Chiesa Cattolica – Italiana

Etiopia, i drammi della guerra in Tigray e l’aiuto per ridare salute e dignità

Aldo Morrone, direttore dell’Istituto Internazionale Scienze Mediche, Antropologiche e Sociali (IISMAS), è rientrato dal Corno d’Africa, testimone dei traumi del conflitto, degli abusi sulle donne, della distruzione di infrastrutture di base. Parla della tenacia e dedizione con cui continua a operare l’ospedale che sostiene al confine con l’Eritrea: “Sentirsi toccati nelle piaghe è un modo per avere una immediata comunicazione. Sono loro che mi insegnano la solidarietà vera”

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Un Paese meraviglioso con una popolazione che, sebbene ridotta allo stremo, riesce ancora a dare testimonianza di una solidarietà fortissima che ha molto da insegnare. Così sintetizza la situazione che attualmente vive l’Etiopia Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Istituto Internazionale Scienze Mediche, Antropologiche e Sociali (IISMAS) rientrato due settimane fa da una delle sue periodiche visite nello Stato del Corno d’Africa. Esperto di patologie tropicali e malattie della povertà, si occupa di medicina transculturale, con una spiccata attenzione sulla salute dei migranti e delle fasce a rischio di emarginazione sociale. Attraverso i suoi occhi, il racconto delle conseguenze fisiche, psicologiche, economiche e infrastrutturali di una guerra, in Tigray, fratricida.

Il Tigray e la guerra “nascosta” 

“Ho trovato un’Etiopia ridotta molto male per una guerra che ad Addis Abeba si nasconde: molte persone non sanno nemmeno che ci sono stati anni di guerra fratricida”. È tra gli aspetti più inquietanti la volontà istituzionale, secondo quanto riferito dal dottor Morrone, di mantenere il conflitto sotto il tappeto. Eppure le tracce sono macroscopiche con un bilancio di due anni (tra il 2020 e il 2022) tragico: secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni. È lo stillicidio consumato al nord, dove si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf); sono poi comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo che aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. Scontri durissimi che hano finito per mettere in ginocchio i miliziani tigrini che intanto erano stati supportati dall’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia). Il 2 novembre 2022 arriva la firma dell’accordo, mediato dall’Unione africana, tra Addis Abeba e Macallè per un cessate il fuoco che, almeno sulla carta, ha posto fine al conflitto.

Icone di povertà e resilienza

“È una guerra di cui non si è voluto far parlare”, osserva Morrone che dice di aver visto una “situazione disastrosa”. Parla di una “bolla speculativa incredibile” e porta alcuni esempi: “gli stipendi dei medici viaggiano intorno ai 250 dollari al mese, un pranzo non costa meno di cinque o sei dollari. Nel nord la situazione è allo stremo. La guerra è ancora di fatto non conclusa, nonostante gli Accordi di Pretoria che avrebbero dovuto sancire un armistizio ma che di fatto non è avvenuto. Ci sono circa 600-700 mila sfollati dalle varie aree del Tigray che ancora non riescono a tornare nei propri villaggi a causa della distruzione e per la presenza di bande armate in diverse parti del Paese. In più, c’è lo spettatore che finge di essere assente ma è fortemente presente: sono le truppe eritree che hanno oltrepassato il confine e quindi c’è una situazione di grande tensione”. Una “grandissima instabilità” dovuta anche alla tensione fra gli altri gruppi etnici, amhara e oromo, aggiunge Morrone il quale ben conosce la realtà di questi luoghi dove dal 1984 è attiva un’opera di formazione non solo sanitaria di cui tutt’ora si fa promotore. 

Decine di migliaia di donne stuprate

“A farne le spese sono le persone più povere. Contadini, pastori. La situazione drammatica è a scapito soprattutto delle donne”, continua il medico che segnala “oltre 30-40 mila stupri cosiddetti etnici. Io ho potuto visitare queste donne in cui lo stupro è stato una forma terribile di violenza finalizzata a impedire loro di avere figli. Alcune – afferma – purtroppo hanno perso la vita, altre si sono suicidate, altre ancora, con l’aiuto di altre donne, stanno cercando di recuperare un senso di vita. In molti casi sono state violentate davanti ai propri figli o al proprio marito”. A fronte di queste atrocità – che pure organismi tra cui Medici senza Frontiere o Amnesty Interntional hanno ripetutamente denunciato – mancano medici, operatori sanitari, psicologi, ginecologi che possano prendersi cura di queste persone. “Esistono dei centri ma non c’è di fatto personale”, scandisce Morrone che non attribuisce responsabilità specifiche difficile da riscontrare in un contesto dove sembrerebbe aver dominato l’assoluta mancanza di regole. È accaduto per i reati di matrice sessuale così come per i furti di bestiame o di alimenti. “Gli ospedali nel Tigray sono stati per oltre due anni senza cibo e senza medicine perché resi oggetti di furti o requisizioni. Le banche sono state chiuse, non c’era la possibilità di avere combustibile né ambulanze o automobili. Gli ospedali sono stati dunque imprigionati in una situazione drammatica. Infermieri, medici, biologi hanno fatto i salti mortali per sopravvivere”. 

