da Longanesi. Per gentile concessione dell’editore, ne riportiamo l’incipit, tratto dal primo capitolo “Scarpette da neonato mai portate”.


di Maria Laurino

La bella città che accolse Francesca all’uscita dalla stazione, con i portici eleganti e gli ampi viali animati di prosperità, avrebbe dovuto ridestare la graziosa ventitreenne dai capelli bruni arrivata da un paesino di provincia del Meridione. In un altro momento della vita di Francesca, il Po che luccicava al sole di mezzogiorno l’avrebbe invitata a passeggiare sulla riva. In circostanze diverse, Francesca sarebbe entrata in uno dei celebri caffè centenari adorni di specchi dorati e pavimenti di marmo, assimilando quell’esperienza con la gioia dei giovani alla scoperta del mondo, con respiri profondi e il cuore in tumulto. Ma quando Francesca arrivò a Torino, quella primavera, era cominciata la stagione della sua scomparsa.

L’autunno precedente, in Puglia, Francesca aveva lavorato alla raccolta delle olive; faceva infatti parte di una lunga stirpe di contadini che da secoli si dedicavano alla produzione dell’olio. Doveva scuotere delicatamente i rami degli alberelli per far cadere i frutti maturi sul telo ai suoi piedi. Il lavoro era noioso, le giornate lunghe e faticose, ma una sera si era guadagnata una piccola sorpresa. Il suo capo, per cui aveva una cotta, si era offerto di portarla a casa in macchina. Francesca aveva apprezzato l’invito, ma non si aspettava che l’uomo prendesse una strada diretta verso il mare azzurro fermandosi a un trullo dal tetto di paglia. Quel trullo fungeva da bar e locanda e aveva una certa reputazione fra gli uomini del posto.

All’inizio Francesca aveva cercato di nascondere alla madre i cambiamenti del proprio corpo: negare era l’unica strategia per affrontare ciò che era successo quella sera. Quattro mesi dopo, tuttavia, la casetta della famiglia, traboccante di grida e recriminazioni, sembrava pronta a esplodere. Francesca ascoltava ma non sentiva più, avvolta nei propri pensieri e desideri. Una cosa era chiara: non aveva altra scelta che andarsene dal paese.

Il viaggio in treno per Torino fu straziante: più di quindici ore in una carrozza mal ventilata che procedeva con fracasso verso nord. Nello spazio ristretto dello scompartimento Francesca sedeva di fronte a suo fratello. Carabiniere di stanza al Nord, era tornato a casa deciso a lavare la macchia che aveva insozzato la famiglia. Lei guardava la terra arida fuori dal finestrino, distese infinite di ocra e marrone che si annebbiarono ai suoi occhi mentre il fratello scatenava la propria rabbia. Disgraziata! I suoi rimproveri umilianti, pronunciati in nome dell’autorità morale e del dovere fraterno, pesavano nell’aria con un sapore nauseante, come il fumo di un sigaro scadente. Sei la rovina della nostra famiglia.

Il carabiniere portò Francesca a casa di una sorella che si era trasferita a Torino. Lei litigò con entrambi. Era decisa a tenere il bambino che portava in grembo; non voleva scomparire. Ma loro la mandarono in una casa per madri nubili tenuta da suore, dove Francesca si guadagnò vitto e alloggio facendo le pulizie e incontrò altre come lei. Donne che erano state violentate oppure sedotte e abbandonate, ingenue e ignoranti riguardo a sesso e gravidanza oppure amanti di uomini abili nell’arte dei cavilli morali. Donne del Nord e del Sud, donne isolate costrette a soffrire per i loro peccati, mentre gli uomini restavano invidiabilmente privi di responsabilità. L’ente era sostenuto dalle donazioni dell’alta borghesia torinese, compresa la moglie di un noto dirigente FIAT.

La giornata cominciava con cinque recite del rosario e si concludeva con la stessa ripetizione sussurrata, grano dopo grano, a scandire centocinquanta volte la preghiera con cui si implora la grazia della Vergine Maria. Se Francesca era sfuggita, almeno in via temporanea, alla condanna quotidiana dei familiari, ora cercava assoluzione da un’ira molto più eterna. Passare i giorni in quella casa-convento era come svegliarsi in un mondo di garza, con un velo di vergogna che avvolgeva persino la mano del corpo che l’aveva tradita.

Durante la torpida attesa della maturazione fisiologica per il travaglio, le suore preparavano le donne per il mondo senza figli che le aspettava, insegnando loro i lavori domestici. Dita maldestre imparavano a ricamare con la seta e ad avvolgere filati color pastello sui ferri da calza, producendo articoli fatti a mano che le suore portavano in un negozietto del centro, e il cui ricavato andava a sostegno della casa. In una delle più crudeli lezioni della vita, le suore insegnarono a Francesca a sferruzzare scarpette da neonato.

L’estate era ormai finita quando fu mandata all’ospedale, in un reparto maternità riservato alle peccatrici. La vita della donna che aveva portato il figlio in grembo per nove mesi, che lo diede alla luce dopo un travaglio straziante e lo chiamò Piero, nome scelto mesi prima, che lo allattò per pochi giorni preziosi e che voleva disperatamente tenerlo stava per essere cancellata.

Nella corsia della maternità aveva un nome e un bambino, ma quattro giorni dopo era priva di entrambi. Nei giorni e negli anni seguenti avrebbe dovuto trovare un angolo di cuore libero dal dolore insopportabile di aver dovuto abbandonare il primo figlio. L’atto di nascita, sigillato a occhi indiscreti fino al secolo seguente – per impedire alla madre di scoprire qualcosa sul figlio e assicurare che il figlio non potesse mai trovare la madre – diceva: “Nato da donna che non consente di essere nominata”.

Non fece alcuna differenza il fatto che Francesca rimanesse a Torino altri tre anni per stare vicino al figlio, lavorando come tata per una coppia abbiente e immaginando Piero nel volto del bambino di cui si occupava. Non fece alcuna differenza il fatto che Francesca tornasse più volte al portone della casa per trovatelli a cercare di riprendersi il bambino. “Rassegnati, donna”, le disse infine la madre superiora, decisa a mettere fine alle sue visite. “Il tuo bambino è stato mandato in America. È con una buona famiglia”.

Non importava che le parole della suora fossero false: Piero era stato destinato a una coppia americana e sarebbe rimasto per altri due anni in una stanza spoglia dove si allineavano culle di bambini piangenti, prima che fossero pronti i documenti e concesso il visto per l’adozione internazionale. Nulla importava, perché Francesca ormai era un fantasma. Agli occhi della Chiesa, senza nome e senza figlio, era ufficialmente scomparsa.

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