Sul numero di gennaio del mensile de L’Osservatore Romano, il rapporto con il sacro e la forte dimensione spirituale di Artemisia Gentileschi, illustrati da Alexandra Lapierre, autrice di una biografia della pittrice. Donna dalla travagliata vita devastata da abusi e violenze, fu la prima artista femminile a essere ammessa, nel 1616, a Firenze alla prestigiosa Accademia del Disegno
di Paolo Conti
Siamo alla Galleria Spada di Roma, scrigno di tanti capolavori, al cospetto della splendente “Madonna col Bambino” di Artemisia Gentileschi. Il piccolo Gesù, quasi dorato con i suoi capelli biondi, carezza con la mano sinistra la Madre che ha appena smesso di allattarlo. Il soave color rosa della veste della Madonna rende tutto monumentale ma insieme dolcissimo. Alexandra Lapierre, scrittrice e storica, conosce quel capolavoro in ogni dettaglio. Ha impiegato ben cinque anni della sua vita in studi e ricerche d’archivio, per scrivere Artemisia, uscito nel 1998 da Robert Laffont (in Italia pubblicato da Mondadori), una biografia che oggi è ritenuta non solo un grande classico ma anche il punto di riferimento per chiunque voglia sapere praticamente tutto della grande e tormentata pittrice nata a Roma nel 1593 e morta a Napoli nel 1653, prima donna artista ad essere ammessa a Firenze alla prestigiosa Accademia del Disegno nel 1616.
Una tela perfetta per cominciare a ragionare sul rapporto che la pittrice ebbe col sacro: “Questa splendida Madonna ha una doppia identità. È una madre che ha in braccio suo figlio, in un atteggiamento pieno di amore. Ma nello stesso tempo sa già che si tratta del figlio di Dio, ne ha piena consapevolezza. Il gesto del Bambino Gesù spiega tutto: non è solo l’affetto del figlio per la madre ma è anche una consolazione per il futuro dolore che attende la Madonna destinata a vederlo morire per la salvezza dell’umanità”.
Ma per Lapierre non si può non partire, per spiegare bene il rapporto tra Artemisia e il sacro, dal famoso processo per lo stupro che subì da Agostino Tassi nel 1612: “Artemisia, dopo quell’atto violento, continuò a frequentare il suo stupratore perché quell’uomo le aveva promesso di sposarla, nonostante lui in realtà avesse già moglie. Ai suoi occhi quella assicurazione era in tutto e per tutto un atto sacramentale. Lei era convinta di essere già sposata con lui, proprio come avviene col sacramento, contratto che coinvolge i due sposi e di cui il sacerdote è di fatto solo un testimone. Poi la scoperta della bugia, il processo che fece scandalo in tutta Roma. In più c’è la sofferenza fisica. Durante il processo Artemisia venne brutalmente torturata, pur essendo parte lesa, affinché dicesse con certezza la verità. Nella sua produzione questo rapporto con la sofferenza che avvicina a Dio, al sacro, è molto evidente”.
Alla Galleria Spada è esposta anche la magnifica Santa Cecilia, impegnata a suonare il liuto, vestita di un prezioso vestito giallo oro sopra una veste candida e con lo sguardo rivolto verso il cielo. Spiega Lapierre: “In questo quadro c’è un rapporto col sacro che non può prescindere dal suo essere pittrice donna. Qui Artemisia ci racconta il legame interiore della santa con la musica e con Dio, dunque l’incarnazione stessa della creatività femminile rappresentata dal mondo della melodia ma che si estende a tutte le arti. È l’idea di creatività che attraversa, in quel momento, tutta l’arte barocca diretta a glorificare l’Altissimo. Artemisia ci propone una magnifica immagine femminile, una bellezza tangibile, che però ci rimanda immediatamente a un’altra bellezza, quella spirituale, in dialogo con il Cielo”.
