Documenti e testimonianze contenuti nella richiesta di citazione a giudizio

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Un’inchiesta lunga e complessa, condotta dal Promotore di Giustizia Gian Piero Milano, dall’aggiunto Alessandro Diddi e dall’applicato Gianluca Perrone. Un’inchiesta che si è sviluppata attraverso le indagini della Gendarmeria vaticana guidata dal Comandante Gianluca Gauzzi Broccoletti e che ha portato all’esame di una grande mole di documenti, degli apparecchi elettronici sequestrati agli indagati, oltre al confronto dei testimoni. L’Ufficio del Promotore di Giustizia dello Stato della Città del Vaticano ha depositato presso il Tribunale la richiesta di citazione a giudizio per dieci indagati: monsignor Mauro Carlino (già segretario del Sostituto della Segreteria di Stato), Enrico Crasso (l’uomo della finanza che da decenni aveva in gestione gli investimenti della Segreteria di Stato), Tommaso Di Ruzza (già direttore dell’AIF, l’Autorità di Vigilanza Finanziaria), Cecilia Marogna (la donna che ha ricevuto considerevoli somme dalla Segreteria di Stato per svolgere azioni di intelligence), Raffaele Mincione (il finanziere che fece sottoscrivere alla Segreteria di Stato importanti quote del fondo che possedeva l’immobile londinese al n. 60 di Sloane Avenue, usando poi il denaro ricevuto per suoi investimenti speculativi), Nicola Squillace (avvocato coinvolto nella trattativa per far subentrare Torzi a Mincione), Fabrizio Tirabassi (dipendente in qualità di minutante dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato che ha avuto un ruolo da protagonista nella vicenda), Gianluigi Torzi (il finanziere chiamato ad aiutare la Santa Sede ad uscire dal fondo di Mincione che è riuscito a farsi liquidare ben 15 milioni per restituire il Palazzo ai legittimi proprietari), René Brülhart (già presidente dell’AIF) e il cardinale Angelo Becciu.

Le denunce dell’estate 2019

Truffa, peculato, abuso d’ufficio, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio, corruzione, estorsione, pubblicazione di documenti coperti dal segreto, falso materiale di atto pubblico, falso in scrittura privata: questi i reati contestati dai magistrati vaticani. L’indagine, com’è noto, ha preso avvio dalle denunce presentate rispettivamente dall’Istituto per le Opere di Religione il 2 luglio 2019 e dall’Ufficio del Revisore Generale l’8 agosto 2019. Quest’ultima denuncia, in particolare, ipotizzava la commissione di gravi reati, quali: truffa ed altre frodi, appropriazioni indebite, corruzione, favoreggiamento, ricatto. Il Revisore notava che la maggioranza delle attività finanziarie della Segreteria di Stato era concentrata presso il Credit Suisse (77% del portafogli gestito) e che una parte consistente dei depositi derivanti per lo più dalle donazioni ricevute dal Papa “era stata impiegata in fondi che, a loro volta, investivano in titoli di cui il cliente non era messo a conoscenza” nonché in fondi ad alto rischio speculativo, di dubbia eticità, allocati in Paesi off shore. Si è evidenziato, osservano i magistrati vaticani nella richiesta di citazione a giudizio, “come la Segreteria di Stato abbia impiegato fondi ricevuti per finalità benefiche (Fondo Obolo e Fondi Intitolati), per loro natura insuscettibili di essere utilizzati per scopi speculativi, per svolgere operazioni ad elevatissimo rischio finanziario e, comunque, con finalità certamente incompatibili con quelle degli originari donanti”, … con il  “vincolo primario di scopo per il sostegno delle attività con fini religiosi e caritativi del Santo Padre”.

