Mentre cittadini si recano al Palamilone, luogo della camera ardente, a portare fiori e sostare in silenzio e, oggi pomeriggio, parteciperanno alla Via Crucis sulla spiaggia, nella città sono giunti i parenti per il riconoscimento delle salme. Sono principalmente afghani, tra loro ci sono Abdul, Nebi e Assani che ha dovuto riconoscere il cugino di 16 anni: “Voleva solo vivere. Non ho voluto vedere la bara: è un cancro che corrode dentro”
Salvatore Cernuzio – Inviato a Crotone
Il dolore del Papa, quasi trasformato in lacrime dalla finestra del Palazzo Apostolico al termine dell’Angelus, per il naufragio del 26 febbraio sulle coste di Steccato di Cutro è giunto fino a Crotone, città a pochi chilometri dal luogo della tragedia, dove soprattutto la gente comune sta dando prova di grande umanità, empatia e accoglienza.
Lo si vede da giorni nel continuo via vai dal Palamilone, il palazzetto dello sport dove il primo marzo scorso è stata aperta la camera ardente per le 66 bare lì allineate, tra cui quelle bianche dei bambini, anche neonati. Nessuno passa fuori dal cancello verde del palasport, dove sono affissi da giorni cartelli, striscioni, peluche, senza farsi prima il segno della croce. C’è chi ferma la macchina per farlo e soffermarsi per qualche istante in silenzio. Fino a tarda sera, ieri, non si è interrotto il flusso di cittadini venuti a portare un mazzo di fiori o un lumino rosso in ricordo di queste vite spezzate. “Nessun uomo sarà mai un oggetto”, recita un cartello bianco. Tanti alunni delle scuole crotonesi arrivano con i loro insegnanti o con i genitori a vedere con i propri occhi questo dramma che ha coinvolto e sconvolto la città. “È importante che sappiano, che capiscano e che così riflettano per il futuro”, dice Antonella, docente.
Lavoro senza sosta al Palamilone
L’accesso al Palamilone è stato chiuso al pubblico. All’interno da tre giorni, insieme a volontari della Croce Rossa e della Protezione civile, ci sono i parenti delle vittime che giungono scaglionati per i riconoscimenti. La maggior parte sono afghani, già emigrati anni fa in Germania, Francia, Svezia o addirittura Stati Uniti e Australia. Oppure nel nord Italia dove studiano e hanno trovato un lavoro. “Saranno venuti 40-50 familiari in questi giorni”, spiega una giovane crocerossina in divisa, “e qualcuno deve arrivare”. In mano ha caffè e buste di cornetti per familiari, volontari, poliziotti.
I riconoscimenti
Nessuno dei parenti – ospitati in due alberghi di Crotone – ha visto i corpi: tutto avviene tramite le fotografie mostrate dalla Polizia Scientifica. Una donna anziana con il velo, questa mattina, è stata la prima a entrare. Uscendo è scoppiata in lacrime ed ha abbracciato una volontaria del gruppo di varie associazioni della comunità afgana hazara a Roma. Si sono precipitati a Crotone nei giorni scorsi e stanno svolgendo un lavoro ininterrotto: “Lavoro di tutti i tipi: interpreti, assistenza, sostegno anche spirituale e psicologico”, racconta Dawood. Ieri sera erano sulla spiaggia di Steccato di Cutro, dove oggi pomeriggio alle 15 si svolgerà una Via Crucis organizzata dall’Arcidiocesi di Crotone – Santa Severina. Si pregherà dietro alla croce realizzata con i resti dipinti di blu e di rosso del barcone sfracellatosi su una secca.
La voce dei familiari
Tra donne e uomini, giovani e anziani, c’è Abdul, fuggito nel 2005 da un villaggio a 30 km da Kabul. Prima ha fatto tappa in Italia, poi è andato in Germania. Ha un giubbotto giallo leggero che non lo ripara dal freddo. È atterrato all’aeroporto di Lamezia Terme e si dice “stanchissimo”. Ha riconosciuto una sorella, il cognato e due nipoti. Tutti morti. Un altro nipote “è vivo”, altri quattro ancora dispersi. Lui, prova a spiegare in italiano stentato, dice di temere che sono tra i naufraghi rimasti schiacciati sotto il peso del motore del barcone.
Muslim, 16 anni, che voleva ricominciare a vivere
Sulle scale, a inviare un messaggio vocale leggendo il foglio rilasciato dalla Questura, c’è Assani, 30 anni circa: “No foto, no video”, chiede. Dice che per raccontare la sua storia e quella della sua famiglia ci vorrebbe “un giorno intero”. “Siamo afghani e gli afghani muoiono da tutte le parti, a cominciare dal nostro Paese. Non abbiamo un posto sicuro né in mare, né in terra”. Venuto da Tivoli, questa mattina ha dovuto riconoscere il cugino di 16 anni, Muslim. I genitori del ragazzo sono in Iran con un permesso temporaneo come rifugiati. Muslim non ha potuto raggiungerli e la mamma e il papà lo hanno sconsigliato. “Studiava prima, non ne poteva più di vivere in quel modo”. L’Italia non era la sua meta, era aperto a qualsiasi possibilità: “Voleva ricominciare la vita in qualsiasi posto”, dice il cugino. È finito in fondo al mare insieme ad altri suoi coetanei. Assani non ha voluto neanche vedere la sua bara bianca, seppure fosse a pochi metri. “Inutile vedere quel pezzo di legno, è come un cancro che ti consuma”, afferma.
A fianco c’è Nebi: non parla italiano e mostra la foto sullo smartphone di sua zia, 38 anni, afghana anche lei. Il marito e la figlia sono ancora dispersi. Perché sono voluti partire? “Just to live”, risponde secco il ragazzo. “Solo per vivere”.
L’appello dell’Ucoii
La questione che preme tutti al momento è il rimpatrio delle salme. Per coloro che non avranno questa possibilità è giunto ieri l’appello di Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia): “Faccio un appello ai sindaci delle città che dispongono di un cimitero islamico di dare la propria disponibilità ad accogliere le salme delle vittime del naufragio, che sono per lo più musulmani. Abbiamo il dovere di dare una degna sepoltura e un nome a queste vittime della nostra indifferenza. Se ci siamo dimenticati di loro da vivi allora non dimentichiamoci di loro da morti”.