Antonella Palermo – Città del Vaticano
Dall’inizio del pontificato e ora anche nel Messaggio per la 55.ma Giornata Mondiale della pace, il Papa non si stanca di ripetere che il dialogo è l’unico strumento per dare soluzione ai conflitti. Ma come si pratica il dialogo? E soprattutto un dialogo autentico ed efficace? Domande cruciali, in un’epoca in cui – come sempre dice il Pontefice – si combatte una “terza guerra mondiale a pezzi” e in cui, più che durante la Guerra fredda, si investe in armamenti, piuttosto che in istruzione e lavoro. Vatican News ha parlato di questi temi con Pasquale Ferrara, ambasciatore, docente di Diplomazia e Negoziato alla Luiss.
Professore, quali sono i presupposti e gli ostacoli principali alla realizzazione del dialogo?
Il dialogo non è una opzione politica discrezionale o una gentile concessione, per gli Stati membri delle Nazioni Unite, ad esempio, c’è l’obbligo di praticare ogni modalità di risoluzione delle controversie attraverso il negoziato e l’accordo diretto tra le parti. Il dialogo, poi, non è configurabile in nessun caso come una opzione debole: “Sì, però il dialogo non produce gli effetti sperati”, si sente spesso ripetere. Se guardiamo alla situazione in Afghanistan, Siria, Libia, vediamo invece che è la forza a non produrre i risultati sperati e che l’unica opzione praticabile quasi sempre è quella di una mediazione e una soluzione politica della crisi. Il dialogo presuppone anche una precisa volontà di ascoltare, argomentare, presentare versioni alternative, quindi lo sforzo di immaginazione e creatività politica. Naturalmente serve un dialogo sincero, non strumentale, sentiamo dire spesso che le parti vanno al negoziato ma con tutte le opzioni sul tavolo, inclusa quella militare. Questo non è modo di fare dialogo. Il dialogo è invece una scelta politica molto consapevole.
E con le parti che non vogliono dialogare, come si fa?
La pace si fa quasi sempre con un nemico, con chi non la pensa come noi e che spesso non è predisposto al dialogo. Ma al di là di alcuni casi estremi, come quello di prevenire un genocidio, di arrestare la violenza terroristica e proteggere la popolazione inerme, per tutto il resto credo che ci sia ampio margine per instaurare un dialogo che non è una conversazione piacevole davanti a un tè, ma mettere sul tavolo temi estremamente complessi e difficili da trattare ma fondamentali, quali la dignità delle persone o il rispetto delle integrità territoriali. Credo che lo sforzo da fare in questi casi sia cercare di capire quali sono le condizioni che hanno portato gli interlocutori ad assumere un atteggiamento violento. Se andiamo a scavare, spesso ci sono questioni strutturali irrisolte, ingiustizie perpetrate nel tempo. Andare alle cause di certi comportamenti violenti, contribuisce ad articolare meglio la risposta a questi fenomeni e iniziare una mediazione. Certo, non c’è una risposta univoca, dipende dal contesto. Ricordo, ad esempio, che nel caso dell’invasione dei talebani in Afghanistan, nel 2001 e per tutto il decennio successivo, l’idea era ‘non si può negoziare coi terroristi’. Salvo poi aver visto, nel 2018, gli Stati Uniti firmare un trattato con i talebani. Poi è finita come è finita, ma ciò dimostra che non c’è mai una impossibilità assoluta, bisogna capire il contesto e il momento per negoziare.
Ha citato l’Afghanistan, lei che scenari intravede per il Paese?
Che ci piaccia o no questo ritorno dei talebani non è avvenuto attraverso una guerra civile: sono entrati in regioni e città senza combattere. Non che siano stati accolti come liberatori, ma questo dimostra che evidentemente la precedente governance non godeva del favore della popolazione. Perciò, per poter far sì che anche il regime talebano evolva verso criteri fondati sul rispetto della dignità delle persone, prima ancora che sui diritti civili e politici che sono una conquista, con esso bisogna averci a che fare. Non significa riconoscere la legittimità dei talebani ma cercare di risolvere problemi, come la crisi umanitaria e alimentare. Dobbiamo fare in modo che la comunità internazionale possa raggiungere la popolazione e, per farlo, bisogna parlare con chi attualmente detiene le redini del governo a Kabul. L’ultima cosa che noi vorremmo è che, in tutta questa situazione, soffra ulteriormente la popolazione civile che viene già da svariati decenni di guerre, invasione, instabilità.
In che misura organismi sovranazionali nati per garantire la pace nel mondo restano tuttora un baluardo di pace? Da lungo tempo la Santa Sede auspica una riforma dell’Onu. Lei è d’accordo e in che direzione dovrebbe andare questa riforma?
La Santa Sede ha tutte le ragioni del mondo, perché se noi guardiamo all’attuale assetto della più grande e importante delle organizzazioni multilaterali che sono le Nazioni Unite, scopriamo che, sì, c’è un organismo democratico come l’Assemblea generale ma poi c’è un Consiglio di sicurezza che è un organismo fondamentalmente oligarchico, fotografia della fine della II Guerra mondiale. Il mondo è strutturalmente cambiato, ci sono grandi Paesi asiatici o africani che non sono presenti con loro seggi nel Consiglio. Non credo che valga la pena continuare su questa strada, ma che debba essere introdotta una riforma fondamentale. E una delle riforme messe sul tavolo – anche dall’Italia – negli ultimi anni è basata sulla rappresentanza dei gruppi regionali. Non è un discorso di ingegneria istituzionale internazionale, ma di rappresentatività e sappiamo bene che più un organismo è percepito come rappresentativo, più le sue decisioni sono considerate legittime su scala mondiale. Se invece promanano da un gruppo di Paesi che spesso si bloccano a vicenda con l’utilizzo del veto, è evidente che un organismo è paralizzato. Ed è un peccato perché nelle Nazioni Unite ci sono grandi risorse, anche di conoscenza di problemi come quelli di rifugiati e migranti o della sicurezza alimentare e sanitaria. Risorse immense accompagnate da capacità d’intervento che però finiscono paralizzate dalla inefficacia delle istituzioni centrali. Una riforma, perciò, dovrà avvenire o c’è il rischio che le Nazioni Unite diventino sempre più marginali e finiranno rimpiazzate da coalizioni ad hoc.
Nel Messaggio per la Pace 2022 il Papa mette in evidenza che nel mondo cala la spesa per l’istruzione mentre cresce a dismisura quella per gli armamenti. E chiede di invertire questa tendenza. Lei che cosa ne pensa?
È assolutamente fondamentale tornare a un discorso di ragionevolezza del sistema internazionale. Non è ragionevole, ad esempio, avere arsenali nucleari che possano distruggere l’intero pianeta come se fossimo nella Guerra fredda, così come non è ragionevole investire risorse in armamenti che si possono rivelare totalmente inutili anche dal punto di vista della spesa. Le minacce che i Paesi devono fronteggiare oggi sono di natura diversa rispetto a quella militare classica: sono il cambiamento climatico o la cyber security, l’uso del digitale per penetrare all’interno di sistemi e manipolare anche l’opinione. In questa situazione, non si sa quindi quale davvero possa essere l’utilità di accrescere gli investimenti nello sviluppo di armamenti fisici, quando le minacce sono transnazionali e immateriali. Credo che bisogna pertanto giungere ad un’economia che abbia interesse per il bene comune, unica vera garanzia di sicurezza per il futuro.