Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
“Al Papa porto una Chiesa croata provata” da due terremoti in meno di un anno e “dai danni economici che la pandemia ha portato al turismo, la sua risorsa principale, ma viva”, e gli dirò che “la sua visita in Iraq sarà una benedizione”, e il suo incontro con il Grande Ayatollah Al Sistani “incrementerà il dialogo e metterà in pratica il messaggio della Fratelli tutti”. L’arcivescovo Giorgio Lingua, che viene ricevuto questa mattina da Papa Francesco, è nunzio apostolico in Croazia dal luglio 2019, ma dal 2010 al 2015 è stato rappresentante pontificio in Iraq e Giordania, e successivamente a Cuba.
Il beato Stepinac, “un vescovo con l’odore delle pecore”
Sessant’anni, piemontese di Fossano, in provincia di Cuneo, monsignor Lingua a Vatican News parla anche del dramma dei migranti della “rotta balcanica”, convinto che sia tempo non “di cercare colpevoli”, ma di “trovare soluzioni” e prendere decisioni, nelle quali “è meglio sbagliare per eccesso di generosità che per eccesso di rigidità”. Dell’amore dei croati per il beato cardinal Stepinac “un vescovo che veramente aveva l’odore delle pecore” e della forza della fede dei cristiani iracheni, nonostante tutto. Ricorda con gioia la partecipazione di più di 500 giovani cubani alla Gmg di Panama del 2019, e parla così del Paese balcanico nel quale rappresenta il Papa da meno di due anni:
R. – Porto al Papa una Croazia viva e provata. Provata dalle tragedie che sono stati i due terremoti, uno con epicentro vicino a Zagabria del 5.2 della scala Richter, l’altro a Petrinja, nella diocesi di Sisak, con una forza di 6.4, arrivati nel momento peggiore dell’epidemia. Il primo terremoto a Zagabria è proprio avvenuto nella prima domenica di lockdown, mentre quello di Petrinja è arrivato nel secondo lockdown della seconda grande ondata. Queste due tragedie si sono sommate ai danni arrecati anche economicamente dalla pandemia del coronavirus, che ha avuto un impatto enorme sulla risorsa principale del Paese che è il turismo. Porto al Papa un popolo fiero, attaccato alle sue radici e al tempo stesso anche un popolo che guarda al futuro, che guarda all’Europa. Qualcuno con un po’ di scetticismo, altri con maggiore speranza e ottimismo, ma tutto sommato porto una Chiesa ben organizzata che ha ovviamente, come dappertutto, alcuni problemi che non si possono negare, però nel suo insieme è una Chiesa viva. Penso a qualche frangia forse un po’ clericale. Ma quello che caratterizza questa Chiesa è la devozione alla Madonna e il grande attaccamento al Santo Padre e alla Chiesa di Roma. Forse per questo mi sono sentito molto bene accolto: ovunque vado, incontro gente che esprime calorosamente il suo affetto per il rappresentante del Papa e quindi per il Santo Padre.
In questa difficile situazione si è aggiunta anche l’emergenza dei migranti della “rotta balcanica”, molti dei quali sono minori senza genitori. Come si può rispondere all’appello di Papa Francesco per la cura umanitaria di queste persone?
R. – La situazione è molto difficile e complicata. Senza dubbio è davanti agli occhi di tutti una crisi umanitaria che non si può ignorare, che si vede. Ragazzi, giovani e adulti, anche in alcuni casi dei bambini, che sono costretti ad affrontare un inverno duro in condizioni deplorevoli. Penso però che non sia il momento di cercare responsabili e colpevoli del perché sono lì e perché sono in quelle condizioni, ma è importante mettersi insieme per trovare delle soluzioni. Il conflitto che si è creato, in alcuni casi, fra i governi e le ong, non mi pare che sia salutare, anzi non fa bene a nessuno, e soprattutto danneggia coloro che si vorrebbero aiutare. Io personalmente penso che quando si tratta di prendere delle decisioni sia meglio sbagliare per eccesso di generosità che per eccesso di rigidità. Anche perché c’è il rischio di avvelenare il cuore di chi è partito, che ha lasciato il suo Paese, magari un po’ ingenuamente, ma anche con tanta speranza, e alimentare la disperazione. Perché vengono delusi doppiamente: dai loro Paesi e da coloro che pensavano li accogliessero. Bisogna tenere presente che non ci sono migranti né economici né per guerre che lasciano il loro Paese di buon grado. Se non c’è un minimo di speranza in un futuro migliore, la delusione può avere conseguenze negative molto gravi.
