La Libreria Editrice Vaticana pubblica il primo libro tradotto in italiano del cardinale belga, arcivescovo emerito di Bruxelles-Malines, teologo e biblista, che viene presentato nelpomeriggio all’Ambasciata del Belgio presso la Santa Sede, con il sottotitolo “La fede nella società moderna”. Il porporato, che partecipa al Sinodo, vede nel futuro “una Chiesa, umile, più piccola, più professante e aperta”
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Si può essere ancora cristiani in un mondo che non lo è più? E’ la domanda che si pone il teologo e biblista belga Jozef De Kesel, cardinale e arcivescovo emerito di Bruxelles-Malines, del quale la Libreria Editrice Vaticana pubblica la traduzione italiana del libro già uscito in francese nel 2021, “Foi e religion dans une société moderne”, con un titolo che nella versione Lev recita: “Cristiani in un mondo che non lo è +”. Il cardinale, che partecipa al Concistoro del 30 settembre e poi ai Sinodo che si apre il 4 ottobre, sostiene di sì, a condizione di accettare, abitare e valorizzare il presente per quello che è. E testimoniando nel mondo il Vangelo, con essenzialità. Quindi “cercare Dio, ascoltare la sua Parola; rispondergli con la preghiera e la liturgia, il ringraziamento e la lode; vivere nell’amore fraterno e nella solidarietà con chi è nel bisogno”. Questo, per il cardinale De Kesel, significa che la Chiesa dovrà farsi più umile, più piccola e forse minoritaria, più confessante e missionaria, più aperta al dialogo e alla solidarietà. E il Sinodo che sta arrivando, che per il porporato “riprende lo spirito del Concilio” potrà aiutarla in quest’opera, “che è prima di tutto una conversione dello spirito”. Di questo, e di altri temi del suo libro, agile lettura di poco più di 130 pagine, abbiamo parlato con l’autore.
Eminenza, il suo saggio parte dalla constatazione che oggi non viviamo più in una società cristiana, ma che questo non significa la fine del cristianesimo. Anzi, questa crisi, scrive, si può rivelare come una grazia e un kairos per la Chiesa. In che modo?
Si, è veramente un kairos. A una condizione: che accettiamo di non essere più la religione culturale dell’Occidente. Viviamo in un mondo che non è più una società cristiana omogenea, ma in una società pluralista dove ci sono dei concittadini che hanno un’altra convinzione religiosa o non sono credenti. Nel passato, quando rappresentava la religione di tutti, ancora nel XIX secolo, la Chiesa non era favorevole alla libertà religiosa. Adesso non è più possibile. Per poter vivere insieme, è necessario rispettare l’altro. Papa Francesco lo ha già detto più volte: non viviamo un’epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca. L’ascesa della cultura moderna ha cambiato la situazione. Non viviamo più in un mondo cristiano ma semplicemente nel saeculum, cioè nel mondo. La Chiesa non è il mondo ma vive in mezzo alle nazioni. Dobbiamo accettarlo. Non perché siamo obbligati, ma con il cuore. La Chiesa non deve vivere necessariamente in un mondo cristiano e la situazione attuale presenta veramente un kairos, non per una pastorale di riconquista, ma di presenza. Come la comunità dei monaci di Tibhirine, che in Algeria erano presenti in un ambiente musulmano, senza nessun desiderio di proselitismo, ma come testimoni autentici del Vangelo con una grande amicizia e solidarietà nei confronti dei musulmani. Una Chiesa che non si impone. Una Chiesa più umile, più fraterna, più sinodale. Come è scritto nella Prima Lettera di Pietro, dobbiamo essere sempre “pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto”. Solo a questa condizione la situazione attuale diventa veramente un kairos.
Al tempo stesso lei considera la tendenza alla privatizzazione della fede come un attacco al cuore della fede cristiana. Perché?
Nel mio libro invito la Chiesa ad accettare la secolarizzazione, non come un nemico o un ostacolo alla nostra missione, ma come una situazione normale, nella quale la Chiesa può vivere e compiere la sua missione. Con questo non voglio dire che la secolarizzazione non ponga nessun problema. Come la religione, anche la secolarizzazione può radicalizzarsi, e diventa secolarismo. E c’è una grande differenza: il secolarismo non nega la possibilità della fede, ma dice che la fede non ha nessun significato per la società. La religione diventa una convinzione privata che ha senso solo per la vita privata. E’ la tesi della privatizzazione della religione in una società secolarizzata. Nello stesso tempo in cui difendo la secolarizzazione, dico no a questa privatizzazione. La mentalità secolarista chiede alla Chiesa e ad ogni religione di occuparsi solo dei propri problemi, cosiddetti “religiosi”, ma non delle grandi sfide del mondo e della società: la povertà, l’ingiustizia, la violenza e la guerra, la crisi ecologica, la migrazione. Allora si capisce che questa tesi della privatizzazione della religione si oppone radicalmente al Vangelo e alla tradizione bibliche. Non si può separare l’amore verso Dio dall’amore per il prossimo. Affermare che il messaggio del Vangelo non ha niente da dire sulle grandi sfide della società, fa perdere alla Chiesa ogni credibilità.
Nel testo lei cita più volte i documenti del Concilio Vaticano II. Qual è stato il più grande merito dell’opera dei padri sinodali, che lei definisce provvidenziale?