L’investimento nel fondo di Mincione

Un primo importante capitolo dell’inchiesta riguarda l’investimento della Segreteria di Stato nel fondo Athena Capital Global Opportunities Fund di Raffaele Mincione, un’operazione avvenuta tra giugno 2013 e febbraio 2014. Mincione viene presentato in Vaticano da Enrico Crasso, che da molti anni gestisce i fondi della Segreteria di Stato, la quale fino a quel momento, non aveva effettuato investimenti in strumenti finanziari complessi o rischiosi, né aveva mai contratto debiti per investire a leva, dunque, non aveva alcun tipo di esperienza in questo settore. Il Sostituto è monsignor Angelo Becciu, il responsabile dell’ufficio che si occupa degli investimenti è monsignor Perlasca. L’operazione con Mincione subentra a un’altra che era stata valutata in precedenza e poi scartata e che prevedeva un investimento su fondi petroliferi dell’Angola. La Segreteria di Stato si indebita dunque con Credit Suisse per duecento milioni di dollari per investirli nel fondo di Mincione (100 nella parte mobiliare, 100 in quella immobiliare). Al 30 settembre 2018 le quote avevano perso oltre 18 milioni di euro rispetto al valore dell’investimento iniziale, ma la perdita complessiva è stimata di un importo ben più consistente.

Conflitto di interessi

La gran parte delle operazioni effettuate da Mincione utilizzando la liquidità proveniente dalla Santa Sede, erano state poste in essere dal gestore del fondo per il perseguimento delle sue utilità personali e in evidente conflitto di interessi, rischiando sempre capitali altrui. “Contravvenendo ad elementari principi di prudenza, infatti – scrivono i magistrati – le somme della Segreteria di Stato venivano impiegate oltre che per realizzare operazioni imprudentemente e irragionevolmente speculative, come scalate ad alcuni istituti bancari italiani in incipiente stato di crisi, anche per finanziare soggetti giuridici facenti capo allo stesso Raffaele Mincione il quale così, mentre da un lato, era il gestore del fondo (incarico remunerato con generose commissioni), dall’altro, poteva utilizzare le risorse finanziarie dello Stato per le proprie iniziative”. In particolare, Mincione ha trovato nella Segreteria di Stato il “polmone finanziario” da cui attingere ossigeno per saldare i suoi conti con ENASARCO. Il valore dell’immobile di Londra, oggetto principale dell’operazione, risulta sovrastimato nelle carte presentate alla Segreteria di Stato, che viene anche tenuta all’oscuro di un debito contratto con Deutsche Bank per 75 milioni di sterline.

Dunque, osservano i magistrati, la Segreteria di Stato, senza alcuna preventiva valutazione dell’investimento, ha corrisposto un prezzo del tutto sproporzionato al valore al quale l’immobile era stato compravenduto nei due anni precedenti. Senza contare che un’informativa della Gendarmeria vaticana, evidentemente non tenuta in considerazione, aveva sconsigliato di affidarsi a Mincione.

La fine del rapporto con Mincione

Dopo alcuni anni, con notevole ritardo, emerge con chiarezza che l’operazione è stata dannosissima per la Santa Sede. C’è il problema di salvare il salvabile e di entrare in possesso dell’immobile di Londra. Secondo alcune testimonianze, una delle cause all’origine della decisione di rompere con Mincione sarebbe stata la sua decisione di smettere di pagare a Crasso e a Fabrizio Tirabassi commissioni occulte che sarebbero state girate su una società con sede a Dubai. Viene quindi architettata un’operazione che porta sulla scena Gianluigi Torzi. L’operazione prevede che dalla Segreteria di Stato vengano sborsati ben 40 milioni di sterline a Mincione per venire finalmente in possesso dell’immobile londinese. Ma ciò in realtà non avviene perché, invece di creare una società ad hoc controllata dalla Segreteria di Stato, si decide di affidarsi a una società di Torzi, il quale con un escamotage riesce a mantenere per sé il controllo e a raggirare la Santa Sede grazie a complicità interne. Dalla documentazione prodotta dai magistrati vaticani risulta che Mincione e Torzi erano in realtà d’accordo ad effettuare l’operazione con la Segreteria di Stato, per recuperare la liquidità persa nella scalata alla banca CARIGE, ma anche “per continuare a gestire insieme l’immobile di Londra”. “Sono state acquisite precise evidenze che dimostrano che parte dei 15 milioni di euro che la Segreteria di Stato ha corrisposto a Gianluigi Torzi … per riscattare l’immobile che egli non intendeva cedere al Vaticano, sono stati girati da Torzi a Raffaele Mincione”.

