di Gaetano Vallini
L’Italia ha vinto il campionato europeo di calcio battendo ieri in finale l’Inghilterra. E si può dire che il trofeo è andato alla squadra che più lo ha meritato, battendo i leoni inglesi nel mitico stadio londinese di Wembley, il “tempio del calcio”, sotto lo sguardo attonito dei tifosi di casa. Una vittoria in “trasferta” analoga a quella dell’Argentina in Coppa America, 28 anni dopo l’ultimo trofeo, che ha sconfitto in finale il Brasile nell’altrettanto leggendario Maracanà di Rio de Janeiro, in barba al cosiddetto “fattore campo”.
L’affermazione degli azzurri — attesa persino più a lungo, ben 53 anni — arriva da lontano, dalla delusione della mancata qualificazione ai mondiali 2018, ed è la parabola perfetta di cosa vuol dire fare ed essere squadra. Perché il calcio è sport di squadra e quella di ieri sera è stata indubbiamente la vittoria di un gruppo unito, che ha saputo crescere, lottare e divertirsi vincendo, sotto la guida del commissario tecnico, Roberto Mancini. Suo il grande merito di aver raccolto i cocci della inattesa disfatta mondiale, assemblando con pazienza una squadra che ha finito per infrangere record significativi. La sua positività, il suo puntare sulla forza del gruppo anche in assenza di veri fuoriclasse, infondendo nei singoli, perlopiù giovani, la mentalità giusta, facendoli sentire tutti titolari, alla fine ha ripagato.
Il gruppo, dunque, l’affiatamento, l’amicizia e la complicità che si intuivano osservando i calciatori negli allenamenti, nei momenti di svago, nelle dichiarazioni sempre leggere ma convinte, e soprattutto nelle partite, hanno fatto la differenza. Basta ricordare, per contro, le parole grosse volate nell’entourage francese dopo la prematura eliminazione dei favoritissimi “bleus”, campioni del mondo in carica, una squadra zeppa di fuoriclasse, ma con scarso affiatamento.
Dispiace però aver dovuto constatare la mancanza di fairplay dei calciatori inglesi, che si sono tolti dal collo la medaglia dei secondi subito dopo la premiazione; per non parlare del pubblico che in maggioranza ha lasciato gli spalti prima della stessa, peraltro dopo aver fischiato all’inizio l’inno nazionale italiano, e delle botte ai tifosi azzurri attesi all’uscita dello stadio.
Perdere fa male, soprattutto perdere davanti al proprio pubblico. Ma accettare la sconfitta è segno di maturità oltre che di sportività. Una lezione di stile in questo senso è venuta dal ct della Spagna, Luis Enrique, un uomo che ha dovuto affrontare la più terribile delle prove, con la morte della figlioletta. Dopo aver perso proprio con l’Italia — ai rigori, al termine di una semifinale a lunghi tratti dominata — non solo ha elogiato gli avversari, riconoscendone il valore ben oltre i loro meriti sul campo, ma ha anche detto che in finale avrebbe tifato per loro. E ai suoi ragazzi, in lacrime, ha ricordato che «la sconfitta fa parte dello sport, del calcio, della vita. Bisogna imparare a gestirla. E devi essere di esempio per i bambini piccoli: quando perdi non devi piangere ma rialzarti». Chapeau!