Gabriella Ceraso – Città del Vaticano
Una nuova spinta dal basso verso le istituzioni e le potenze politiche per dire che la guerra è una sconfitta per tutti. Una nuova testimonianza con la presenza in terra ucraina, sfidando i rischi alti legati ai bombardamrnti, una rinnovata volontà trasversale e condivisa dalla Chiesa, dai credenti e dai non credenti, da sindacati e da associazioni della società civile. Tutto questo mette in moto la “Carovana della pace” diretta a Odessa, in Ucraina, organizzata dalla rete della società civile “StotheWarNow”, guidata dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, che raccoglie oltre 175 sigle di associazioni cattoliche e laiche italiane.
A Odessa sono previsti diversi incontri con i rappresentanti delle istituzioni, con personalità religiose, con le associazioni e le famiglie di sfollati provenienti da Mykolaiv, da Kherson e da altre zone colpite dal conflitto. Il 29 giugno, inoltre, è in programma a Chisinau un incontro con monsignor Anton Coşa, arcivescovo cattolico della Moldavia, e con la Caritas locale. Ad accompagnare la carovana, monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio e vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana:
Che cosa vuole dire questa carovana? Quali sono i vostri obiettivi?
Mi piace dire che è l’ora della testimonianza, senza se e senza ma. Senza alcuna presunzione o strumentalizzazione. Vogliamo testimoniare che la guerra non è una soluzione, anzi è desolazione e distruzione e che la pace è possibile, anche quando c’è una testimonianza dal basso, quando cioè le associazioni, le diocesi, le chiese, il mondo organizzato in generale – quella che una volta si chiamava la società civile -, la Chiesa nelle sue articolazioni più belle si mettono insieme. Diciamo che la pace è possibile nella misura in cui anche noi costruiamo una pace dal basso. Noi vogliamo essere lì, essere una forza di interposizione non violenta, secondo la logica del discorso alla montagna “beati i costruttori di pace”, e lì vogliamo dire che finché ci sarà la guerra, la corsa al riarmo, finché crederemo nella potenza delle armi e non nella potenza del dialogo, dell’incontro, della cultura, della convivialità delle differenze – come diceva il grande don Tonino Bello alla cui scuola mi sono formato – la pace sarà sempre negata e uccisa, e prevarrà soltanto il rumore della guerra. Siamo lì e vogliamo che il porto di Odessa sia sminato e che le navi ripartano con i cereali e con il grano. Vorrei ricordare a tutti che c’è un popolo di fratelli e sorelle africani – piccoli e anziani, uomini e donne – che sta morendo di fame. Si parla addirittura di 10-15 milioni di fratelli africani affamati. Ora, può essere il cibo anche uno strumento di guerra? Ormai stiamo riportando la lancetta della storia al periodo più buio del Novecento. E noi siamo lì a dire “mai più guerra”, “mai più le armi”. Vorrei rimettere al centro la grande questione della non-violenza, attiva e passiva, nel senso che la non violenza in tutte le sue forme deve essere il nostro codice spirituale e culturale, il nostro stile antropologico, di uomini e donne. Questa guerra sta dimostrando ancora di più quello che qualcuno ha chiamato il disastro antropologico del nostro tempo. Quando Papa Francesco parla di follia della guerra e di sacrilegio, ci invita anche a capire che c’è inconciliabilità tra fede, religione, Vangelo e violenza, odio e guerra. Le religioni, al di là di ogni appartenenza, devono testimoniare che sono incompatibili con la guerra e che il Dio in cui noi crediamo è un Dio della pace, della Shalom, della benedizione e non è il Dio dell’odio. Quando la religione si presta a essere strumento di odio e di violenza nega se stessa e diventa ateismo dentro l’esperienza religiosa.
Non è solo il cristiano e il credente che marcia con voi e vuole farsi sentire. Con voi ci sono le sigle più diverse in una unica voce che parte dal basso ma che non trova riscontro in chi sigla gli accordi o prende decisioni. Perché non si riesce a colmare questo gap?