Tornaconto personale

Una figura chiave che emerge dai documenti dell’inchiesta è Fabrizio Tirabassi: nel marzo 2004 sottoscriveva con UBS un contratto in forza del quale l’istituto di credito elvetico riconosceva al pubblico ufficiale vaticano una provvigione, pari allo 0,5 % su base annua, in ragione del volume degli apporti cumulati e per la segnalazione di nuovi clienti. I versamenti avvenivano in un conto cifrato. A proposito del suo ruolo, gli inquirenti vaticani, sulla base di coincidenze temporali, chat e viaggi che confermano le dichiarazioni di alcuni imputati, ipotizzano che Enrico Crasso e lo stesso Tirabassi abbiano ricevuto denaro in contanti in cambio delle operazioni da loro promosse. In particolare, scrivono i magistrati, “il contenuto delle dichiarazioni di Gianluigi Torzi, confermate dal tenore dei messaggi che sono stati reperiti nel corso delle indagini sui dispositivi elettronici sequestrati, consentono di affermare che Fabrizio Tirabassi, divenuto punto di riferimento della gestione degli investimenti della Segreteria di Stato, nel corso delle sue attività abbia anteposto all’interesse dell’ufficio quello proprio e che grazie a tale posizione egli abbia potuto sfruttare ogni occasione per ricevere utilità che sono oggi rappresentate da un patrimonio che appare assolutamente sproporzionato alle sue capacità di produzione di reddito”. Secondo le testimonianze raccolte, sarebbe esistito un “asse tra Fabrizio Tirabassi ed Enrico Crasso in forza del quale il primo indirizzava gli investimenti della Segreteria di Stato verso Credit Suisse a fronte del pagamento di fees”.

L’inganno ai superiori

Appena arrivato a Roma, nell’ottobre 2018, dopo l’uscita di Becciu dalla Segreteria di Stato in quanto nominato pochi mesi prima Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il nuovo Sostituto della Segreteria di Stato Edgar Peña Parra viene messo a conoscenza soltanto in parte dell’operazione già in atto per uscire dal fondo di Mincione. Grazie a complicità interne, Torzi riesce infatti con un escamotage a far firmare uno Share Purchase Agreement che di fatto sottrae alla Segreteria di Stato il controllo dell’immobile di Londra. Lo fa creando 1.000 azioni della società GUTT SA e attribuendo soltanto a queste azioni da lui detenute il diritto di voto. Mentre le altre 30.000 azioni, possedute dalla Segreteria di Stato, non avevano diritto di voto. Pur avendo sborsato a Mincione 40 milioni di sterline per uscire dall’impasse e cercare di limitare i danni ritornando in possesso del palazzo e della sua gestione, la Segreteria di Stato si ritrova cosi con un altro finanziere in Vaticano a cui è stato lasciato ogni potere decisionale. La presunta “soluzione”, che in realtà consegna a Torzi ogni potere sul palazzo in Sloane Avenue, è, secondo lo stesso Torzi, una proposta di Tirabassi e Crasso “che fu condivisa da Credit Suisse”. Tirabassi e Crasso invece negano di essersi resi conto di aver posto la proprietà dell’immobile in capo alla GUTT di Torzi. I magistrati sono però convinti che “inizialmente Crasso, Tirabassi e Torzi, con la fattiva collaborazione dell’avvocato Squillace, avessero effettivamente pianificato la creazione di 1000 azioni per poter mantenere il controllo dell’immobile di Londra, tacendo, ovviamente, la circostanza ai Superiori della Segreteria di Stato, che avrebbero dovuto apporre la firma sugli accordi”. Qui si trova un altro snodo cruciale dell’inchiesta. I magistrati vaticani ritengono che “né mons. Perlasca, sottoscrittore dello Share Purchase Agreement, né i suoi Superiori, il Sostituto Edgar Peña Parra e soprattutto il cardinale Pietro Parolin, fossero stati effettivamente informati e comunque fossero consapevoli pienamente degli effetti giuridici che dalle diverse categorie di azioni sarebbero scaturiti”.

