Il prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale commenta la Nota congiunta sulla “Doctrine of Discovery”, pubblicata oggi: “Non è una curiosità storica, ma il riconoscimento che questi atteggiamenti, questi passi sfortunati del passato continuano ad avere un effetto ancora oggi”
Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Una “Nota formale”, frutto di un processo non facile nell’ambito del dialogo e dell’ascolto richiesti dal Papa, che non vuole rinnegare i “passi sfortunati” del passato ma riconoscerli e inquadrarli nel loro contesto storico e anche negli effetti oggi. Così il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, sintetizza il Joint Statement sulla “Doctrine of Discovery” pubblicato oggi: “La Santa Sede, i vescovi canadesi e americani vogliono davvero che questa Nota, che si rammarica di quanto accaduto, aiuti la guarigione e la riconciliazione con i popoli indigeni”, afferma Czerny a colloquio con i media vaticani.
Eminenza, perché la Santa Sede ha deciso di pubblicare questa Nota congiunta sulla “Dottrina della scoperta”?
Il primo punto, quello fondamentale, è che i popoli indigeni l’hanno chiesto… Hanno chiesto di ripudiare la cosiddetta “Dottrina della Scoperta”. La Nota denuncia e respinge questa idea della Scoperta e spiega come le Bolle o i Decreti del 1400 non esprimano in alcun modo la fede, dottrina o magistero della Chiesa, la quale rifiuta ogni parola o azione che non riconosce la dignità umana. Importante riconoscere che la richiesta è stata ed è di una chiarificazione formale e perciò la Nota ha un tono formale. Se uno vuole ascoltare la parola della Chiesa in tono pastorale, non bisogna cercarlo nella Nota ma bisogna ascoltare le omelie e i discorsi di San Giovanni Paolo II (1984) e di Papa Francesco (2022) quando hanno visitato il Canada. Il messaggio è lo stesso, ma il registro è diverso. Ad esempio, nel luglio 2015, in Bolivia – io ero lì, grazie a Dio – Papa Francesco, ripetendo Giovanni Paolo II, ha chiesto alla Chiesa di “inginocchiarsi davanti a Dio e implorare il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli e delle sue figlie”. I molti gravi peccati commessi contro i popoli indigeni dell’America in nome di Dio durante la cosiddetta conquista.
Che significato e che portata avevano le tre Bolle papali del Quattrocento, con le quali il Papa concedeva ai colonizzatori di appropriarsi di terre e di beni degli indigeni? Perché questi documenti sono considerati da alcuni studiosi come la base della “Dottrina della scoperta”?
Prima di tutto, dobbiamo pensare che una Bolla è una decisione o un decreto con un sigillo, ma non è magistero, non è dottrina, non è insegnamento. È un qualcosa di puntuale che un Papa fa come capo di Stato in rapporto con altri capi di Stato. Verso la fine del Quattrocento, il Papa ha voluto mettere ordine ed evitare la guerra tra la Corona spagnola e la Corona portoghese nel loro affanno di colonizzare il cosiddetto Nuovo Mondo. Non si trattava tanto di aprire una nuova strada, ma di controllare ciò che accadeva e ciò che era inevitabile. Il Papa ha utilizzato i suoi strumenti nello sforzo di mettere ordine. Nel farlo ha usato un linguaggio ed espressioni che per noi oggi sono totalmente inaccettabili, ma all’epoca era il modo in cui la gente parlava. Il Papa voleva mantenere la pace.
Questa storia la riconosciamo come triste, ma bisogna anche sottolineare che ciò che ci spinge più di una chiarificazione storica, è riconoscere e affrontare la realtà di oggi. In altre parole, non è sufficiente rifiutare questa triste storia, ma bisogna riconoscere, proteggere e promuovere la dignità di ogni persona umana, e quindi i diritti dei popoli indigeni. Con il pieno sostegno del Santo Padre e del Vaticano, le Chiese in Canada e negli Stati Uniti vogliono riconciliarsi con le popolazioni indigene e contribuire a facilitare il loro sviluppo nel massimo rispetto della loro identità, lingua, cultura e tradizioni.
