Cecilia Seppia – Città del Vaticano
In questo momento, vorrei rivolgermi a tutti gli ammalati che hanno il virus e che soffrono la malattia, e ai tanti che soffrono incertezze sulle proprie malattie. Ringrazio di cuore il personale ospedaliero, i medici, le infermiere e gli infermieri, i volontari, i sacerdoti, che in questo momento tanto difficile sono accanto alle persone che soffrono.
Non in una, ma in tante Messe celebrate a Santa Marta e trasmesse in diretta TV, in questo lunghissimo e difficile anno di pandemia, il Papa ha pregato per i medici, gli infermieri, il personale sanitario e i sacerdoti degli ospedali, tutti in primissima linea nella lotta al virus. I cappellani in particolare non hanno mai interrotto la loro missione, non hanno mai smesso di portare, seppur bardati come palombari, la consolazione di Cristo a chi lavorava giorno e notte, ai malati soprattutto che non avevano più contatti con le famiglie. Lo facevano recitando una preghiera ad alta voce, dando una benedizione da dietro un vetro, riuscendo a portare l’Eucarestia a chi stava lottando tra la vita e la morte, mostrando la croce, il rosario come per dire: “Non sei solo, Dio sta soffrendo insieme a te”. Anche soltanto vedere un frate, dice Fra’ Loreto Fioravanti, Guardiano della Fraternità dei Cappellani dei Frati Minori del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, poteva essere per molti un segno di speranza di fronte ad un virus spietato che sembrava uccidere in modo indiscriminato, per lo più privando della forza e dell’aiuto della famiglia che nei momenti di malattia é fondamentale.
Ho avuto la notizia che in questi giorni sono venuti a mancare alcuni medici, sacerdoti, non so se qualche infermiere, ma si sono contagiati, hanno preso il male perché erano al servizio degli ammalati. Preghiamo per loro, per le loro famiglie, e ringrazio Dio per l’esempio di eroicità che ci danno nel curare gli ammalati.
Queste le parole del Papa all’omelia del 24 marzo del 2020, mentre il numero delle vittime e dei contagiati saliva di ora in ora. Avevamo paura, continua Fra’ Loreto, unico tra i frati del Gemelli ad essere anche stato contagiato e ricoverato nel reparto Covid dell’ospedale, ma nello smarrimento, nell’isolamento, la voce di Francesco da Santa Marta, arrivava ogni giorno a dare forza, ad accarezzare, a benedire. Era la preghiera ad unire nell’isolamento e ancor di più la preghiera del Santo Padre che illuminava gli ospedali in quei giorni drammatici.
R. – Noi visitando i reparti abbiamo spesso sentito anche un riscontro e, nonostante ci fossero tante proposte televisive in quel periodo, molti seguivano proprio il messaggio del Papa che così sentivano ancora più vicino, come un padre che si prendeva cura di loro. Il Papa a Santa Marta ha incoraggiato un po’ tutte le categorie anche noi cappellani che, per esempio, abbiamo ricevuto una sua benedizione il primo aprile. Questo ci ha dato molto sostegno. In quel momento era tutto nuovo, c’era questo clima difficile, di paura, di terrore, anche noi inizialmente non potevamo girare nei reparti come facevamo sempre ma, forti di questa benedizione che il Papa ci aveva dato, abbiamo ricordato di essere parte di un ospedale cattolico e che Francesco ci incoraggiava e ci ricordava che il Signore vedeva nel segreto quello che noi facevamo ogni giorno accanto ai malati. Era quindi un segno prezioso perché il nostro servizio portava conforto ed era in qualche modo il sostegno della Chiesa.
Prendendo tutte le precauzioni poi avete cominciato di nuovo a girare nei reparti, a portare vicinanza ai malati, qual è stato il ruolo maggiore in questo anno di pandemia e come concretamente riuscivate a stare vicino a loro?