Un contratto sottoscritto in fretta

Il contratto viene sottoscritto in fretta, con Tirabassi che da Londra fa pressioni su Perlasca, rimasto a Roma. I contratti per il passaggio del controllo sull’immobile da Mincione a Torzi, che danneggiano la Segreteria di Stato, vengono dunque conclusi il 22 novembre 2018. Vengono sottoscritti da Perlasca che “in quel momento era privo di qualunque autorizzazione del Superiore Peña Parra. Quest’ultimo aveva rilasciato le necessarie autorizzazioni a Perlasca solo il 27 novembre e cioè solo dopo che, a sua volta, il cardinale Parolin aveva apposto, vergandola a mano su un memorandum, la sua autorizzazione”. Soltanto un mese dopo, il 22 dicembre 2018, Peña Parra “apprese il reale contenuto degli accordi stipulati da Tirabassi e Perlasca”. Dalla lettura sistematica dei messaggi scambiati tra Tirabassi e Perlasca “emerge come i due avessero condotto le trattative senza mai informare alcuno dei loro Superiori e, soprattutto, con la precisa consapevolezza che, in seguito, essi avrebbero dovuto comunque affrontare la problematica di come rappresentare ai superiori stessi quanto accaduto a Londra”.

La procura post-factum

La procura speciale pre-datata 22 novembre 2018 che autorizzava l’operazione capestro ai danni della Segreteria di Stato viene fatta in realtà firmare a Peña Parra a cose fatte, il 27 novembre. Al Segretario di Stato Pietro Parolin e al Sostituto viene consegnato un memorandum che presenta in modo interessato e poco trasparente i termini nella vicenda: si tratta in realtà di un documento redatto dall’avvocato Squillace (in realtà uomo di Torzi ma presentato da monsignor Perlasca come legale da lui conosciuto) e dallo stesso Tirabassi. Nel memorandum si decantano i presunti vantaggi dell’operazione ma non c’è un solo accenno all’esistenza delle diverse classi di shares che di fatto mettono tutto il potere nelle mani di Torzi togliendolo alla Segreteria di Stato. È questo memorandum che viene illustrato da Perlasca e Tirabassi a Peña Parra e Parolin. Quest’ultimo, il 25 novembre, dopo aver ricevuto informazioni incomplete, appone in calce al documento una disposizione dove si legge: “Dopo aver letto questo Memorandum, alla luce anche delle spiegazioni fornite ieri sera da Mons. Perlasca e dal dott. Tirabassi, avute assicurazioni sulla validità dell’operazione (che porterebbe vantaggi alla Santa Sede), la sua trasparenza e l’assenza di rischi reputazionali… sono favorevole alla stipulazione del contratto”.

Complicità interne

“Gianluigi Torzi – si legge nella richiesta di citazione a giudizio – sebbene non avesse sottoscritto alcun accordo con la Segreteria di Stato in tal senso, si prefigurava, oltre alla possibilità di gestire l’immobile di Londra (sostituendosi nel ruolo ricoperto fino a quel momento da Raffaele Mincione), di poter anche lui … attingere alle casse della Segreteria di Stato per le sue scorribande finanziarie; Fabrizio Tirabassi, officiale della Segreteria di Stato … agiva con lo scopo di sfruttare la situazione per concordare con Torzi una tangente; Enrico Crasso, oltre che pretendere una fee per sé, aveva interesse a far entrare la nuova acquisizione del fondo CENTURION, un altro investimento fallimentare sovvenzionato con i fondi della Segreteria di Stato, e da lui gestito…”. Secondo quanto dichiarato da Torzi ai magistrati vaticani, per poter avere la gestione dell’immobile di Londra Torzi stesso avrebbe dovuto versare il 50% di ciò che incassava a Tirabassi, interessato al “suo ritorno”. Dalle chat prese in esame, risultano passaggi di denaro in contanti che Torzi chiedeva ai suoi collaboratori di procurarsi proprio nei giorni in cui doveva incontrare Crasso e Tirabassi (8.000 e poi 30.000 euro).

