Andrea De Angelis – Città del Vaticano
Al servizio della Chiesa, della sua comunità: non come parroco, ma come semplice sacerdote in pensione, padre Jacques Hamel ad 85 anni mostrava nella quotidianità cosa vuol dire operare nella fratellanza, favorire l’incontro, saper ascoltare e pregare. Sono passati cinque anni da quel tragico giorno in cui fu ucciso nella chiesa di Santo Stefano di Saint-Étienne-du-Rouvray, presso Rouen. Era il 26 luglio del 2016. Alla fine della Messa padre Hamel venne sgozzato da due uomini che avevano giurato fedeltà al sedicente Stato islamico. Prima di essere ucciso, il sacerdote fu costretto ad inginocchiarsi. Le sue ultime parole furono: “Vattene, Satana! Lontano da me, Satana”.
Tutti i martiri sono Beati
Papa Francesco poco dopo l’assassinio dell’anziano sacerdote ne aveva voluto aprire il processo di beatificazione, perché “martire, e tutti i martiri sono Beati”, aveva detto nell’omelia della Messa di suffragio celebrata a Casa Santa Marta il 14 settembre 2016, festa dell’Esaltazione della Croce, alla presenza dei familiari di padre Hamel ed ai pellegrini giunti dalla Normandia insieme al vescovo di Rouen, monsignor Dominique Lebrun. Francesco in quell’occasione ricordò padre Jacques come “un uomo buono, mite, di fratellanza, che sempre cercava di costruire la pace”, ma “è stato ucciso come se fosse un criminale”. Il Papa vide in lui un esempio di coraggio:
Ha dato la vita per noi, ha dato la vita per non rinnegare Gesù. Ha dato la vita nello stesso sacrificio di Gesù sull’altare e da lì ha accusato l’autore della persecuzione: “Vattene, Satana!”. E questo esempio di coraggio, ma anche il martirio della propria vita, di svuotare sé stesso per aiutare gli altri, di fare fratellanza tra gli uomini, aiuti tutti noi ad andare avanti senza paura.
Il processo di Beatificazione
La fase diocesana della causa di Beatificazione di padre Jacques Hamel si è conclusa nel marzo 2019 ed ora, a cinque anni dalla sua morte, è all’esame della Congregazione delle Cause dei Santi. Si tratterà di riconoscere se effettivamente sia stato assassinato “in odium fidei”. Il corposo dossier è stato portato a Roma da un gruppo di quaranta giovani, insieme a monsignor Lebrun e diversi sacerdoti della diocesi di Rouen, compreso il postulatore della causa di padre Hamel, padre Paul Vigouroux. Padre Hamel desiderava portare un messaggio di fratellanza nella sua comunità. Lo testimonia anche il suo ultimo scritto, pubblicato nel bollettino parrocchiale all’inizio dell’estate 2016 e che ora è diventato il suo testamento spirituale: “Possiamo ascoltare in questo tempo – scriveva – l’invito di Dio a prenderci cura di questo mondo, per renderlo, là dove viviamo, più caloroso, più umano, più fraterno”. Un tempo, suggeriva sempre, da dedicare all’incontro con gli altri.
Le cerimonie
Anche quest’anno nell’anniversario dell’uccisione, la diocesi di Rouen fa memoria del sacerdote, come ricorda ai nostri microfoni monsignor Dominique Lebrun, arcivescovo di Rouen, mettendo in luce l’eredità lasciata e il significato del martirio di tanti cristiani:
Anche oggi, come ogni 26 luglio, si rinnovano le cerimonie e la comunità e la famiglia di padre Hamel si ritrovano nella chiesa teatro della sua tragica morte. Che giornata sarà questa?
Sono due gli elementi che mi vengono in mente pensando a questo giorno, quello del quinto anniversario dell’uccisione di padre Hamel. Innanzitutto si tratta della prima volta senza uno dei primi testimoni di quella tragedia, che ha lasciato da poco questa terra. Il valore di essere testimoni non è solo nel processo, ma per la vita. Quanto accaduto impegna tutta la comunità cristiana, l’essere testimoni del martirio davanti alla comunità. Il secondo particolare è che il processo è ancora in corso per lo Stato francese. Sono quattro le persone indagate per complicità nell’omicidio, l’udienza si terrà il prossimo mese di febbraio. Siamo dunque ancora nell’evento, nel dolore, nel non capire e nel porci la domanda se questa tragedia si sarebbe potuta in un certo senso evitare, perché uno degli assassini era noto alla Polizia. Domande, queste, che alimentano ancora il dolore.
