Gabriella Ceraso – Città del Vaticano
La comprensione profonda della riforma del Concilio Vaticano II e l’unità della Chiesa. Sono questi i due cardini alla base del motu proprio Traditionis custodes, sull’uso della liturgia romana anteriore al 1970, che il Papa ha pubblicato nel luglio scorso. Per una appropriata comprensione a livello diocesano occorre un accompagnamento da parte dei pastori e la preghiera di tutti con le parole che Gesù stesso ha pronunciato: ”Padre che tutti siano uno”.
La riflessione – apparsa sul blog Pray Tell – è del cardinale arcivescovo di Chicago Blase Cupich in risposta alla domanda rivoltagli di un gruppo di sacerdoti durante un incontro. Il porporato ripercorre il documento papale che stabilisce – lo ricordiamo – che “I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano e che la responsabilità di regolare la celebrazione secondo il rito preconciliare torni al vescovo, moderatore della vita liturgica diocesana. “E’ sua esclusiva competenza – stabilisce il motu proprio – autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica”.
Non ci sono due forme del Rito romano
Si tratta, riflette Cupich, “di ristabilire in tutta la Chiesa di rito romano un’unica e identica preghiera che esprima la sua unità, secondo i libri liturgici promulgati dai santi Papi” e in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II. In altre parole, non ci sono due forme del Rito Romano, perché la parola “riforma” significa lasciare “un modo precedente di celebrare i sacramenti” e adottarne uno nuovo. Così è stato – afferma – per altri documenti riformatori come il Codice di Diritto Canonico del 1917 e il Catechismo della Chiesa cattolica del 1993, alla luce dei quali “nessuno – osserva Cupich – penserebbe di sostenere che le forme precedenti possano essere ancora utilizzate, semplicemente perché la parola riforma significa qualcosa. E così, deve significare qualcosa anche per quanto riguarda la riforma liturgica”.
Unità, continuità, ruolo del vescovo
Da questa base di partenza sono tre, secondo il cardinale, i principi guida importanti per ricevere e attuare il motu proprio.
Il primo è l’unità della Chiesa. Tempo fa, ricorda il cardinale Cupich, l’arcivescovo Augustine Di Noia, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva affermato in una intervista che la speranza di Giovanni Paolo e Benedetto nell’ampliare la possibilità di usare la Messa pre-Vaticano II era stata quella di promuovere l’unità nella Chiesa e di contrastare gli abusi che si erano diffusi nella celebrazione della Messa post-Vaticano II. Una aspirazione che al cuore aveva il desiderio di sanare la spaccatura con i membri della Società di San Pio X, fondata da monsignor Lefebvre. Viceversa, osserva il cadinale Cupich, nel tempo si è generato nella Chiesa un movimento che mina le riforme del Concilio Vaticano II attraverso il rifiuto della più importante, ovvero la riforma del Rito Romano.
Secondo principio guida che il Papa affronta nel motu proprio è appunto il “solido e inequivocabile riconoscimento” da parte dei cattolici che il Concilio Vaticano II e le sue riforme sono in continuità con la tradizione della Chiesa oltre a essere un’”autentica azione dello Spirito Santo”. Da qui che i libri liturgici promulgati dai Papi Santi sono “l’unica espressione della lex orandi del Rito romano”.
Infine il ruolo del vescovo terzo, principio guida del documento papale, che restituisce al presule il ruolo di “moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella sua diocesi” con la “competenza per la regolamentazione dell’uso come concessione eccezionale della vecchia liturgia”. Anche qui la sottolineatura del Papa – nota Cupich – va nella direzione di promuovere una forma celebrativa unitaria.
Un accompagnamento mirato
Al momento di spiegare come realizzare pastoralmente gli obiettivi del motu proprio, il cardinale Cupich mette in primo piano l’accompagnamento da parte dei pastori, mirato “a comprendere il legame tra il modo in cui pratichiamo il culto e ciò in cui crediamo, tenendo presente il desiderio del Papa che i pastori conducano i fedeli all’uso esclusivo dei libri liturgici riformati”. Esso – spiega – “deve anche comportare l’aiutare le persone ad apprezzare come la Messa riformata li introduca a un maggiore uso delle Scritture e delle preghiere della tradizione romana, e può anche significare includere creativamente nella Messa riformata dal Concilio elementi della forma precedente, per esempio gesti, uso del canto gregoriano e periodi di silenzio nella liturgia.
Credo – conclude il cardinale Cupich – che possiamo usare questa opportunità per aiutare tutto il nostro popolo a comprendere meglio il grande dono che il Concilio ci ha fatto nel riformare il nostro modo di adorare. Da qui l’impegno personale rinnovato a promuovere un ritorno a una forma celebrativa unitaria in accordo con le direttive del motu proprio e l’invito collettivo a tutti a “pregare, come fece Gesù la notte prima di morire, affinché tutti siano uno”.