L’estorsione di Torzi

Dopo l’estate 2018, Tirabassi riconosce l’errore nell’essersi fidato di Mincione e viene riabilitato da monsignor Peña Parra. Nel frattempo monsignor Perlasca viene allontanato e di fatto sostituito nel ruolo gestionale dell’operazione da monsignor Mauro Carlino, già segretario del Sostituto Becciu e – inizialmente – dello stesso Peña Parra. Dall’inchiesta della magistratura vaticana Carlino appare ben inserito nel gruppo che gestisce internamente l’operazione. Nel marzo 2019, con i soldi della GUTT (cioè della Segreteria di Stato), Torzi paga una consulenza legale all’avvocato Squillace per 224.640 sterline, senza che alcun ordine pagamento sia stato disposto dalla Segreteria di Stato. Squillace non era infatti mai stato incaricato di rappresentare gli interessi della Segreteria di Stato, ma faceva quelli della controparte. In Vaticano ci si è nel frattempo resi conto della assurdità dell’operazione che ha portato Torzi ad avere un ruolo predominante: il finanziere, che sperava di usare dei fondi della Santa Sede per le sue operazioni finanziarie è ora in grado di far prevalere la sua posizione di predominio a proprio esclusivo vantaggio. E qui subentra quella che gli inquirenti ritengono essere stata una “gravissima estorsione posta in essere” da Torzi ai danni della Segreteria di Stato. Dalle acquisizioni documentali è emerso che Torzi “tra la fine di aprile e gli inizi di maggio 2019, dopo una lunga ed estenuante trattativa condotta attraverso diversi mediatori, aveva accettato di restituire l’immobile di Londra a fronte del pagamento di 15 milioni di euro, effettivamente corrisposti senza alcuna giustificazione economica e giuridica. Momento centrale per la realizzazione di questo obbiettivo è stata la possibilità da parte di Torzi di sfruttare il potere che gli concedevano le 1000 azioni GUTT SA, le uniche con diritto di voto, che egli riuscì a trattenere carpendo la buona fede dei funzionari della Segreteria di Stato presenti alla stipulazione degli accordi”. È a questo punto che Perlasca vorrebbe ricorrere alla magistratura e non sottostare alle richieste di Torzi. Ma viene sostituito con Carlino. Chi cade in piedi è invece Tirabassi. Secondo Torzi, Tirabassi sarebbe stato “capace di mantenere il suo spazio, nonostante i ‘pasticci’ commessi, grazie alla forza ricattatoria che sarebbe stato in grado di esercitare sulla Segreteria di Stato, per le informazioni concernenti la vita privata di persone dell’apparato amministrativo della stessa Segreteria”. Ma questa ipotesi, “meramente teorica, non è stata tuttavia suffragata né dalle perquisizioni e dai sequestri eseguiti nello Stato, né dalle acquisizioni effettuate in Italia a seguito di commissione rogatoria”.

Il documento contraffatto

Per cercare di convincere Torzi a restituire le azioni, entra in gioco anche Giuseppe Milanese, imprenditore ben conosciuto in Vaticano. Torzi arriva a chiedere, secondo le testimonianze raccolte, ben 23 milioni di euro per restituire l’immobile alla Santa Sede. È monsignor Mauro Carlino a gestire la trattativa e a far corrispondere a quest’ultimo 15 milioni di euro. Per giustificare questo pagamento – che non sarebbe passato inosservato all’autorità di controllo finanziario – Tirabassi aveva alterato il documento ufficiale del 23 novembre 2018 aggiungendo una sorta di ricognizione di debito del 3% in favore di Torzi: così la Segreteria di Stato si sarebbe impegnata a riconoscere a Torzi quella percentuale nel caso l’operazione non fosse andata a buon fine. Un’iniziativa che i magistrati ritengono “di inaudita gravità non solo perché costituisce un tentativo di eludere i controlli delle autorità di intelligence finanziaria … ma perché proprio grazie a tale falso Gianluigi Torzi ha potuto ingannare perfino un’Autorità giudiziaria”. Monsignor Carlino è accusato di concorso in estorsione perché “pur consapevole della assoluta illegittimità delle richieste avanzate da Gianluigi Torzi, ha contribuito a che quest’ultimo portasse a compimento il suo piano”. Le causali dei pagamenti a Torzi erano infatti “del tutto false”.

