Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
“Ci siamo guardati negli occhi, e come un padre buono mi ha consolata, dicendomi di stare tranquilla, perché se provo sentimenti negativi e rabbia per quello che è successo a mia sorella Nadia, non mi devo sentire sbagliata, ma accolta”. Vania De Munari è la sorella minore della missionaria laica vicentina dell’Operazione Mato Grosso, morta in Perù il 24 aprile per le ferite alla testa dopo una violenta aggressione nella sua camera a Nuevo Chimbote, dove gestiva sei asili e una scuola elementare per i figli dei poveri migranti scesi dalle Ande sulla costa in cerca di lavoro. Questa mattina, con suo marito, ha incontrato Papa Francesco nel cortile di San Damaso, prima dell’udienza generale.
La preghiera del “Perchè” è umanissima e sale a Dio
“Ha detto che la rabbia e anche qualche parola un po’ forte rivolta a Dio – racconta a VaticanNews – sono comunque una preghiera”, il sentimento molto umano di chi chiede “Perché” alcune vite devono essere spezzate in un modo anche così tragico, così doloroso. “Anche questa – mi ha detto – è comunque una preghiera che sale a Dio”. Ma ha capito, prosegue Vania, 49 anni (due in meno di Nadia) che a Schio è collaboratrice scolastica e che ha un’altra sorella, Sonia, di 53 anni, “che nei nostri cuori, oltre al desiderio di essere consolati e benedetti da lui, c’è anche il desiderio di verità e di giustizia”.
Per la polizia l’assassino viveva con Nadia
Infatti Vania ha chiesto a Francesco aiuto per spezzare “il muro di omertà che circonda questo delitto”, perché gli ultimi rilievi della polizia peruviana sembrano provare “che è proprio nato all’interno dell’ambiente ristretto in cui viveva mia sorella in Nuevo Chimbote, nella casa ‘Mamma mia’. Difficilmente è stato qualcosa che è arrivato da fuori”.
“Fai qualcosa per chi ha meno, e ti avvicinerai a Dio”
A VaticanNews la sorella minore della volontaria che ha speso la sua vita per i bambini più poveri del Perù parla però anche del messaggio che con il suo impegno, più che con le parole, Nadia trasmetteva a tutti: fai quello che puoi, ma fai qualcosa per gli altri, per chi ha meno, e questo ti avvicinerà a Dio, e farà della tua vita “una vita buona”. Ecco come racconta il suo incontro con Papa Francesco:
E’ stato un incontro molto personale: gli ho dato la mano, ci siamo guardati negli occhi e mi ha consolato… ha consolato me e mio marito per quello che è accaduto a mia sorella. Ha capito che nei nostri cuori, oltre al desiderio di essere consolati e benedetti da lui, c’era anche il desiderio di verità e di giustizia. Ha detto che la rabbia o anche qualche parola in più è comunque una preghiera, nel senso che un sentimento umano, il chiedere perché alcune vite devono essere spezzate in questo modo anche così tragico, così doloroso, è comunque una preghiera che sale a Dio.
E lei cosa ha detto al Papa?
Ho chiesto che il muro di omertà che circonda un po’ questo delitto vengo spezzato. Ho chiesto al Papa che faccia qualcosa per questo, perché gli ultimi rilievi sembrano dire che è proprio nato all’interno dell’ambiente ristretto in cui viveva mia sorella in Nuevo Chimbote, nella casa “Mamma mia”. Difficilmente è stato qualcosa che è arrivato da fuori. Però non ci sono purtroppo rilevanze scientifiche che inchiodano qualcuno e non ci sono confessioni, allo stato attuale, nonostante le persone che circondavano Nadia fossero persone semplici, maestre, tirocinanti, ragazze conosciute più o meno dalle parrocchie, dai volontari italiani che sono là, mandate dalle parrocchie, da altri volontari italiani della zona e sicuramente non sconosciute. Eppure né dai volontari italiani né da queste ragazze sta uscendo nulla di utile per capire cosa è successo a Nadia e questo mi fa male.
Lei ha sentito così la vicinanza paterna del Papa?
Sicuramente sì, come un papà buono che ti dice: “Stai tranquilla, anche se provi dei sentimenti negativi per quello che è successo a tua sorella, non ti devi sentire sbagliata, ma devi sentirti accolta”, perché sono comunque cose ingiustificabili. Mia sorella è stata massacrata, praticamente, e ingiustamente, dopo tanti anni in cui ha dato tutta sé stessa per gli altri, attenta sempre agli altri più che a se stessa, dedicando la sua vita agli altri. Credendo veramente che la strada della bontà e della carità fosse l’unica che avvicina veramente a Dio. Questo era un messaggio che tentava di passare a tutti, anche a noi familiari, e a tutti gli amici che incontrava, ai giovani dell’operazione Mato Grosso, anche se non li conosceva, quando veniva in Italia. Cercava di passargli questo messaggio: anche poco, ma fare qualcosa per gli altri, per chi ha meno e questo ci avvicina a Dio, è comunque una cosa che fa bene a noi, prima di tutto. Anche a me chiedeva spesso aiuto e disponibilità, a mio padre pure. Io facevo delle letture ad alta voce che lei utilizzava poi magari, tradotte in spagnolo, per la didattica a distanza con i bambini. Insomma cercava di coinvolgere tutte le persone che conosceva, che amava, per portarle su questa strada, la strada della carità, ognuno con le proprie possibilità, ognuno dal proprio posto, ognuno con la propria vita, le proprie capacità. So che chiedeva questo anche alle ragazze che aveva in casa, anche alle persone che incontrava là in Perù. “C’è sempre qualcuno di più povero a cui puoi dare un sorriso – diceva – puoi dare un aiuto, puoi dare una mano. Anche se non hai niente, qualcosa puoi sempre donare: una preghiera una parola, una vicinanza, un gesto di affetto, un abbraccio”, anche se adesso sono vietati ed erano vietati anche là. Sono tante le cose che possiamo dare e che a volte dimentichiamo: anche le cose più semplici, ma che sono le più vere.