Il doppio registro che Lapierre vede nella poetica di Artemisia (un capitolo di verità umana ma con lo sguardo rivolto all’Alto) appare chiaro anche nelle due versioni della Giuditta che decapita Oloferne (Museo di Capodimonte a Napoli e Uffizi a Firenze): “L’artista con tutta evidenza si è immedesimata nel gesto che deve compiere, secondo il racconto biblico. Anche qui siamo davanti a una rappresentazione nuovissima della donna. Ai tempi, gli uomini avevano un rapporto quotidiano con la violenza e col sangue: la vita militare, i duelli, la rudezza della vita. Per le donne tutto questo non c’era. Invece qui Giuditta è forte, affronta la fatica della decapitazione con sicurezza, la vista del sangue non la spaventa”. E qui c’è una citazione inevitabile da fare, spiega Lapierre: “Impossibile non pensare all’opera di Caravaggio, che certamente Artemisia ha visto. La Giuditta caravaggesca però uccide Oloferne quasi tenendolo a distanza. Invece Artemisia opta per un pieno coinvolgimento fisico della protagonista: lei sta sopra la vittima, anche il ruolo dell’ancella Abra qui è attivo, tiene fermo l’uomo, mentre in altre rappresentazioni è in disparte. Il sacro è qui declinato in ciò che Giuditta deve fare per salvare il suo popolo dalla dominazione straniera”. E qui sarebbe interessante aprire un dibattito sul legame tra la scena così cruenta (la prima versione dell’opera è immediatamente successiva al processo) e lo stupro appena subìto da Artemisia, ma ci porterebbe troppo lontano.
Mettiamo ora da parte il sangue di Oloferne e riguardiamo un’altra scena che ci riporta al tema del sacro, la Conversione della Maddalena, esposta a Palazzo Pitti a Firenze: “Qui torniamo ancora una volta al doppio registro di Artemisia, ovvero un racconto umano che però è anche un racconto che ci porta a Dio. Maddalena è bellissima, elegante e raffinata, si capisce che è una donna ammirata e desiderata. Ma in lei avviene qualcosa di straordinario. Con la mano sinistra mette da parte lo specchio, simbolo della vanità terrena e guarda altrove, con la mano destra poggiata sul cuore. Qui il sacro domina su tutto, è una conversione, è la storia di una donna che cambia la propria vita grazie all’incontro con Dio”. Una domanda, Lapierre: ma questi messaggi erano chiari alle gerarchie ecclesiastiche? La descrizione di tanta bellezza fisica femminile non rappresentava un problema? “Direi proprio di no. Se ci fossero stati equivoci da questo punto di vista, Artemisia non avrebbe potuto lavorare per tanti committenti comunque legati alla Chiesa. Né avrebbe potuto collocare le sue opere, com’è avvenuto a Napoli, alla Cattedrale di Pozzuoli dove si trovano San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, la bellissima e I santi Procolo e Nicea”.
A proposito della sua condizione di artista donna, colpisce molto il modo in cui Artemisia propone la scena del Cristo con la Samaritana al pozzo. Lei lo ha appena dissetato e i due sono seduti sullo stesso piano, quasi in un colloquio paritario: “C’è sempre l’incontro reale tra due personaggi, così com’è nel racconto evangelico. Lei parla con il Cristo senza sapere che si tratta del figlio di Dio, lo scoprirà dopo. Proprio per questo è un quadro che trasuda spiritualità, soprattutto dalla figura di Gesù”.
Dunque, Lapierre, possiamo dire che Artemisia, con la sua produzione e con le sue figure femminili comunque belle e attraenti, ci parla sempre di Dio, del rapporto col sacro? “Sicuramente sì. Artemisia colloca sempre una donna al centro delle sue opere, pensiamo per esempio alla grandezza della Annunciazione conservata a Capodimonte. A parte il san Gennaro di Pozzuoli, non mi vengono in mente suoi lavori in cui non compaia un elemento femminile. Ma sono sempre figure umane incarnate in una fortissima dimensione spirituale. Lo stesso avveniva con Caravaggio che dipingeva gli umili ma parlava di Dio. E così Artemisia: una profonda fede anima ogni suo quadro, grazie alle donne che ci racconta”.