Quali sono le aspettative della comunità cristiana croata riguardo alla possibile canonizzazione del beato cardinale Stepinac?
R. – Questa è una domanda che mi fanno ovunque vado, e sempre con maggiore insistenza. Io sono rimasto molto colpito, devo dire, dalla figura di questo beato che i croati considerano come un padre e quindi capisco anche la loro impazienza nel vederlo agli onori degli altari. La settimana scorsa ho celebrato la Messa nella sua parrocchia natale e ho detto una cosa che mi sono reso conto è piaciuta molto, ma sono convinto che sia così. Ho detto che ho girato in tante parti del mondo, in quasi 30 anni di servizio diplomatico, e raramente ho trovato tanto affetto e ammirazione di un popolo per un santo, come il popolo croato per il beato Stepinac. E mi sembra che questo sia giustificabile, anche perché vedo in Stepinac il profilo del vescovo così come lo delinea Papa Francesco. Più lo conosco e più lo apprezzo. E’ un vescovo che veramente aveva l’odore delle pecore, che era vicino al suo popolo, che vedeva la Chiesa come un ospedale da campo e quindi si rimboccava le maniche per fare quello che poteva, per accogliere i poveri, i profughi. Eravamo al tempo della seconda guerra mondiale. Quante opere sociali e quante chiese ha iniziato! Dovunque vado trovo qualcuno che mi dice: “Ecco questo l’ha voluto Stepinac, questo l’ha fatto lui, questo l’ha progettato ma non è riuscito a realizzarlo”, oppure “noi siamo venuti qui perché era lui che ci ha voluti”. Io poi vedo che uno dei compiti principali del nunzio è quello di cercare candidati all’episcopato e in questo non mi è difficile avere davanti un profilo ideale: lo trovo nel cardinale Stepinac. Questo non vuol dire che la canonizzazione sia domani, ma voglio dire che a me ha dato molto e spero che continui a dare tanto alla Chiesa croata, soprattutto suscitando imitatori.
Si è saputo che due anni fa c’è stata una visita fraterna al cardinale arcivescovo di Zagabria Bozanic, chiesta dal Papa. Cosa ci può dire sull’esito di questa visita?
R. – Non le posso dire molto perché non si è saputo niente. Recentemente, avendo l’opportunità di incontrare i superiori della Congregazione per i vescovi, per incarico del cardinal Bozanic, ho chiesto al cardinale prefetto che ne era stato di questa visita che ha avuto luogo ormai 2 anni fa e il cardinale Ouellet mi ha spiegato che c’è differenza fra una visita fraterna e una visita apostolica. Il visitatore apostolico ha il mandato di indagare su circostanze particolari che già si sono identificate. C’è un problema, e lui deve vedere chi sono i responsabili e suggerire dei provvedimenti. La visita fraterna, invece, è domandata quando si tratta di un cardinale e ci sono soltanto dei rumori, delle voci, magari di cattiva gestione, o problemi di governo di ordine morale, ma come rumors. E allora il visitatore fraterno deve indagare fraternamente, come dice la parola stessa, ma in modo informale e al termine di una visita fraterna, abitualmente non c’è nessun comunicato, quando non si ritiene che si debba intervenire ulteriormente.
Prima di arrivare a Zagabria nel 2019, lei è stato nunzio a Cuba per 4 anni, vivendo momenti delicati per il Paese, dalla morte di Fidel Castro alle speranze di sospensione dell’embargo degli Stati Uniti, poi cadute, e infine due visite di Papa Francesco in pochi mesi. Cosa ricorda di quegli anni e come ha lasciato la Chiesa cubana?
