Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Tante realtà – chiesa, società, istituzioni, mondo dello sport – con un unico obiettivo: contrastare e prevenire l’orrenda piaga degli abusi su bambini, adolescenti e adulti vulnerabili, tanto nel mondo reale quanto in quello virtuale. Era affollata questa mattina la sala San Pio X del Dicastero per la Comunicazione che ha ospitato il convegno “Accogliere ed educare in ambienti sicuri. Promuovere child safeguarding al tempo del Covid-19 e oltre”, incontro multidisciplinare che ha riunito senatori e boyscout, politici e poliziotti, preti e psicologi, docenti e animatori di associazioni religiose.
Il progetto “Safe”
L’evento è stato organizzato dalla Comunità Giovanni XXIII con l’Azione Cattolica e il Centro Sportivo Italiano, in collaborazione con il Centro per la Vittimologia e la Sicurezza dell’Università di Bologna. È frutto di un percorso biennale di ascolto, ricerca e formazione quale il progetto “Safe” che, coordinato da Chiara Griffini e co-finanziato dall’Unione Europea, ha coinvolto circa 1200 persone tra coloro che ricoprono incarichi di responsabilità a contatto con minori. Risultati e lavori del progetto sono stati presentati nella sessione mattutina del convegno, aperta dai saluti di Alexandra Valkenburg, ambasciatrice dell’Unione Europea presso Santa Sede, Ordine di Malta, Nazioni Unite a Roma e Repubblica di San Marino, e del prefetto del Dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini, che ha evidenziato “l’importanza della comunicazione nella costruzione di una cultura diversa da quella che ha chiuso e chiude ancora gli occhi sugli abusi”.
O’Malley: ascoltare le vittime che chiedono giustizia
Dettagliati e interessanti gli interventi seguiti nella giornata, fino al tardo pomeriggio, subito dopo la lettura del messaggio di Papa Francesco. Ai partecipanti è giunto pure il saluto video da Boston del cardinale Sean O’Malley, presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori. Come nella conferenza di Varsavia, il porporato è tornato sul concetto di “conversione pastorale”, importante – ha affermato – per rinnovare la Chiesa di fronte a questo scandalo: “Dobbiamo lavorare per il cambiamento in tutti gli aspetti della vita della Chiesa, combattendo l’abuso ovunque si sia verificato, indipendentemente dallo status o dall’ufficio della persona che ha commesso il crimine”. “Non è possibile fare pace con l’ingiustizia”, ha detto O’Malley citando don Oreste Benzi, ed ha insistito ancora una volta sull’ascolto dei sopravvissuti che chiedono “guarigione e giustizia”. Su questo punto, la posizione del cardinale è netta: “Non possiamo allontanarci o negare la realtà dell’abuso quando si verifica nelle nostre case, nelle nostre comunità o nelle nostre associazioni. Se non riusciamo ad affrontare direttamente l’abuso ovunque lo troviamo, allora condividiamo la responsabilità del male e del danno che infligge a persone innocenti”.
L’Europa contro gli abusi sul web
Tra i relatori intervenuti – quasi tutti in presenza, alcuni online come monsignor Lorenzo Ghizzoni, responsabile del Servizio Cei per la Tutela dei Minori, in diretta dal Perù – l’europarlamentare Caterina Chinnici che ha concentrato il focus sulla problematica ormai consolidata degli abusi sul web. Abusi come video e immagini pedopornografiche o gli adescamenti, aumentati esponenzialmente durante la pandemia che ha costretto tutti – anche i piccolissimi – ad approcciarsi al mondo virtuale. “Lo strumento informatico non va demonizzato perché offre un caleidoscopio di esperienze: social, Dad, streaming”, ha chiarito Chinnici, il punto è che questi strumenti, se non usati con la dovuta attenzione, sono veicoli di pericolo. Gli episodi di autolesionismo causati da giochi virali su TikTok o le sfide violente a cui molti minori si sottopongono per imitare la serie Netflix Squid Game, ne sono prova; spesso questi diventano trampolini per “incorrere nei predatori del web”, che agiscono nell’anonimato garantito dal dark internet.
Chinnici ha fornito alcuni dati: “Da 1 milione di segnalazioni di materiale pedopornografico nel 2010 si è passati a quasi 17 milioni nel 2019. Un aumento terrificante”. Perciò l’Unione Europea ha scelto di concentrare l’attenzione sulla lotta contro i reati sessuali online, senza trascurare altre forme di abuso contro i bambini come matrimoni precoci o violenze in ambito domestico e scolastico. Tante le iniziative in tal senso, ma più di tutto serve una “mobilitazione delle coscienze”, ha affermato la parlamentare, citando le parole di suo padre, il giudice Rocco Chinnici ucciso dalla mafia, che chiedeva proprio questo impegno per difendere i giovani dalla droga: “La stessa cosa è necessaria oggi per tutelare i bambini da rischi e violenze on e off line”.