Verissimo. Questa carovana, mi piace ricordarlo, è una carovana al plurale. Diverse associazioni, diverse appartenenze. Mi piace dire credenti e non credenti che “credono” in un’interposizione di pace. Che mettono i loro corpi a disposizione per dire a chi deve capire, Zelenksky, Putin, l’India, la Cina, la Nato, l’Europa, l’America, che tutti devono fare un passo indietro e far prevalere quello che mi piace chiamare “il pensiero convergente e simbolico della pace”. Lei giustamente dice che non veniamo ascoltati. Per questo dico “siamo lì a fare rumore”, come dice molto spesso Francesco. Noi al rumore delle armi e dei missili, proponiamo i rumori delle coscienze, i rumori di chi non ci sta e non si arrende a quella che Hannah Arendt ha chiamato “la banalità del male”. Ancora una volta, in questa guerra prevale la banalità del male. Ma immaginiamo che in un certo momento termini la guerra: dovremmo ripartire dalle macerie e sarà la nuova Galilea delle genti. Dobbiamo ripartire come credenti e non credenti per ricostruire una civiltà, nell’azione, al plurale, e una civiltà del convivere insieme. Perché la convivialità delle differenze, non può essere una forma bella di democrazia. Anche qui mi permetto di dire: “al bando ogni omologazione!” È bello essere al plurale, è bella la diversità quando non è un problema, ma una ricchezza e un’opportunità. Ecco, perché qui c’è tutta la grande lezione della santità di Charles De Foucauld e della venerabilità di don Tonino Bello. Quando De Foucauld diceva di voler essere il fratello universale. Oggi ancora una volta viene sconfitta la fraternità. Ecco l’intuizione profetica e mistica di Papa Francesco con la bellissima enciclica Fratelli tutti, in cui afferma ancora una volta, che la guerra dice che non siamo fratelli e sorelle. Noi dobbiamo attivare processi di fraternità inclusiva. Per questo Papa Francesco dice che la realtà è più dell’idea e il tempo è più dello spazio. La guerra occupa spazi, non attiva processi di cambiamento, ma anzi attiva processi di distruzione. Noi con la carovana della pace, al plurale, vogliamo testimoniare che dal basso, la convivialità, la comunione, l’armonia tra diversi, è già una realtà e vogliamo che al di là di ogni posizionamento di geopolitica deve sempre prevalere la pace. La logica del potere è una logica distruttiva. Sempre don Tonino Bello ci ha insegnato a rinunciare ai segni del potere e a recuperare il potere dei segni. Questa carovana che accompagnerò a nome della Cei significa che crediamo nel potere di un segno e mi auguro che questo segno, che esprime la logica del Vangelo e dei costruttori di pace, possa scalfire le coscienze di chi deve capire. In questo caso deve capire l’Europa, l’America, la Nato, deve capire tutto l’atlantismo. E tutto ciò che deve appartenere alla Cina, all’India, alla Russia. Tutti dobbiamo capire che stiamo andando verso un baratro, se non ci fermiamo dovremo fare i conti con la distruzione anche di noi stessi. Ecco allora il senso più bello. Io sono convinto che una delle grandi povertà del nostro tempo è la povertà di senso, di significato. La guerra sta generando sempre di più la mancanza di senso. Questa Carovana della Pace, questo nostro dire stop ad ogni forma di guerra, vuole dire il potere di un segno che per noi ha soltanto un nome: “la pace”. E non dimentichiamo che Gesù è risorto e si è sempre presentato da risorto, con il nome della pace, perché la pace dice Resurrezione. La guerra dice soltanto morte e distruzione. Mi piace, in questo contesto, fare memoria di questo grande vescovo, non capito, mistico e profetico. Helder Camara diceva che “il sogno di uno è un mero sogno, ma il sogno di tutti diventa realtà”. Ecco il mio grande appello: sogniamo insieme dal basso e dall’alto, in modo trasversale, oltre ogni appartenenza, sogniamo una pace insieme e il sogno della pace diventerà realtà.