Amedeo Lo Monaco – Città del Vaticano
L’Etiopia vive momenti di caos e incertezza. Prosegue l’avanzata del Fronte di liberazione del Tigray (Tplf) verso la capitale Addis Abeba. La diplomazia internazionale continua a lavorare per favorire il cessate il fuoco e porre fine ad un conflitto che in un anno ha provocato migliaia di morti ed oltre due milioni di sfollati.
Irruzione dei militari in un centro gestito dai salesiani
In questo scenario, nella capitale dell’Etiopia si registrano arresti preventivi di persone che hanno la sola colpa di essere di origine tigrina. Forze militari governative hanno fatto irruzione, lo scorso 5 novembre, in un centro gestito dai salesiani nella zona di Gottera, ad Addis Abeba. Sono state arrestate 17 persone, tutti di origine tigrina, tra cui sacerdoti e impiegati nel centro. Queste persone sono state poi deportate in un luogo sconosciuto. La notizia è stata confermata dall’agenzia Fides. I salesiani in Etiopia, in un messaggio inviato all’organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie, invitano a “pregare per la pace e l’unità del Paese”. Agenti di polizia, come riporta inoltre il sito di informazione “Africa ExPress”, sono entrati anche nella cattedrale cristiana ortodossa di Addis Abeba, costringendo sacerdoti e monaci tigrè a interrompere le funzioni. I religiosi sono poi stati caricati su furgoncini delle forze di sicurezza e condotti in luoghi non identificati.
La preghiera del Papa all’Angelus
In una situazione di sofferenza, povertà, paura e assoluta precarietà, tutti i cristiani in Etiopia auspicano che l’appello del Papa del 7 novembre all’Angelus, l’intervento dell’Unione Africana e quello dell’inviato americano nel Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, contribuiscano a rasserenare la situazione. All’Angelus di domenica scorsa il Pontefice ha espresso preoccupazione per la situazione in Etiopia, “scossa da un conflitto che si protrae da più di un anno e che ha causato numerose vittime e una grave crisi umanitaria”. Il Papa ha poi rinnovato il suo appello “affinché prevalgano la concordia fraterna e la via pacifica del dialogo”.
Sgomento e apprensione
“La notizia dell’arresto di sacerdoti, diaconi e laici etiopi ed eritrei che vivevano nella casa provinciale dei Salesiani – ha dichiarato don Mosè Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – ci lascia sgomenti”. “Non riusciamo ancora a comprendere quali siano i motivi alla base di un atto così grave: perché arrestare sacerdoti che svolgono la loro missione di educazione, peraltro in un centro impegnato da sempre a fare del bene, molto frequentato da anni da tantissimi bambini, dove si fa recupero dei bambini di strada? Hanno arrestato il provinciale, sacerdoti, diaconi personale di cucina, sappiamo di incursioni e perquisizioni in altre case religiose. Ma è chiaro a tutti che le chiese, le case di religiosi, non sono centri di politica. Ci auguriamo che tutto si risolva al più presto e che si giunga a una rapidissima liberazione di tutti, e che questa follia non sia di ostacolo alla missione della Chiesa verso i poveri e verso quanti si trovano in difficoltà. Io stesso ho visitato quel Centro e constatato come funzionasse bene, aperto a tutti senza nessuna distinzione di etnia, religione, classe sociale”.
Salesiani in Etiopia: una presenza radicata
I salesiani, ricorda l’agenzia Fides, hanno cominciato a lavorare in Etiopia nel 1975. Da allora hanno stabilito una presenza significativa in cinque regioni del Paese. Una di queste è proprio il Tigray, centro di un conflitto che ha ridotto allo stremo la quasi totalità della popolazione. I salesiani, nella loro tradizione di radicamento nel campo dell’educazione, gestiscono asili, scuole primarie, scuole superiori e centri di orientamento e formazione professionale. Al momento, la provincia conta 100 membri risiedenti in una quindicina di case sparse in tutto il Paese africano. Le loro attività si svolgono tramite tre Centri Missionari, 5 parrocchie, 6 scuole tecniche, 13 centri giovanili, 13 scuole primarie e secondarie e 2 centri per bambini di strada.
Il conflitto in Etiopia
La guerra nel Paese africano è scoppiata dopo l’operazione lanciata dall’esercito governativo nella regione del Tigray il 4 novembre del 2020. Il Fronte di liberazione del Tigray (Tplf) – come ricorda nel suo articolo pubblicato dall’Osservatore Romano padre Giulio Albanese – era stato ritenuto responsabile di aver attaccato una base militare a Dansha. Il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, aveva accusato il Tplf di tradimento e terrorismo, avviando una campagna militare. L’offensiva era stata dichiarata conclusa il 29 novembre 2020, con la conquista di Mekelle. I combattimenti sono però proseguiti nel settore centrale e meridionale del Tigray e i ribelli qualche mese dopo hanno scatenato una controffensiva. L’esecutivo di Addis Abeba è stato quindi costretto ad annunciare il 28 giugno scorso un cessate il fuoco unilaterale e immediato. La mossa ha segnato una pausa momentanea del conflitto civile che è poi ripreso. In questa situazione si aggiunge l’alleanza stretta tra l’Esercito di liberazione oromo (Ola) con il Tplf, lo scorso agosto, che rende lo scenario sempre più infuocato.