Ma secondo lei chi poteva avere qualcosa contro una volontaria che dava tutta sé stessa per i bambini e per gli ultimi del Perù?
Per essere così brutale, come attacco, direttamente solo a lei e alla testa. È stato un desiderio di ucciderla brutalmente. Probabilmente l’assassino, o l’assassina o gli assassini o le assassine, hanno pensato di averla lasciata morta. Poi in realtà mia sorella è sopravvissuta ed era pure cosciente, una volta che le hanno dato le trasfusioni, ma non riusciva più a verbalizzare per via dei danni cerebrali importanti, dovuti alle ferite. però era cosciente, perché riusciva ad annuire alle domande. Cosa può essere stato? Non lo sappiamo… può essere stata un’invidia, una gelosia, una cattiveria sicuramente grande per fare un gesto simile, un odio che non può essere maturato dall’oggi al domani, ma sicuramente è nato nel tempo. Probabilmente nato lì, nella vita stretta di ogni giorno, nella vita di casa-famiglia, una vita scandita da tanti orari, tante cose da fare assieme. E’ nato li, sembra essere così, la strada porta lì, soprattutto perché l’arma del delitto è stata trovata lì, con tracce del sangue di mia sorella, in una stanza di quella casa. Difficilmente veniva da fuori.
Lei ha parlato di come cercava di coinvolgervi nella sua missione. Io ho parlato anche col suo confessore e mi ha detto che la fede di Nadia era una fede in ricerca, ma sufficiente per spingerla a dare tutto sé stessa per i bambini e per gli ultimi del Perù…
Sì, perché in realtà l’umanità che abbiamo non ci dà mai una certezza in Dio e anche sentirlo dal Papa questa cosa, che è normale essere anche insicuri, vuol dire sentirsi veramente abbracciati e dire: “Vabbè, è giusto scommettere la vita anche per qualcosa di cui non sei veramente certo”. In questo mia sorella lottava, anche con se stessa, con le sue insicurezze, per dire: “Io cerco, perché so che questa è la strada per avere una vita buona”. Anche a me, che non ho fatto le sue scelte, anche se mi aveva portato da giovane a conoscere l’Omg, e ho conosciuto anche altre realtà. diceva che “è importante fare una vita buona”. Con uno sguardo aperto a Cristo e agli altri, non chiudersi in se stessi. E’ quello che lei cercava di fare quotidianamente, in tutte le cose pratiche: dalla gestione di questi asili, alla gestione delle maestre, all’ occuparsi anche della vita dei bambini e delle famiglie. Mi hanno detto i volontari che lei ha introdotto questa cosa: ogni venerdì, prima della pandemia, andavano proprio s conoscere le famiglie dei bambini che accoglievano negli asili e si preoccupavano della loro realtà dei loro bisogni anche concreti. Per esempio, mi ha mandato un messaggio di una mamma che chiedeva aiuto perché aveva bisogno di scarpe ortopediche per il bambino e il marito aveva perso il lavoro a causa del lockdown. Realtà anche molto pratiche: cure per questi bambini e i loro fratellini, bisogno di lavoro per questi padri e madri che avevano perso il lavoro o semplicemente di una baby-sitter che tenesse i bambini mentre la mamma usciva per qualche ora a lavorare. Poi parliamo di baracche, non di case veramente, dove vivevano questi bambini, quindi anche durante il lockdown. E mia sorella era preoccupatissima per questi bambini chiusi in baracche, dove non ci sono delle vere pareti che dividono una baracca dall’altra e dove vedono e ascoltano anche le violenze, le cose negative degli adulti. Hanno poca speranza, se non questi, asili puliti e belli che avevano costruito lì, dove trovavano un pasto sicuro, perché c’era una grande mensa che procurava pasti per tutti, trovavano un ambiente bello, pulito e anche vivevano in serenità, in uno spazio che non fosse la sabbia. Perché quando è arrivata mia sorella, all’inizio, non c’erano ancora gli asili, e facevano lezione nella sabbia. Costruivano con quattro stuoie un asilo così precario. Prima ancora che venissero costruiti, hanno iniziato le attività con i bambini, perché questi erano abbandonati, per lo più, perché i genitori dovevano comunque andare a lavorare. E adesso erano stati riaperti soltanto come forma di attività ricreativa e sportiva, perché le scuole per il lockdown sono ancora chiuse dal ministero, in Perù.