Il ruolo dell’AIF

Si apre a questo punto il capitolo dell’inchiesta che riguarda il ruolo dell’AIF, del suo presidente di allora René Brülhart e del suo direttore di allora, Tommaso Di Ruzza: secondo i magistrati vaticani l’AIF avrebbe “trascurato le anomalie della operazione di Londra – della quale sin da subito era stata messa a parte – soprattutto considerato il patrimonio di informazioni che, per effetto delle attività di intelligence, essa aveva acquisito”. Di Ruzza, secondo le risultanze dell’inchiesta, ha agito di concerto con la Segreteria di Stato e ha svolto “una funzione decisiva nel completamento del processo di liquidazione delle pretese di Gianluigi Torzi”. Di Ruzza avrebbe dunque operato come una sorta di consulente della Segreteria di Stato. L’AIF aveva comunque subordinato la fattibilità dell’operazione a due condizioni: la prima era che le provvigioni per Torzi fossero conformi agli eventuali obblighi contrattuali assunti prima della transazione del 3 dicembre 2018; la seconda, che la proprietà e il controllo dell’immobile londinese “fossero effettivamente trasferiti alla Segreteria di Stato”. Per far sì che la prima condizione venisse rispettata, al file del testo creato il 26 novembre 2018 per la procura del Sostituto che permetteva il via libera all’operazione, era stato aggiunto (con modifica intervenuta del 17 aprile 2020) un nuovo testo, una “ricognizione di debito”, secondo il quale la Segreteria di Stato aveva preso accordi solo verbali per corrispondere a Torzi un 3 % del valore dell’immobile al momento del riacquisto finale. Il file di testo aggiunto è stato ritrovato nel computer di Tirabassi. “Dalla cronologia dei fatti si comprende chiaramente come monsignor Carlino e Fabrizio Tirabassi sapessero perfettamente di contravvenire alle indicazioni dell’AIF”. Il Promotore di Giustizia “ritiene che il comportamento dell’AIF, nelle persone del suo direttore e del suo presidente, abbia violato gravemente le regole basilari che disciplinano la vigilanza proprio perché, grazie agli interventi che si sono descritti, si è potuta attribuire una veste di credibilità ad un pagamento che tutti – nessuno escluso – sapevano non essere dovuto, tanto da ricorrere alla creazione di ricognizione di debito postume, e a fatture per operazioni inesistenti, fornendo in tal modo un contributo determinante alla realizzazione del pagamento della somma richiesta a titolo estorsivo da Gianluigi Torzi”.

L’inchiesta sul cardinale Becciu

Il porporato, già Sostituto della Segreteria di Stato, non entra subito nell’indagine. Anzi, si coinvolge in essa a motivo di quelle che i magistrati definiscono “interferenze”. “La figura di Becciu – scrivono i magistrati – per un lungo tratto rimasta estranea al focus delle indagini, si è palesata improvvisamente e inaspettatamente, a fine maggio 2020, pochi giorni prima dell’interrogatorio di Gianluigi Torzi attraverso una manovra che questo Ufficio, anche alla luce degli accertamenti svolti, non esita a definire come un tentativo di pesante depistaggio”. In particolare si tratta di due offerte di riacquisto del palazzo di Londra, entrambe a un prezzo superiore a 300 milioni di sterline: una da parte dello studio Fenton Whelan, l’altra da parte della BP Development Real Estate Corporation. Le due proposte di acquisto, scrivono i magistrati vaticani non solo in realtà “pervenivano da Gianluigi Torzi e Raffaele Mincione, vale a dire dai due principali protagonisti dell’opera di depredazione delle finanze dello Stato, ma erano entrambe legate da un fattore comune costituito dall’essere state promosse da Angelo Becciu”.

Una di queste offerte coinvolge Giancarlo Innocenzi Botti, ex parlamentare di Forza Italia e sottosegretario, insieme al diplomatico italiano Giovanni Castellaneta. L’aspetto meno chiaro della vicenda è dato dal fatto che la società proponente l’acquisto, la Bruton RE LDT, viene costituita il 30 maggio 2020 cioè nello stesso giorno in cui Innocenzi e Castellaneta si recano dal Segretario di Stato per presentare la proposta. Non si capisce con quali capitali la Bruton avrebbe potuto acquisire il palazzo sborsando una cifra compresa tra i 315 e i 330 milioni di sterline. “Dietro l’offerta di acquisto si celava proprio la figura di Torzi”, sostengono i magistrati. A far intervenire Innocenzi e Castellaneta era stato Marco Simeon, persona già ben conosciuta in Vaticano: quest’ultimo avrebbe dovuto ricevere una decina di milioni a titolo di commissione. Torzi “ha chiaramente riferito che l’iniziativa dell’operazione andava ascritta al cardinale Becciu”. Esiste una lettera dell’1 maggio 2020, indirizzata a Innocenzi, con la quale, ringraziandolo per la proposta di acquisto, il cardinale Becciu gli affidava “il mandato ad agire come nostro interlocutore al fine di produrre la formalizzazione di una proposta che possa essere accolta”. I magistrati vaticani fanno notare come il porporato, all’epoca Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, “non aveva alcuna competenza per poter affidare un mandato relativo a un affare della Segreteria di Stato, tra l’altro oggetto di indagine da parte dell’Autorità inquirente vaticana”. Sempre nell’ambito delle “interferenze”, Torzi viene consigliato da Innocenzi di non presentarsi all’interrogatorio dai magistrati vaticani, adducendo motivi di salute e a motivo del Covid. Nel farlo, Innocenzi gli mostrava lo screenshot di una chat con Marco Simeon il quale, di comune accordo con Becciu, consigliava di fare così.