R. – Ricordo una Chiesa piena di speranza. Ho trovato una bella armonia, una bella comunione tra i vescovi che sono sempre in dialogo con le autorità. A volte si lamentano per non avere ottenuto abbastanza, altre volte sono grati per quello che hanno ottenuto. Una cosa che mi ha dato particolarmente gioia è vedere la gioventù che ha potuto andare alla Giornata mondiale dei giovani a Panama, nel 2019, in un numero significativo. E’ la prima volta che oltre 500 giovani cubani vi partecipavano e questo lascia ben sperare. Prima della mia partenza, ho voluto dare la mia impressione su una realtà e su una domanda che molti mi facevano: se c’è o non c’è libertà religiosa a Cuba. E io dicevo che posso tranquillamente dire che c’è piena libertà di culto, nel senso che nelle chiese si può fare qualsiasi attività, qualsiasi cerimonia, ma dicevo che la libertà religiosa forse, dal nostro punto di vista, non è ancora piena. Perché pur essendoci grande tolleranza su quello che si fa anche a livello di formazione, di insegnamento, tante volte il nostro sforzo, il nostro lavoro, non è ancora riconosciuto ufficialmente e quindi credo che si possa ancora camminare, ma che si sia fatto già un cammino enorme insieme.
Prima di Cuba, il suo primo incarico come nunzio apostolico è stato in Iraq e Giordania, dal 2010 al 2015. Gli anni del ritiro delle truppe straniere da Baghdad, ma anche dell’ascesa dell’Isis, fino alla drammatica fuga dei cristiani della Piana di Ninive del luglio 2014. Cosa le resta di quegli anni?
R. – Resta il ricordo di una Chiesa sofferente e di una Chiesa forte. Soprattutto vorrei sottolineare la fortezza dei cristiani iracheni, che nonostante periodi molto difficili hanno mantenuto la fede. E’ chiaro che molti sono stati costretti, quasi spinti, a lasciare il Paese e andare alla ventura come il loro padre Abramo, che era stato chiamato per vocazione, loro forse più per costrizione che per vocazione, in cerca di un futuro migliore. Ma mi ha colpito sempre la grande forza della loro fede.
Alla luce della sua esperienza nel Paese mediorientale, che significato potrà avere la prossima visita di Papa Francesco?
R. – Io penso che la visita del Papa in Iraq sarà una grande benedizione. Forse possono esserci dei dubbi sulla riuscita, sui rischi che corre, ma io sono convinto che il Signore assisterà il Santo Padre e sarà un’occasione molto importante per mettere in pratica il messaggio della Fratelli tutti. Uno dei momenti più significativi, secondo me, sarà proprio l’incontro con il Grande Ayatollah Al Sistani, che ho avuto il piacere di visitare un paio di volte. Sono sempre rimasto colpito dalla sua semplicità: è un leader di pace, che cerca il bene di tutti, che ha il senso della fraternità, che non è poco. E quindi sono sicuro che da questo incontro nascerà un messaggio molto bello, molto forte: si incrementerà il dialogo perché non c’è altra via di soluzione che quella del dialogo e sarà un grande incoraggiamento per i cristiani, dopo anni tanto difficili. Sono sicuro che il Signore verserà le sue benedizioni su questo viaggio, anche in questo periodo di ulteriore difficoltà come quello della pandemia.
Nell’ ottobre 2013, in una conferenza nel suo Piemonte, lei si era detto ottimista sul futuro dei cristiani in Iraq. Lo è ancora?
R. – Certo, è difficile adesso valutare a distanza e senza tenere conto della realtà. In fondo, il problema grande di questi ultimi anni da quando ho lasciato, che era quello dell’ insediamento dell’Isis, in un certo senso è stato molto ridimensionato, quindi c’è ragione per continuare a essere fiduciosi e ottimisti. Ma penso che siano necessari i gesti come la visita del Papa, come l’incoraggiamento, come la costruzione di università, quella di Erbil, ecc… per dare ai giovani cristiani ragioni per rimanere ed essere lì testimoni della loro fede.