La presenza della comunità musulmana è un tratto caratteristico delle cerimonie di ricordo di padre Hamel. Dalla sua morte è cambiato qualcosa nei rapporti tra voi?
Non lo so, questi rapporti sono sia pubblici che intimi, più privati. Mi colpisce però, attraverso questo evento, un sentimento che consiste nel sentirci legati. Tocca noi e tocca loro, in un certo senso siamo sulla stessa barca e non possiamo ignorare l’altro, non possiamo dire che non siamo vicini di casa. Questo mi colpisce, la nostra storia è unica e riguarda anche la mia fede. Gesù è l’unico salvatore dell’umanità, che a sua volta è una. Questa universalità, questa unità come la serviamo noi cristiani? Non possiamo dirci stranieri gli uni gli altri, ma dobbiamo vivere nella consapevolezza che Gesù ha salvato tutti gli uomini.
Cosa resta in voi tutti di quel giorno? Più il senso del lutto, il dolore o la memoria e i frutti di quella testimonianza?
Il dolore c’è ancora, anche nella famiglia, che vedo qualche giorno più in pace, qualche giorno più in difficoltà dinanzi alla domanda che tutte le persone si pongono, ovvero se si poteva evitare questo lutto. Quello che mi torna in mente è il momento in cui sono arrivato in chiesa la sera dell’omicidio: il corpo era ancora presente. Il commissario mi ha dato il permesso di pregare, mi sono messo in fondo per un momento di raccoglimento. In ginocchio. Volevo essere lì in quella chiesa che sapevo avrei dovuto chiudere, prima di riaprirla. In quel momento il Signore ci ha molto aiutato per avere come orizzonte quello di Gesù, quello del perdono e dell’amore per tutti.
Possiamo parlare di un’eredità lasciata da padre Hamel? Sappiamo che c’è anche un premio a lui ispirato…
L’eredità è per tutti quelli che vogliono accogliere il suo messaggio. La Federazione dei media cattolici ha voluto poi istituire un premio che io reputo molto importante, perché è davvero un bel segno la capacità dei media di avere un ruolo davanti alla violenza. Cogliere i segni di speranza che ci sono in tutti i cuori umani.
La violenza insensata continua a colpire sacerdoti, laici e religiosi per la testimonianza data in parole e azioni in tutto il mondo. Cosa le suscita questa costatazione, come viverla anche alla luce della vicenda di padre Hamel?
Sì, ci sono tanti martiri nel mondo. Quello che mi viene in mente è la necessità di un esame di coscienza. Per anni, forse, abbiamo ignorato questo, perché eravamo in pace e i problemi erano distanti. Penso al continente asiatico o a quello africano. Come possiamo essere vicini al fratello lontano che soffre per Cristo? Poi dobbiamo riflettere sul fatto che la testimonianza non è solo nella violenza barbara che conosciamo, ma anche nel modo di vivere il Vangelo. In ciò che comporta. Qui in Francia tanti cresimandi mi dicono che non parlano della loro fede, perché altrimenti i professori o i compagni si prendono gioco di loro. Anche tanti adulti hanno difficoltà oggi a vivere secondo la loro fede e questo mi colpisce. Accogliere il Vangelo vuol dire seguire Gesù nella via della croce, senza dimenticare che è una via di amore, ma l’amore sulla terra passa anche dalla croce.
Cosa ci può dire del processo di Beatificazione in corso, a che punto siamo?
Siamo stati dispensati dei cinque anni necessari per aprire il processo di Beatificazione e il Papa ha fatto bene, perché oggi, come detto, una delle testimoni non c’è più. Così ha fatto in tempo a dare la sua testimonianza. La fase diocesana è conclusa, ora tocca a Roma dirci cosa accadrà, ma credo che c’è tempo. Il popolo di Dio dovrà portare la memoria di padre Hamel, abbiamo tempo davanti a noi. Questo è importante.