Il tentativo di far ritrattare Perlasca

Un’altra interferenza addebitata dai magistrati al cardinale Becciu riguarda monsignor Perlasca. Quest’ultimo viene consigliato dal cardinale di allontanarsi da Casa Santa Marta e gli viene anche detto che in realtà il processo non si sarebbe mai celebrato. Inoltre, Becciu avrebbe fatto intervenire il vescovo di Como, Oscar Cantoni, per convincere Perlasca a ritrattare quanto aveva già detto ai magistrati, perché se non l’avesse fatto sarebbe stato “condannato a una pena di almeno sei mesi”. È lo stesso vescovo di Como, diocesi in cui è incardinato Perlasca, a rivelare al prelato che la richiesta proveniva da Becciu. Tornando a quanto accaduto negli anni precedenti, i magistrati contestano a Becciu il ruolo avuto nel far sì che 200 milioni di dollari dei fondi dell’Obolo di San Pietro gestiti dalla Segreteria di Stato venissero investiti nel fondo ATHENA di Mincione “senza un minimo di garanzia e, soprattutto, senza alcun controllo per evitare che le offerte dei fedeli versate per sovvenzionare opere caritatevoli potessero essere impiegate per finanziare spericolate scorribande speculative”. Operazioni la cui realizzazione può essere considerata “un atto abusivo al quale il Sostituto ha dato il suo determinante consenso”.

I fondi alla Marogna

C’è poi il capitolo dedicato ai pagamenti a Cecilia Marogna. Ad aprile 2020 arriva ai magistrati vaticani, attraverso la nunziatura apostolica, una segnalazione della Polizia slovena a proposito di movimenti sospetti sui conti della società Logsic Humanitarne Dejavosti D.O.O. di Cecilia Marogna. La società della donna ha ricevuto tra il 20 dicembre 2018 e l’11 luglio 2019 versamenti effettuati dalla Segreteria di Stato per 575.000 euro. Le indagini attraverso rogatoria hanno permesso di accertare che tali cifre “sono state utilizzate, nella quasi totalità, per effettuare acquisti” non compatibili e quindi non giustificabili con l’oggetto sociale della stessa società” che risulta costituita il giorno precedente al primo bonifico ed è interamente controllata dalla Marogna, la quale, intervistata dalla trasmissione Rai Report, ha affermato di aver ricevuto quelle somme di denaro per lo svolgimento di attività di intelligence, incaricata dal Sostituto Becciu. Oltre alle movimentazioni registrate per pagamenti in negozi di moda e in alberghi di lusso, si evidenziano prelievi in contanti per 69mila euro. Era Becciu, anche quando non ricopriva più l’incarico di Sostituto, a ordinare a Perlasca di fare i versamenti alla Marogna. L’ex Sostituto ha sostenuto che i pagamenti avvenivano per il pagamento di un riscatto per la liberazione di una suora rapita.

I versamenti alla cooperativa del fratello

Infine, i magistrati contestano a Becciu di aver finanziato e fatto finanziare la cooperativa del fratello Antonino. Si tratta di 600.000 euro provenienti dai fondi della Conferenza episcopale italiana e di 225.000 euro provenienti dai fondi della Segreteria di Stato. “Le donazioni provenienti dalla Segreteria di Stato – si legge nell’ordinanza – contrariamente alle tesi difensive di Becciu, sarebbero state ampiamente utilizzate per finalità diverse da quelle caritatevoli cui erano destinate”. Una parte consistente delle giacenze del conto corrente della cooperativa del fratello sarebbe stata “distratta e destinata a scopi non caritatevoli”, tra cui anche prestiti a una nipote del cardinale per l’acquisto di un immobile a Roma.