Festival della Comunicazione: il coraggio dei padri di parlare con il cuore

Vatican News

A Catania, nella Chiesa di Sant’Orsola, la presentazione del volume “Che fine hai fatto, papà? Bussola per padri smarriti” di Massimiliano Pappalardo. L’incontro con il filosofo nell’ambito della 18.ma edizione della manifestazione promossa dalla Famiglia Paolina e di cui Vatican News è media partner. L’autore: “Bisogna condividere tempo con i propri figli. Oggi i padri sono scomparsi per scelta ed è necessario recuperare l’affettività”

Michele Raviart – Catania

Si continua a parlare di famiglia al Festival della Comunicazione di Catania. Dopo l’incontro che ha messo in luce come l’avvento del digitale abbia cambiato il rapporto tra genitori e figli dopo la pandemia, a essere al centro del dibattito è stato il ruolo di padre nell’epoca contemporanea. L’occasione è stata la presentazione del volume “Che fine hai fatto, Papà? Bussola per padri smarriti” del filosofo e saggista Massimiliano Pappalardo, intervenuto all’evento organizzato nella Chiesa di Sant’Orsola di Catania.

Ascolta l’intervista a Massimiliano Pappalardo

Pappalardo, chi è che si pone la domanda “Che fine hai fatto, Papà?”

La domanda se la pongono proprio i figli, le ragazze, i ragazzi in un contesto in cui si vive esistenzialmente una sorta di sradicamento e si perdono i punti di riferimento affettivi e anche normativi, quindi non a caso la copertina del libro vede il ragazzo al centro, seduto su una bussola che chiede conto e ragione di una presenza che sta sempre diventando di più evanescente.

Perché i padri sono smarriti?

I padri sono smarriti perché sono confusi, nel senso etimologico del termine. “Fusi” tra tutta una serie di dinamiche. Senz’altro il padre carrierista, il padre manager, colui che in virtù della carriera più che del bisogno  – come poteva essere 30 o 40 anni fa –  decide di diventare soggetto di prestazione per una realizzazione carrierista più che per il lavoro inteso come mestiere,  invece di occuparsi o dedicare del tempo attivo attento ai propri figli. Quindi un padre che è scomparso per scelta, non per caso.

Uno dei passaggi della presentazione che sfata un po’ uno dei miti della contemporaneità che quello della “qualità del tempo”. Quali sono le insidie di misurare il tempo che si passa con i propri figli in termini di qualità?  

C’è una sorta di autoassoluzione: meno sto con i miei figli più dico poi di dover dedicare loro del tempo di qualità e di dare importanza a quel tempo, in realtà, soprattutto quando i bambini sono molto piccoli sono dei cuccioli e quindi com’è letteralmente per i cuccioli degli animali hanno bisogno del calore, della compagnia, della presenza fisica a prescindere da qualsiasi cosa poi si faccia o meno. Via via che i figli crescono, ovviamente chiedono di più e chiedono attenzione emotiva, ma anche affettiva. La qualità ha bisogno del giusto tempo affinché poi possa emergere. Non posso in qualsivoglia modo farlo accadere ex abrupto, ma ho bisogno di lavorare, di impegnarmi affinché poi vi siano anche dei momenti qualitativamente adeguati. Poi bisognerebbe comprendere se vi sia davvero una certificazione di qualità nella vita delle persone. Per i prodotti è chiara, per i rapporti, la vita umana è per definizione libera, e quindi anche discontinua.

Il rapporto padre-figlio, poi, si ripercuote anche in altri aspetti della vita sociale, anche quando il padre non presente fisicamente, penso alla scuola… Quali sono le criticità che si possono manifestare?

È stato infranto un rapporto che in un qualche modo ha tirato su l’Italia dalla fine della Seconda Guerra mondiale che era questo patto potentissimo tra la scuola e le famiglie e delegavamo i nostri figli ai professori e ai maestri con fiducia e con stima. Oggi proprio in virtù di questa voglia di compiacere, di questa eccessiva assenza facciamo come dire i “corsari” allorquando magari non sia richiesta la nostra figura. Se a scuola i professori dovessero per sbaglio richiamare lo studente il padre improvvisamente si manifesta e in quel momento nel ragazzo e nella ragazza scatta la sfiducia per le istituzioni. Tra l’altro ci sono le famosissime chat della scuola dei genitori, che sono del tutto centrifughe a quelle che sono per esempio invece i momenti istituzionali come i consigli di classe. Ecco, in quei momenti lì il ragazzo, che vive di esempi, perde il rispetto per le istituzioni, il rispetto verso professori e invece dovremmo essere bravi da genitori a valorizzare le persone cui noi affidiamo i nostri figli. Invece così li svalorizziamo de facto, senza discorsi..