Ancora oggi alcuni accusano il Concilio di aver condotto la Chiesa all’incertezza e alla crisi. Sono convinti che senza i tanti cambiamenti del Concilio, tutto sarebbe rimasto come in passato. Ovviamente il fatto che la nostra società sia radicalmente cambiata non è conseguenza delle decisioni dei padri conciliari. Non è stato il Concilio a cambiare la situazione. Anzi, è stato convocato proprio perché la situazione era cambiata. A mio avviso il grande merito del Concilio consiste nell’aver aiutato la Chiesa ad accettare questo cambiamento. Quando osserviamo la posizione della Chiesa e la sua mentalità nella seconda metà del diciannovesimo secolo e nella prima metà del secolo scorso, vediamo che la Chiesa era veramente in una strada senza uscita. Non poteva accettare la cultura moderna, la libertà religiosa, il dialogo ecumenico e neanche il dialogo interreligioso. Era una Chiesa che poteva vivere solo nel suo mondo, in un mondo cristiano, incapace di vivere in un mondo che non le apparteneva. Il Concilio ha il grande merito di aver chiarito il rapporto tra mondo e Chiesa: non parla più del mondo e della Chiesa come di due realtà che si oppongono. La Chiesa non coincide con il mondo, ma vive nel mondo, un mondo che è infinitamente più grande della Chiesa. Per far capire la relazione tra Chiesa e mondo, utilizzo nel mio libro il concetto di sacramento. Un sacramento è un segno visibile ed efficace dell’amore di Dio. Questa è precisamente la chiamata della Chiesa: essere segno dell’amore di Dio, non solo per sè stessa, ma per il mondo. Cosi il Concilio ha aperto la porta per capire che possiamo essere Chiesa e cristiani in un mondo che non è più un mondo cristiano. Un mondo secolarizzato non è necessariamente un ostacolo alla sfida e alla missione della Chiesa.
La principale domanda alla quale cerca di rispondere con il suo libro è: “Come essere missionari senza voler ricristianizzare la società?”. Quale risposta si è dato?
C’è una differenza tra evangelizzazione e cristianizzazione della società. Non bisogna ritornare al passato ma capire i segni dei tempi. La nostra missione non può essere confusa con la restaurazione di una civiltà cristiana omogenea. Perderemo ogni credibilità. Perché il nostro scopo sarebbe allora di far scomparire tutte le altre religioni e convinzioni, come abbiamo pensato nel tempo preconciliare. Ma non c’è più un mondo cristiano. Piuttosto c’è la Chiesa che vive in mezzo alle nazioni, testimoniando l’amore di Dio per tutte le nazioni e tutti gli uomini. Ma questo non vuol dire che non dobbiamo annunciare il Vangelo. Come farlo? Ci sono vie che non sono adatte al Vangelo. La fede è la risposta libera dell’uomo alla chiamata di Dio. Non si può imporre. Sono convinto che noi uomini non siamo in grado di dare la fede a un altro. Questa è opera di Dio: è Lui che può aprire il cuore dell’uomo. Noi possiamo soltanto testimoniare. Con le parole ma soprattutto con la nostra maniera di vivere e di mettere in pratica il Vangelo.
In conclusione, lei si augura per il futuro una Chiesa umile, più piccola, più professante e aperta. Riusciremo a costruirla? Ci potrà aiutare anche il prossimo Sinodo?
Sono quattro parole veramente importanti per il futuro della Chiesa. Una Chiesa più umile: nel passato, quando era la religione culturale, aveva anche molto potere e molta influenza. Non è più il caso, ma non è grave, ed è normale. Forse lo viviamo come una crisi o una prova. Ma tutto questo rende la Chiesa più umile, e l’umiltà si trova al cuore del Vangelo. Una Chiesa più piccola, non necessariamente una minoranza: non rappresentiamo più tutti e non occupiamo più tutti gli spazi. E anche una Chiesa più professante, che non ha paura della sua identità e della sua missione. Che testimonia la gioia del Vangelo. Infine una Chiesa aperta, non per adattarsi a tutte le evidenze di una cultura secolarizzata. Ma aperta al mondo e alle sue sfide e sofferenze. Non so se ci riusciremo, dipende dalla nostra risposta alla crisi. Se non siamo pronti a convertirci e a comprendere i segni dei tempi, credo che non saremo in grado di affrontare le sfide. E’ vero che questo non si fa in un giorno. Ma credo anche che il Sinodo può essere di grande aiuto. E il suo tema è proprio la conversione e la riforma della Chiesa. Il Sinodo riprende lo spirito del Concilio. Certo, riforme strutturali sono necessarie, ma si tratta prima di tutto di una conversione dello spirito. Non è per caso che Papa Francesco parla del pericolo del clericalismo. Una Chiesa sinodale significa al suo interno una Chiesa più fraterna, e nel suo rapporto col mondo, una Chiesa più umile. Una Chiesa aperta a quelli che cercano, che accoglie, non che condanna e vive sulla difensiva: e soprattutto che è solidale con gli uomini del nostro tempo, con le loro speranze e gioie e le loro tristezze e angosce.
La presentazione del 29 settembre alle 17.30
Il libro “Cristiani in un mondo che non lo è +. La fede nella società moderna”, della Libreria Editrice Vaticana, viene presentato nel pomeriggio del 29 settembre alle 17.30 a Roma, all’Ambasciata del Belgio presso la Santa Sede, in via Giuseppe de Notaris, 4, alla presenza dell’autore, il cardinale Jozef De Kesel, arcivescovo emerito di Bruxelles-Malines,. Dopo i saluti dell’ambasciatore Patrick Renault e del responsabile editoriale della Lev Lorenzo Fazzini, intervengono l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale all’Università di Perugia, moderati dalla vaticanista del Tg3 Vania De Luca. Si tratta del primo libro tradotto in italiano del cardinale De Kesel, biblista e teologo che ha insegnato a Gand e a Lovanio.