Andrea De Angelis – Città del Vaticano
Una nuova vita. Può essere questa l’espressione per indicare il percorso iniziato da chi ha dovuto affrontare quello che viene definito come viaggio della speranza o della disperazione, come fuga o tentativo di migliorare la propria condizione. Perché la speranza non conosce confini, ma quando la terraferma fa più paura del mare aperto, a prevalere forse è proprio la disperazione. Quando si deve lasciare tutto per ripartire in un luogo sconosciuto, dove si parla una lingua diversa e la rete dei pregiudizi è pronta a raccogliere chi, invece, cerca solo accoglienza. Rinascere, dunque, vuol dire cominciare di nuovo e spesso per le persone migranti e rifugiate ciò è possibile grazie a chi è disposto a tendere la mano. Ad ascoltare ed offrire opportunità.
Una Giornata istituita nel 1914
La Chiesa celebra domenica 26 settembre la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, una ricorrenza che segna l’ultima domenica del mese nel calendario cattolico a partire dal 1914, anno in cui venne istituita. Il titolo del Messaggio del Papa per questa 107.ma Giornata è “Verso un noi sempre più grande”. Nel testo, pubblicato lo scorso mese di maggio, Francesco illustra subito il motivo di questo titolo:
Nella Lettera Enciclica Fratelli tutti ho espresso una preoccupazione e un desiderio, che ancora occupano un posto importante nel mio cuore: «Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”». Per questo ho pensato di dedicare il messaggio per la 107a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato a questo tema: “Verso un noi sempre più grande”, volendo così indicare un chiaro orizzonte per il nostro comune cammino in questo mondo.
Il Papa, nel parlare di una “umanità intera” e non più frammentata, rivolge un forte appello ai cattolici perché realizzino una “comunione nella diversità”, invitandoli a costruire quanto indicato già da San Paolo:
Per i membri della Chiesa Cattolica tale appello si traduce in un impegno ad essere sempre più fedeli al loro essere cattolici, realizzando quanto San Paolo raccomandava alla comunità di Efeso: “Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo”.
No al razzismo
Parlare di persone migranti e rifugiati vuol dire anche affrontare il tema del razzismo. Proprio questa settimana monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, intervenendo all’incontro di alto livello delle Nazioni Unite per commemorare il 20.mo anniversario della Dichiarazione di Durban e del Piano d’azione incentrato su Riparazioni, giustizia razziale e uguaglianza per le persone di origine africana, ha ribadito come il razzismo sia un male da estirpare. “Molte persone di origine africana nel mondo – ha affermato il presule – sono migranti o rifugiati che, dopo aver lasciato la loro casa o essere stati costretti a lasciarla, nei Paesi di destinazione trovano razzismo e xenofobia, discriminazione e intolleranza invece che il sostegno di cui hanno bisogno”. Ribadendo l’impegno della Santa Sede a “combattere ogni forma di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza”, Gallagher ha ricordato che il razzismo “è radicato nell’errata e infausta asserzione che un essere umano ha minore dignità rispetto a un altro”.
Buba Jallow riparte “di corsa”
Classe 1997, guineano. Buba Jallow sa cosa significa correre. Fuggire. Sa anche il significato della parola “salvezza”, perché quando “ero esaurito, non ce la facevo più, ho intrapreso questo viaggio e poi in mare aperto ci hanno salvato i militari”, dice nell’intervista a Radio Vaticana – Vatican News. Ad aiutarlo sono stati gli uomini della Marina italiana, che ha tratto in salvo lui e tanti altri in uno dei numerosi sbarchi non riusciti, ma fortunatamente non finiti in tragedia come troppo spesso accade quando le onde diventano più forti del coraggio. Oggi il ventiquattrenne vive in Italia e fa parte della squadra di Athletica Vaticana, una realtà che testimonia concretamente, sulle strade e in mezzo alla gente, il volto solidale dello sport”, di cui Papa Francesco ha tracciato il profilo definendola “una testimonianza concreta di come dovrebbe essere lo sport: un ponte di pace che unisce donne e uomini di religioni e culture diverse, promuovendo inclusione, amicizia, solidarietà, educazione”. Vivendo la passione sportiva “come un’esperienza di unità e di solidarietà”. Ed è proprio con questo stile solidale e spirituale aperto a tutti, in amicizia, che – con Papa Francesco – Athletica Vaticana invita tutti, ma proprio tutti, “a correre, insieme, la corsa della vita”.
“La traversata è stata difficile, la mia vita di oggi è migliore e mi aiuta a dimenticare la prigionia in Libia, i maltrattamenti che ho subito, i tre mesi in cui ho lavorato per essere rilasciato”, racconta il giovane, sottolineando come “in quelle dodici ore su una barca, la paura era unita al pensiero di non poter tornare indietro”. Cos’è lo sport per Buba? “Un onore, l’ho fatto per me stesso grazie all’opportunità che mi hanno offerto tante persone”. Athletica Vaticana è così “una realtà dove non mi hanno visto come un colore, ma come un fratello e per questo – conclude – ringrazio ogni giorno il Signore”.
Soumaila Diawara “riscrive” la sua storia
Classe 1988, maliano. Soumaila Diawara ha scritto e riscritto le pagine della propria vita spendendosi sempre in prima persona per la collettività. Laureato in Scienze Giuridiche, inizia da giovanissimo il suo impegno politico diventando il responsabile della comunicazione del partito di cui fa parte. Viaggia in ogni continente, ma ancora non sa che il viaggio più duro ed inatteso sarà quello che lo porterà in Italia come rifugiato politico. Nel 2014 parte dalla Libia con un gommone e si salva grazie all’intervento della Marina Militare italiana. Ancora oggi è rifugiato politico ed il suo impegno prosegue nel mondo del giornalismo.
Soumalia, che lavora da anni in Italia come interprete, è infatti redattore di “Black Post”, un progetto editoriale che si propone di mettere in primo piano chi viene denigrato, discriminato e non riesce ad esprimere il proprio punto di vista, con una prospettiva diversa. Proprio per questo la redazione è composta esclusivamente da persone immigrate di prima o seconda generazione, con la collaborazione, di giornalisti, professori e studenti.
“Ho rischiato in primis nel mio Paese e poi nel corso del viaggio, nel carcere in Libia ho vissuto in condizioni disumane e con me c’erano anche donne e bambini”, racconta Diawara nell’intervista a Radio Vaticana – Vatican News. “Io ho avuto la fortuna di sopravvivere alla traversata nel Mediterraneo, ma la maggior parte delle persone che erano con me non ce l’hanno fatta”, ricorda. Quindi i soccorsi, il centro di accoglienza, il poter dire di esserci riuscito. Da lì ha intrapreso nuovi percorsi che lo hanno portato a collaborare alla Lumsa, ad essere un interprete e mediatore culturale, ad entrare in una redazione. Diawara è anche scrittore e poeta. Nelle risposte utilizza le parole “con cura”, non a caso non parla mai di “migranti”, ma sempre di “persone”, proprio come invita a fare Papa Francesco. “Siamo tutti esseri umani, abbiamo tutti delle potenzialità, ma c’è chi denigra e specula su persone che cercano solo di sopravvivere”, afferma sottolineando come “tanti soffrono per questo, perciò chiedo agli altri di guardarci come persone, scavalcando il muro della paura che porta alla conoscenza dell’altro. Perché per l’altro – conclude – siamo sempre l’altro ed il messaggio del Papa è profondamente umano, è molto chiaro. Il suo è un monito contro la disumanizzazione che è già in corso. Io non voglio vivere in un mondo così, chi ha bisogno deve essere aiutato nel momento di difficoltà”.