di Gaetano Vallini
Era il settembre del 1972 e Paolo VI si rivolgeva così ai partecipanti al primo convegno nazionale delle Caritas diocesane: «Una crescita del popolo di Dio nello spirito del Concilio Vaticano II non è concepibile senza una maggiore presa di coscienza da parte di tutta la comunità cristiana delle proprie responsabilità nei confronti dei bisogni dei suoi membri». Erano trascorsi quasi sette anni dalla chiusura della grande assise ecumenica e appariva sempre più urgente fare in modo che gli entusiasmi non scemassero, ma si sedimentassero e prendessero forma prima nelle coscienze dei cattolici e quindi nella prassi comunitaria. Perché in un contesto sociale segnato da tensioni e contraddizioni, più tardi destinate drammaticamente a esplodere, bisognava che le sincere aspirazioni alla giustizia e alla pace portate avanti da porzioni di Chiesa venissero fatte proprie dall’intera comunità cristiana, in modo da fornire nel quotidiano risposte concrete ai bisogni materiali e morali della gente. Perché, aveva precisato Papa Montini, «mettere a disposizione dei fratelli le proprie energie e i propri mezzi non può essere solo il frutto di uno slancio emotivo e contingente».
Le parole del Pontefice dettavano dunque la linea alla nascente Caritas italiana, affidandole il mandato di creare tra i credenti una mentalità che spingesse ad andare incontro non soltanto episodicamente alle necessità dei dimenticati, dei cosiddetti ultimi, di chi era ai margini della nuova società dei consumi. Certo, non c’erano ancora i malati di Aids o gli immigrati e non era ancora esploso in tutta la sua tragicità il fenomeno delle tossicodipendenze, ma i poveri, i baraccati, gli invalidi, i disoccupati, gli anziani soli nel Paese si contavano a decine di migliaia, soprattutto nelle periferie delle grandi città.
A dare forma concreta all’indicazione fu monsignor Giovanni Nervo, da tutti ricordato come il fondatore della Caritas italiana, definizione che però lui non amava. «Non ho fatto altro che prendere un pullman che qualcuno mi ha messo in mano e guidarlo» precisava. Oppure: «Sono stato come un capo cordata in una scalata alpina, che inevitabilmente ha più visibilità nei media, ma la scalata è egualmente di tutti». E sottolineava che a fondare l’organismo ecclesiale era stato proprio Paolo vi in sostituzione della Pontificia opera di assistenza (Poa), sorta nel 1944 e divenuta lo strumento della carità del Papa nell’Italia che usciva dalla guerra. Ma nella sostanza fu questo tenace sacerdote — morto il 21 marzo del 2013 dopo una vita in prima linea, sulle frontiere della povertà, alla ricerca di risposte concrete — a prendere per mano il neonato organismo e a farlo crescere.
Nato nel 1918 a Casalpusterlengo (Milano) in una famiglia povera e sfollata per la guerra, ordinato sacerdote nel 1941 nella diocesi di Padova, monsignor Nervo è stato il principale protagonista di 15 anni di vita della Caritas: quattro come presidente e dal 1975 al 1986 come vicepresidente (lo statuto definitivo prevedeva un vescovo alla presidenza). Sotto la sua accorta guida l’organismo della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha compiuto le fondamentali scelte iniziali per la diffusione di una cultura della solidarietà anche fuori dall’ambito ecclesiale. Scaduto il mandato alla vicepresidenza, gli venne affidato per cinque anni il coordinamento dell’ufficio Chiesa-Istituzioni della Cei, ma non lasciò mai la Caritas, della quale venne nominato «membro a vita» del consiglio nazionale.
In un libro intervista per il 25° della Caritas monsignor Nervo raccontò i primi faticosi anni, le resistenze incontrate. La principale difficoltà era fare comprendere il passaggio da un ente erogatore di beni e servizi, qual era la Poa, a un organismo pastorale di promozione e di coordinamento, quale intendeva essere la Caritas. Non che la Chiesa scoprisse allora la dimensione della carità, ma occorreva che quanti erano impegnati in opere caritative non si limitassero a pur necessari interventi di beneficenza, ma divenissero lievito, stimolo per fare crescere nella carità l’intera comunità cristiana. Ricordò come ci fossero «difficoltà nel far recepire alcuni cambiamenti fondamentali di mentalità, del resto indispensabili per una carità autentica: il collegamento sostanziale e continuo tra carità e giustizia, il legame vitale e la continua osmosi fra annuncio, liturgia ed esercizio della carità; l’apertura delle comunità cristiane ai problemi del territorio, alla collaborazione con le istituzioni civili, all’esercizio della funzione di coscienza critica della società civile».
Non mancarono prese di posizione forti, non di rado fraintese anche all’interno della comunità ecclesiale, che turbavano l’abitudine a un rassicurante quieto vivere e che si rivelavano scomode per il potere politico, ponendo la Caritas in situazioni di «frontiera». Ma sul campo l’organismo riusciva a guadagnarsi la stima delle istituzioni, quelle stesse i cui mancati interventi andava a supplire. Cruciali poi furono gli interventi svolti in occasione di grandi calamità naturali e di guerre: i terremoti in Friuli e poi in Campania e Basilicata, dalle quali nacquero le esperienze dei gemellaggi tra diocesi; nel 1981 l’eccezionale opera di accoglienza di 3.000 profughi vietnamiti; gli aiuti umanitari inviati nel 1982 in Polonia e a partire dal 1991 alla popolazione martoriata dell’ex Jugoslavia. Tuttavia, teneva sempre a precisare monsignor Nervo, il compito principale della Caritas è essenzialmente quello di «promuovere, anche in collaborazione con altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica».
La testimonianza profetica di questo tenace sacerdote — cui si riconosce anche il merito di aver dato un significativo impulso al mondo del volontariato e contribuito alla nascita del servizio civile per gli obiettori di coscienza — resta un riferimento fondamentale nella costruzione dei cammini di ospitalità, di accoglienza, di carità della Chiesa italiana. Ancora oggi quando si cita uno dei suoi appassionati interventi, lo si fa con la stima e la riconoscenza dovute a un maestro. La sua resta una testimonianza preziosa di un cammino importante nell’interpretare e vivere la dimensione della carità; un percorso proseguito e ampliato negli anni dall’organismo ecclesiale ovunque vi fosse un bisogno cui rispondere.
Monsignor Nervo, disse l’arcivescovo-vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, celebrandone le esequie, «ci ha dato una splendida testimonianza. Nato povero, è vissuto povero e morto povero. Ha amato non a parole ma nei fatti e nella verità. Non ci ha lasciato un testamento spirituale scritto. Il testamento, l’eredità preziosa che ci lascia è la sua stessa vita».