di Gaetano Vallini
L’Argentina ha vinto ieri, per la terza volta, il mondiale di calcio battendo in finale, ai rigori, la Francia, campione uscente, al termine di una partita pazzesca, incredibile, ricca di emozioni, che rimarrà certamente nella memoria degli appassionati. Una partita epica, che segna anche la definitiva consacrazione di Lionel Messi, un fuoriclasse assoluto. Nonostante una Coppa
America, i sette palloni d’oro e le decine di trofei vinti con le maglie di club, fino al giorno prima della finale era ancora l’erede incompiuto di Maradona. Perché gli mancava il mondiale. Ora ha vinto anche questo, peraltro come miglior calciatore del torneo. Da ieri, dunque, non sarà più figlio di un dio minore del calcio. Sollevando a 36 anni la tanto attesa coppa del mondo — l’Argentina non la vinceva dal 1986, con Maradona appunto — Messi ha detto addio al torneo più importante dal gradino più alto, dal tetto del mondo, scrollandosi di dosso tutte le critiche che lo hanno accompagnato negli anni in nazionale. Però quella bisht indossata sopra la maglietta…
Ma oltre a una finale bellissima, forse la più bella di sempre, tenuta in bilico da un indomabile, fenomenale Mbappé — peraltro uno dei pochissimi francesi che dopo la premiazione hanno tenuto orgogliosamente al collo la medaglia del secondo posto — cos’altro resterà di questo mondiale di calcio in Qatar? Sicuramente le polemiche e le critiche che lo hanno preceduto e che hanno riguardato la Federazione internazionale, la Fifa, prima per le modalità tutt’altro che trasparenti con cui si è giunti all’assegnazione della sede, ovvero a un Paese in cui molti diritti sono disattesi o ignorati, e poi per le terribili notizie sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri nella costruzione degli stadi e le tantissime morti nei cantieri. Per questo in molti avrebbero voluto che il mondiale venisse boicottato.
Un boicottaggio preventivo non andato in porto — troppi gli interessi in ballo — ma che qualcuno aveva comunque pensato di portare almeno in campo, sotto i riflettori del mondo. Tuttavia la Fifa ha giocato d’anticipo mettendo addirittura mano al regolamento, vietando ai capitani di scendere in campo con fasce “arcobaleno” o con altri simboli se non con la generica scritta “no discrimination”, pena l’immediata ammonizione. Nessuno, purtroppo, se l’è sentita di ignorare il divieto, ma l’avessero fatto tutti, sarebbe stato almeno un segnale. Solo i calciatori della Germania, nella prima partita, hanno posato in una foto di gruppo coprendosi la bocca con la mano, così come in tribuna d’onore solo la ministra dell’interno di Berlino, Nancy Faeser, è salita sugli spalti con al braccio una fascia con la scritta “One love”, accomodandosi accanto a un imbarazzato presidente della Fifa.
Ma l’attenzione del mondo l’ha sicuramente catturata la nazionale dell’Iran alla sua prima partita. Sguardo teso, volto tirato, i calciatori non hanno cantato l’inno, solidarizzando così con i connazionali che protestavano — e ancora protestano — contro il regime dopo la morte della giovane Mahsa Amini a seguito delle percosse subite dopo essere stata arrestata per non aver indossato correttamente il velo. Un gesto coraggioso. Un rischio, per loro e per le loro famiglie in Iran, passibili di rappresaglie da parte delle autorità, le quali non hanno affatto gradito, dicendolo pubblicamente. E per far capire che non avrebbero scherzato, qualche ora dopo hanno arrestato un ex calciatore della nazionale, Voria Ghafouri, che sui social aveva sostenuto le proteste nel Paese. Le minacce del regime di Teheran, queste sì tutt’altro che velate, hanno sortito l’effetto sperato: successivamente l’inno è stato cantato. Ma quelle bocche chiuse, alla prima uscita, resteranno il gesto politicamente più forte di questo mondiale. Al pari della protesta della tifosa con gli occhi cerchiati da lacrime di sangue che, in occasione di una partita successiva, sugli spalti ha mostrato la maglia della nazionale iraniana con il nome Mahsa Amini e il numero 22, gli anni della ragazza uccisa.