Il dottor Aldo Morrone visita una donna

Formare i sanitari locali: dare salute è dare dignità

Morrone spiega il lavoro di sinergia internazionale fatto negli ultimi decenni per creare quattro facoltà di medicina per formare “medici locali che sono davvero bravi”. Aggiunge che il grande problema è quello delle terapie per la crescita dei tumori o per debellare virus come quello dell’hpv. Un’équipe multidisciplinare con farmacisti e antropologi l’ISMASS ha attivato collaborazioni con gli istituti di ricerca più importanti in Italia per creare non solo assistenza ma anche ricerca scientifica che potesse migliorare il trattamento di queste persone. Illustra così la genesi di quello che è uno degli ospedali costruiti nel Tigray a pochi chilometri con il confine eritreo, voluto proprio per essere un segno di pace oltre che di salute e dignità e che ha sempre accolto donne, bambini e anziani sia dell’Eritrea sia del Tigray. La struttura è stata bombardata e 15 persone che là lavoravano nel 2022 sono rimaste uccise ma, ciò nonostante, si continua a lavorare perché ci sono migliaia e migliaia di persone che hanno necessità di essere curate. “Mi hanno chiesto di aiutarli a ricostruire l’ospedale”, riferisce ancora Morrone che sottolinea come la conseguenza più drammatica di questa guerra sia stata proprio la distruzione dei servizi sanitari e di quelli scolastici.

Curare i più piccoli

“Ho visto numerose scuole bombardate dove però le maestre, con i bimbi in braccio o sul dorso, continuano a fare lezione sotto la parte ancora in piedi. Poi purtroppo si sono diffuse le malattie: epidemie di colera per oltre 90mila casi, si è superato un milione di casi di malaria. Quest’anno 15mila casi di morbillo, solo se si tiene conto di quelli di cui si può avere certezza. Il governo mi ha chiesto di aiutarli nei casi di leishmaniosi, malattia della pelle viscerale causata da un insetto. Poi ci sono i casi di dengue, tubercolosi…”. Malati che nessuno tocca si sentono miracolosamente vivi, non ai margini, non scarti da rifiutare. “Io visito, tocco, accarezzo tutti. Non perché sono un folle ma perché so riconoscere le malattie contagiose. Sentirsi toccati, anche coloro a cui la lebbra ha distrutto gli arti, è un modo per avere una immediata comunicazione, praticare una vicinanza che è percepita come foriera di speranza”. Si contribuisce così a far uscire dalla paura, dalla solitudine, dal senso di totale abbandono. 

I campi profughi, le stimmate di una fragilità inaudita

“La cosa più drammatica è stata visitare i campi profughi dove ho passato intere giornate mangiando anche con loro”, racconta ancora il professor Morrone. C’è un episodio particolare che lo ha molto impressionato: “Alcune persone mi hanno voluto far visitare una donna con una ferita aperta che ho immediatamente cercato di tamponare anche se mancavano garze. I familiari mi hanno ringraziato non tanto perché l’avessi soccorsa dal punto di vista medico ma perché avevo fatto in modo che non rimanesse traccia del sangue sul suo corpo”. Portare aiuto vuol dire reciprocità, non solo dare. “Ecco, queste persone mi stanno insegnando sempre di più cosa vuol dire la solidarietà vera. Quando chiedevo a questi medici locali come avessero fatto a sopravvivere senza cibo e senza medicine, mi hanno raccontato di alcuni contadini che nascondevano un po’ da mangiare dividendolo con il personale sanitario e le maestre”. Donne, anziani, bambini… Quello fotografato dal dottor Morrone è un Paese che porta ancora le stimmate di una fragilità inaudita, e che malgrado ciò offre gesti di profondissima umanità che non passano sulla cronaca internazionale. Come quello di una infermiera, lodata in questo caso anche dalle Nazioni Unite, che è riuscita a salvare decine di persone nascondendole a casa sua o nei boschi. “Questa donna mi ha raccontato che ha fatto tutto questo pensando che questa violenza sarebbe potuta capitare a lei. Del tutto spontaneamente. Lo ha scritto in un libro in tigrigno che vorremmo tradurre in inglese come testimonianza di speranza e di futuro”. 

L’attesa di una cura, una carezza, una possibilità di vita

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