Triplicati i “cybercrimes”
Sulla stessa scia Annalisa Livini, dirigente della Polizia Postale, che in un apprezzato intervento ha parlato di una triplicazione dei cosiddetti “cybercrimes” (dal cyberbullismo al revenge porn all’istigazione al suicidio), che si insinuano tramite le chat dei social network o delle piattaforme di gioco. Fenomeni e challenges dannose prolificate nel tempo del lockdown: “Il nostro bilancio non è positivo”, ha detto Livini: lo dimostrano i 3200 casi di pedopornografia del 2020, a fronte dei 1400 del 2019. “Le vittime sono bambini sempre più piccoli, al di sotto dei 10 anni”. Ciò che serve è una più solida collaborazione con le famiglie (“in tanti casi è venuta meno la figura dei genitori”) e una più valida formazione di figure in scuole e attività che possano “riconoscere i segnali di rischio”.
Nelle periferie digitali
Un lavoro, questo, di cui si fa carico in Italia sin dall’inizio degli anni ’90, don Fortunato Di Noto, sacerdote siciliano che ha fondato l’Associazione Meter, organismo precursore nella lotta gli abusi, oggi ramificato in tutto il Paese. Negli ultimi 18 anni ha sventato intere reti di pedofili, presentato alle Procure 65mila denunce e segnalato circa 150 milioni di video e immagini pedopornografiche. Dati offerti dallo stesso don Di Noto che, al banco dei relatori, ha raccontato questo lavoro svolto capillarmente e con non poche difficoltà, che va di pari passo ad un’opera di formazione e sensibilizzazione attraverso corsi e laboratori nelle scuole. Perché, oltre a leggi e protocolli, è prioritario creare oggi dei punti di riferimento sicuri, ovvero adulti formati e informati: “Una vittima o presunta vittima come può pensare di aprire il cuore e raccontarsi se non ha un punto di riferimento certo, visibile credibile e che non abbia la sindrome di Peter Pan? I bambini non vogliono i Peter Pan, anzi li escludono. Questo progetto è una grande assunzione di responsabilità, perciò dobbiamo fare gli adulti e passare ad un’azione concreta perché le periferie digitali sono ancora in atto”.
Case divenute gabbie nel lockdown
Di abusi virtuali ma anche di quelli reali avvenuti durante il lockdown ha parlato invece Carla Garlatti, garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza: “Restare chiusi in casa, se per molti minori ha rappresentato un momento per ritrovarsi e ricostruire un ambiente di confidenza, per altri è stato come essere chiusi in gabbia”. Indagini recenti parlano di un 62% di abusatori nelle famiglie: per le vittime è stato un incubo “vivere con il loro carnefice”, anche perché “sono venute meno tutte le figure come scuola, parrocchie, centri sportivi, capaci di rilevare il segnale di disagio”. L’appello è a “lavorare molto per creare fiducia nelle istituzioni”, perché “le persone devono sapere dove rivolgersi e non avere paura di denunciare”; ai genitori di figli adolescenti, invece, alcune indicazioni pratiche: “Mettete il pc in soggiorno non in cameretta, guardate la cronologia, inserite i parental control. Non sono accorgimenti banali”.
Prendersi cura
Di rilievo, infine, l’intervento di Alessandra Campo, coordinatrice dell’Istituto di Antropologia della Gregoriana, che ha fatto un passo indietro per illustrare i passi avanti fatti negli ultimi anni e quelli ancora da compiere: “Ci sono stati degli scandali, eravamo impreparati e abbiamo dovuto imparare a rispondere. Abbiamo imparato protocolli, policy, ma ci siamo accorti che la protezione non basta”. Bisogna infatti “prendersi cura”, che significa nel concreto spezzare certe dinamiche relazionali che favoriscono l’abuso, “parlare” per rompere certi tabù, avere la consapevolezza che ognuno qualsiasi ruolo rivesta (professionista del safeguarding, insegnante, genitore, psicologo, lavoratore) “fa parte di un ‘esterno’ che può inibire o meno la realizzazione di un abuso”. È un impegno necessario, ha detto Campo, per tutelare tutti quei bambini che “spesso non sanno trovare neppure le parole per esprimere il male subito”.