Checché ne pensino quanti non vedono con favore l’intreccio tra politica e sport, quest’ultimo resta pur sempre una grande vetrina. Ma, oltre a quelle che hanno ritratto le proteste, anche altre istantanee resteranno fissate nei ricordi di chi questi mondiali ha comunque deciso di seguirli. Allora, cos’altro ricorderemo? Probabilmente la preghiera, in ginocchio, dei giocatori dell’Ecuador dopo il primo gol nella partita inaugurale proprio contro il Qatar. E quella dei calciatori marocchini, anch’essi inginocchiati e con la fronte a toccare la terra, ripetuta alla fine di ogni incontro. Ma ha colpito anche il caloroso omaggio dei tifosi brasiliani a Pelé, le cui condizioni di salute si sono aggravate proprio nei giorni del mondiale, con il grande striscione srotolato sugli spalti con l’immagine del fuoriclasse e l’affettuosa scritta Get well soon, rimettiti presto: un augurio fatto proprio da tutti i presenti allo stadio e sicuramente da quanti amano il calcio al di là della bandiera.
Non altrettanto edificante quanto andato in scena durante il quarto di finale tra Olanda e Argentina. Sì, è vero, gli orange da tempo hanno un conto in sospeso con l’albiceleste, dalla finale persa nel 1978 a Buenos Aires. E negli anni la tensione non è calata. Neppure durante quest’ultima partita gli olandesi hanno mostrato simpatia verso gli avversari, provocandoli fino ai rigori. Ma la reazione irridente degli argentini dopo la vittoria per quanto istintiva e in parte comprensibile, non è stata un bello spettacolo. Così come non è stato un bello spettacolo, anzi tutt’altro, il gesto volgare e inqualificabile del portiere della Seleccion, Martinez, durante la premiazione. Una macchia indelebile su una prestazione superba.
Anche un altro fuoriclasse ha dato l’addio al mondiale, il portoghese Cristiano Ronaldo: un europeo, cinque palloni d’oro e anche lui una lunga lista di trofei per club. Ma il suo è stato un addio mesto e irritante, nonostante il record conquistato: quello del primo calciatore a segnare in cinque mondiali. Ronaldo non ha gradito la panchina cui è stato relegato dalla seconda partita. All’ultima uscita ha preso subito la via degli spogliatoi, scuro in viso, senza salutare nessuno.
Tutt ’altra lezione quella arrivata dal commissario tecnico della nazionale giapponese. Dopo la sconfitta ai rigori negli ottavi contro la Croazia, Hajime Moriyasu si è infatti profuso in un lungo e profondo inchino — il saikeirei, il più ossequioso per la cultura nipponica — in segno di ringraziamento e massimo rispetto per il supporto dato alla squadra dai propri tifosi. I quali subito dopo hanno ripulito, come nelle partite precedenti, i settori da loro occupati, mentre lo stesso facevano i calciatori negli spogliatoi, lasciando un biglietto con la scritta “molte grazie”. Chapeau!
Molto più folkloristica, ma carica di affetto, l’immagine di Boufal, calciatore del Marocco che, al termine vittoria contro il Portogallo, corre dalla mamma e con lei improvvisa un ballo sul terreno di gioco per festeggiare un traguardo storico: quello della prima nazionale africana a raggiungere una semifinale mondiale. Segno dei tempi. Ma indubbiamente l’immagine più dolce e commovente di questo mondiale è quella di Leo, 10 anni, figlio del calciatore croato Ivan Perisic, la cui squadra ha appena eliminato il Brasile. Lasciata la festa dei vincitori, percorre mezzo campo per andare a consolare Neymar, forse il suo idolo. Qualcuno cerca di fermarlo, ma il fuoriclasse brasiliano lo vede, gli si avvicina e, ancora in lacrime, stringe la mano che il piccolo gli porge e lo abbraccia. Per la verità anche alcuni calciatori quella sera, e al termine di altri incontri, hanno fatto sportivamente lo stesso con gli avversari sconfitti, ma vuoi mettere la tenerezza e il candore del gesto di quel bambino! Il mondiale del cuore l’ha vinto lui.