Antonella Palermo – Città del Vaticano
Era il 22 luglio 2011. Il filonazista Anders Behring Breivik, con una uniforme da poliziotto, fece esplodere un’autobomba fuori dall’ufficio del primo ministro a Oslo, uccidendo otto persone, prima di guidare fino a Utøya e sparare a 69 persone che partecipavano a un campo estivo dell’organizzazione giovanile del Partito laburista. Fu condannato l’anno dopo alla pena massima in Norvegia, 21 anni.
Un memoriale dove piangere per le vittime
A creare tensioni nella popolazione è stata la decisione di costruire un memoriale con 77 colonne di bronzo (tante quante le vittime). I familiari delle vittime lo vogliono con determinazione, mentre gli abitanti del quartiere della capitale dove sta sorgendo l’opera dicono di non voler vivere con il ricordo di quell’incubo davanti alle finestre. Una lastra metallica circolare con i nomi degli assassinati sorge già sull’isola. Qualche anno, però, fa ignoti vandali simpatizzanti di Breivik la imbrattarono spruzzandoci sopra una svastica con la vernice spray nera. “E’ davvero deludente che molti sopravvissuti e familiari non abbiano un luogo dove andare. Non hanno un monumento nazionale al dolore di quel giorno”, ha detto Sindre Lysoe, che sopravvisse all’attacco e ora è alla guida della segreteria generale del Partito laburista giovanile.
Quell’eccidio contro il multiculturalismo
Intanto il suprematista Breivik sta scontando la condanna in un trilocale di un carcere di massima sicurezza. Può fare esercizio fisico, giocare ai videogiochi e guardare la televisione. Oltre ai contatti quotidiani con le guardie carcerarie, le autorità hanno offerto all’uomo la possibilità di avere contatti con un prete, un infermiere, un volontario in carcere e uno psicologo. Dichiarato dalla Corte distrettuale di Oslo ‘sano di mente’, ha sempre affermato con convinzione davanti ai giudici che il suo scopo era difendere la società dal multiculturalismo.