La seconda parte del titolo del volume è “bussola per padri smarriti”. Quali sono gli orientamenti può suggerire è libro?

Il libro non è un manuale di pedagogia. Io preferisco restituire delle intuizioni, delle suggestioni perché poi il genitore “come lo fai, sbagli”, quindi bisogna essere sempre rispettosi della fatica, del mestiere del fare papà e mamma. Altresì, però, passare magari dal compiacimento, dalla ricerca del like che stiamo riportando anche in famiglia, non devo piacere a mio figlio. Ecco, bisognerebbe tornare anche un po’ alla normatività dando le ragioni, perché il no del padre era un “no” secco. In questo caso andrebbe detto dando adeguate ragioni perché il figlio in qualche modo quel no lo ricerca. Se trova dall’altra parte un sì, questo eterno positivo, non lo educhi alla libertà perché per lui la libertà sarà sempre dire sì e ogni tanto la realtà ti darà al contrario un’opposizione, una negatività. quindi l’atto educativo richiede contemporaneamente Eros e Logos e Normos. La norma, l’affettività e anche chiaramente la ragionevolezza. Si dovrebbe ritornare a un verbo che vorrei ristrutturare, educare, da “educere” trarre fuori l’altro dall’altro. Invece oggi rischiamo solo di addestrarli o di compiacerla. Ecco addestrare è letteralmente “rendere destro” un pezzo della persona, non guardarla nella sua totalità.

Nel corso della presentazione sono stati anche suggeriti dei modi, in cui i possono essere vicino ai figli. Uno di questi è la lettura…

Sicuramente condividere. Dei momenti semplici, appunto, come può essere far sport, leggere un libro che leggono loro senza giudicarli. I figli leggono libri come Harry Potter. Leggilo anche tu, è un’occasione oggettiva di dialogo e, perché no, anche di scontro dialettico, però in qualche modo si parte da qualcosa che a loro sta a cuore. Facevo un esempio proprio a un amico di recente che diceva “i miei figli ascoltano musica trap”. Ora probabilmente la trap non è il genere preferito di noi “Generazione X”, però incuriosiamoci, cerchiamo di capire perché a mio figlio piace quella cosa. Chiediamoglielo. Il figlio, i ragazzi in generale, lo siamo stati tutti, quando sentiamo l’interesse da parte dell’adulto, comunque ci leghiamo, ci interessiamo.  Pensiamo “lui si interessa a me”. C’è una frase che citavo durante la conferenza, bellissima, di una canzone di Luca Carboni, illuminante. “I professori non ci chiedevano mai se eravamo felici”. Se magari ci avessero chiesto: “Come stai?”, noi avremmo studiato la storia con più amore, la filosofia e la matematica con più amore.

Il tema di questo Festival è parlare col cuore e farlo con mitezza. Che cosa significa parlare col cuore per un padre al figlio?

Parlare col cuore ha una parola italiana che deriva dal latino, che è la parola coraggio. Coraggio viene dal latino “Cor habeo”. Avere cuore non significa essere spavaldi, essere spocchiosi. Significa avere a cuore qualcosa e qualcuno e quindi di conseguenza poter dare la vita per lui. Oggi rischiamo di perdere il cuore e di aumentare invece livello di codardia. Codardia è una parola interessante perché etimologicamente significa proprio “nascondere la coda” quindi anche dal punto di vista simbolico il cuore è al centro del petto come fonte di affettività profonda, mentre la coda è in una zona magari meno nobile. Scegliamo il coraggio che non significa non aver paura, perché appunto la genitorialità è difficile e si ha paura di perdere, di deludere. La paura è umanissima anzi, dobbiamo conservarla. Il grande Giovanni Falcone diceva di aver paura, altrimenti non sarebbe coraggio, sarebbe incoscienza. Avere coraggio significa amare quello che si fa e quindi avere a cuore.