Le Bolle papali parlano di dominazione, asservimento, sottrazione di terre e schiavitù. Come si fa ad andare avanti con un’eredità del genere? La risposta attuale, secondo lei, è adeguata?
Quando abbiamo una eredità di linguaggio di dominazione, asservimento, sottrazione di terre e schiavitù, la prima cosa da fare è dire: sì, questo è stato detto. Non nasconderlo e non negarlo. La seconda cosa – che è il lavoro prezioso degli storici – è inquadrare queste espressioni nel loro contesto. Se prendi queste parole e vedi come in quell’epoca in altri documenti e decreti della Chiesa si parlava di donne, bambini, ebrei o musulmani, purtroppo dici: ma questo vocabolario era dappertutto! Una serie di concetti antropologici totalmente inaccettabili oggi, alla luce del Vangelo. Ma così era… Niente da fare, se non riconoscere tutto questo. Facciamo tutto ciò non per curiosità storica, ma per riconoscere che questi atteggiamenti, questi passi sfortunati continuano ad avere un loro effetto oggi. Tutte le persone coinvolte – la generazione odierna di indigeni e quella odierna di abitanti altri – devono riconoscere ciò che è stato detto e perché, e poi vedere come si sono sviluppate le cose; forse la cosa più importante è riconoscere gli effetti della colonizzazione ancora oggi, e fare causa comune per superarli il prima possibile: rispettare l’identità, la lingua, le culture e i diritti delle popolazioni indigene, dice la Nota congiunta, e lavorare insieme per migliorare le condizioni di vita e promuovere lo sviluppo. Non c’è un singolo passo che possa eliminare l’eredità del colonialismo, e questo include le bolle papali associate alla Dottrina della Scoperta. I vescovi canadesi, i cattolici, i credenti e i cittadini devono lavorare ogni giorno, non solo per condannare le false idee che hanno infettato troppi atteggiamenti in Canada, ma anche per camminare in modo solidale con l’obiettivo della guarigione e della riconciliazione. Dobbiamo pertanto mostrarci aperti ad affrontare e ascoltare in modo da poter camminare insieme verso una risposta. Questo è il frutto più prezioso di un processo che non è stato facile: arrivare a una Nota formale che entra in un dialogo importantissimo con l’atteggiamento dell’ascolto.
Da quando la Chiesa cattolica ha affermato gli inviolabili diritti degli indigeni?
È una domanda complessa perché l’evoluzione del vocabolario e dell’insegnamento è stata lenta e diffusa. Una risposta particolare è arrivata nel 1537, quando Papa Paolo III scrisse la Bolla Sublimis Deus del 1537, in cui affermava: “Definiamo e dichiariamo che i cosiddetti indiani e tutti gli altri popoli non siano in alcun modo privati della loro libertà o del possesso dei loro beni”. Questo contraddice totalmente quanto detto cinquant’anni prima e ci indica la fluidità della storia. Importante lo sforzo della Nota pubblicata oggi e tutti gli sforzi scientifici di chiarire questa storia e di spiegare ogni dichiarazione nel suo contesto e – questa è la parte più esistenziale – nel suo effetto e impatto per oggi.
In che modo il viaggio di Papa Francesco in Canada, nel luglio 2022, ha influito su questi argomenti?
Il viaggio di Papa Francesco in Canada che ho avuto l’onore di partecipare, ha messo le domande di cui parla la Nota nell’ordine del giorno. Il Papa ha detto di fatto: siamo pronti e vogliamo confrontarci, vogliamo accettare e superare tutti i peccati del passato. Questo è più coraggioso di dire soltanto ‘facciamo un chiarimento storico’. È riconoscere che questo vocabolario di dominazione continua ad avere il suo effetto oggi. È la realtà… La seconda cosa è che il Santo Padre ci ha mostrato il modo in cui affrontare le questioni spinose del passato: ascoltando. Non cominciamo dai discorsi ma dall’ascolto. La Nota di oggi si trova nel contesto di ascolto e dialogo. Viene pubblicata perché popoli indigeni del Canada l’hanno chiesta. Non tutti, ma c’era un appello di vari anni perché ci fosse una chiarificazione formale sulla questione.