ANDREA TORNIELLI
A prima vista potrebbe apparire quasi un paradosso: anche la Curia Romana, che per sua natura è – o dovrebbe essere – collegiale ed esiste non in quanto potere a sé stante ma come servizio alla missione universale del Vescovo di Roma, ha bisogno di una “conversione sinodale”. Ad indicare questa via è stato Papa Francesco, nel discorso alla Curia per gli auguri di Natale. “La sinodalità – ha detto – è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui”, perché la Curia, ha aggiunto, “non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza”.
Il Papa, quasi prolungando la catechesi dell’udienza di mercoledì 22 dicembre, ha ricordato che tutto il mistero del Natale ormai alle porte è contenuto in una parola: umiltà. Lo si può comprendere soltanto se siamo disposti a spogliarci di prerogative, di ruoli, di titoli, cioè se rinunciamo a crederci “qualcuno”, sempre migliori di chi ci ha preceduto. Lo si può comprendere se rinunciamo ai sogni di piani apostolici espansionistici, che indicano “quello che si dovrebbe fare” perdendo il contatto con la “realtà sofferta del nostro popolo fedele”.
Con cristiano realismo, il Vescovo di Roma ci ricorda che, tolti, i ruoli, i titoli e le vesti, “siamo tutti dei lebbrosi bisognosi di essere guariti”. Tutti, dal primo all’ultimo. Nonostante gli uffici ricoperti. Soltanto a partire da questa consapevolezza, che è di per sé anch’essa un dono prezioso della grazia, si può guardare con occhi nuovi a ciò che suggerisce il Papa. La conversione alla sinodalità non risulterà allora come l’ennesima incombenza burocratica da espletare per dovere, ma un modo nuovo di collaborare, di mettersi in discussione, di ascoltare l’altro. Permettendo così allo Spirito di soffiare e di portarci anche dove non immaginavamo, per rafforzare la comunione e costruire rapporti che vanno al di là del semplice lavoro. Sempre di più, camminando sulla strada dell’umiltà e dello stile sinodale, la Curia diventerà una comunità. Una comunità composta da peccatori, da uomini e donne fragili che non si nascondono dietro a titoli o ruoli, ma che sono coscienti di essere tutti, dal primo all’ultimo, bisognosi di perdono, di salvezza e di guarigione.