R. – Concretamente abbiamo prima mandato dei messaggi sui vassoi per far sentire ai malati la nostra vicinanza quando ci era impedito, poi quando l’ospedale dal giorno di Pasqua dell’anno scorso, il 12 aprile, ci ha consentito di rientrare nei reparti, attraverso l’aiuto del personale, siamo riusciti a portare i sacramenti ad alcuni di loro. Altre volte abbiamo fatto la preghiera con il microfono al centro del reparto perché ogni stanza era isolata e chiedevamo a chi voleva ricevere la comunione di suonare il campanello. Abbiamo pregato insieme portando anche il dono dell’indulgenza plenaria che il Papa ha concesso l’anno scorso: un regalo della Chiesa per far sentire a tutti la misericordia di Dio Padre. Io tra l’altro sono stato anche contagiato, l’unico dei frati, e ho vissuto anche l’altro aspetto, quello di essere malato e ricoverato nel reparto, ho visto delle cose delle quali ci si rende conto solo quando si è ammalati. Ora da parte degli operatori sanitari e in tutti noi c’è un po’ di stanchezza, dopo un periodo di grande pressione, ma credo che anche grazie alla forza della Parola di Dio, del Papa e della testimonianza che tanti uomini e donne riescono a dare, di tanti medici che hanno scelto questa vocazione per amore, credo che oltre alla stanchezza ci sia il coraggio per andare avanti e il sapere che possiamo aiutarci come fratelli l’un l’altro.
Avete avuto anche i momenti difficili spesso vi siete trovati a dover benedire le bare…
R. – Sì questo è stato drammatico perché pregare fuori dalla porta, come è stato all’inizio o davanti ad un vetro dove si intravedeva quello che succedeva all’interno del reparto, è stato difficile. Era come un muro di separazione che spaventava tutti, ma sapevamo che la preghiera poteva unirci. Tra i momenti più drammatici, ricordo quelli in cui noi frati accompagnavamo i parenti dei malati, che dal momento del ricovero non avevano più avuto contatti con loro, non li avevano più visti, e che purtroppo li hanno potuti “salutare” solo alla camera ardente: quello è stato un momento che mai dimenticherò nella mia vita. Bisognava cercare di ricostruire quello strappo che la malattia aveva creato. Ricordo di un marito che ha pianto sulla bara della moglie e non riuscivamo a fermarlo, era più che giusto che fosse così, e le sue lacrime arrivano proprio dentro. Lui continuava a chiedersi come potesse essere successo, come la moglie da sola avesse dovuto vivere quella situazione… Avevamo attivato anche un telefono cellulare, come una specie di “telefono amico” per sostenere e alcune volte dare un aiuto per le piccole necessità tra i pazienti ed i parenti, facendo un po’ da ponte in quelle situazioni difficili.
Per molti anche solo vedere un frate da lontano in qualche modo quindi è stato un segno di speranza di fronte ad un virus che uccideva in maniera indiscriminata. Il Gemelli è ancora uno dei poli Covid per la città di Roma, qual è oggi la situazione?
R. – Abbiamo ancora dei reparti Covid, anche la rianimazione, ora stanno aumentando i casi nella fascia tra i 45 e i 60. Ringraziando il Cielo qui nel Lazio c’è meno emergenza rispetto alle altre regioni tuttavia è una situazione in cui ancora bisogna essere molto prudenti. Senz’altro vedere un frate anche se coperto dal camice o dalla tuta ha dato conforto, io portavo sempre anche una crocetta con un piccolo cuore rosso che è il segno dell’ospedale dedicato al Sacro Cuore, era il desiderio di far sentire questo cuore al centro della croce che batteva per ogni ammalato. Io credo che il nostro impegno, come poi ci ha insegnato proprio San Francesco nella cura dei lebbrosi, è di essere sempre attenti a custodire questi luoghi dove purtroppo la malattia rende fragili tanti fratelli.
Quelle parole di Francesco alla Messa di Santa Marta sono servite, vi sono rimaste dentro?
R. – Sì molto, io ho avuto tante risonanze anche da parte degli operatori sanitari, dei medici che si sono sentiti incoraggiati, pure le riflessioni di Papa Francesco, la preghiera che ha fatto il 27 marzo sono stati momenti importanti per i malati che dal letto lo seguivano, ha in qualche modo illuminato gli ospedali. Tanti guardavano la messa di Papa Francesco e molti mi hanno detto che era una carica per tutto il giorno, un sostegno sapere che il Papa voleva dare un messaggio diretto ad ognuno di loro. Credo sia stato molto importante, è molto importante anche ora questa vicinanza di tutta la Chiesa.