Pubblichiamo il testo dell’Introduzione del Cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, ai lavori della sessione invernale del Consiglio Episcopale Permanente, che si svolge a Roma dal 23 al 25 gennaio.
Cari amici,
vorrei avviare la mia introduzione ai lavori di questo Consiglio Episcopale Permanente con una scena biblica. La traggo dal libro degli Atti degli Apostoli. Si tratta dell’inizio della predicazione di Paolo a Corinto (At 18,1-11), la comunità che portava l’Apostolo fino alle lacrime, attraversata da divisioni e personalismi, in una città incontro di culture diverse con le quali si misurava la piccola comunità. L’Apostolo incontra accoglienza, come quella presso la casa di Aquila e Priscilla (At 18,2-3), ma anche una forte opposizione (At 18,6). Possiamo immaginare i suoi dubbi. Come annunciare il Vangelo del Risorto a gente diffidente, catturata dal presente e con una comunità divisa? Quale sicurezza? Cosa fare con la creta delle mediocrità e della limitatezza umane? Durante questo travaglio Paolo viene raggiunto di notte da una rivelazione divina: «Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso» (At 18,9-10). Anche per noi c’è un popolo numeroso nelle nostre città, molto più di quanto misuriamo con categorie spesso vecchie, giudicando con indicatori ormai superati che non ci fanno accorgere di tanti segni importanti. Lo percepiamo dall’attenzione verso la Chiesa e i suoi ministri. Lo vediamo in alcuni momenti particolari della vita delle persone e della società. Ad esempio, la scomparsa di fratel Biagio Conte a Palermo, un giovane ricco convertitosi a missionario del Vangelo e amico dei poveri, profeticamente alternativo e vicino alla gente comune, ha suscitato in modo sorprendente attenzione attorno alla sua figura. La santità e la carità attraggono. Mons. Lorefice, Arcivescovo di Palermo, ha detto: «Era un diffusore di speranza, un uomo infuocato dell’amore di Dio». Don Pino Vetrano, compagno di fratel Biagio, ha commentato esaltandolo: «Oggi ci testimoni che la mafia si può vincere con la santità e la vita».
Avere una visione larga del popolo, sapere che già c’è un popolo di Dio nascosto, non è consolatorio o illusorio, ma missione larga e dialogo rinnovato. «Continua a parlare e non tacere» per fare emergere questo popolo, attraverso la relazione con ognuno: questo permette alla comunità di essere un corpo, di capire l’unità che valorizza l’individuo, per non ripiegarsi ma trasmettere fede, simpatia, speranza. Solo l’unità permette alla comunità di essere creativa.
Il Cammino sinodale sta raggiungendo il completamento della prima fase, quella dell’ascolto, e ci restituisce tante attese, desideri e un’immagine dolorosa, ma realistica delle nostre Chiese. Queste non debbono mai dimenticare l’orizzonte largo con cui pensarsi e continuano a cercare il dialogo con i nostri compagni di strada, con quel popolo numeroso indicato all’Apostolo. San Paolo, che portò il Vangelo oltre i confini della Palestina, sino ai confini della terra (cfr. Mt 28,19-20) ci incoraggia a non avere timore di quello che oggi chiameremmo “cambio di paradigma”. Molti, soprattutto laici, esprimono il disagio per forme ecclesiali sentite come poco partecipative. Anche i nostri presbiteri ci comunicano la fatica di mantenere le attività in cui un tempo erano impegnate forze ben più cospicue. Ricorrono parole chiave come “comunione ecclesiale”, “partecipazione dei laici”, “razionalizzazione delle forze”, “scelta di priorità”, “decisioni da prendere”. Spesso la tentazione non è avviare percorsi ma elaborare programmi, non discernere ma aspettare la soluzione, non la ricerca ma la sicurezza. Il Cammino sinodale ci aiuterà senz’altro a trovare le risposte adeguate e necessarie, ma solo nella tensione apostolica dell’Apostolo che vuole raggiungere tutti e costruire comunità vive. Questo richiederà di identificare alcune priorità, soluzioni creative e rispondenti alle tante attese delle nostre comunità e del popolo numeroso cui svelare la presenza di Dio che già è nella loro vita.
Guardare insieme la realtà e oltre
È un dono per me e per noi riunirci insieme, alzare lo sguardo, guardare oltre, cercare e scambiarci le nostre opinioni e preoccupazioni, la nostra sensibilità alla ricerca di una visione o nella conferma di questa. Ne abbiamo bisogno perché qualche volta, come Marta del Vangelo, più che la visione che apre il cuore a Maria ci sentiamo catturati dai molti servizi, anche oggettivi, che finiscono per diventare una prigione dalla quale non sappiamo affrancarci. Alcune discussioni, calcoli e polarizzazioni nascono da questo atteggiamento. Marta verifica subito la propria utilità, si sente poco aiutata e rivela amarezza e recriminazioni. Porsi ai piedi di Gesù non è una cosa in più da fare o smettere di farne altre ma libertà interiore per mettere al centro quello che serve per davvero e che non ci viene tolto. Quando non ascoltiamo Gesù inevitabilmente diventano importanti le cose piccole, che riempiono la vita ma svuotano il cuore. E il mondo soffre di mancanza di visione. Papa Francesco propone una lettura problematica del mondo globale: l’umanità trascinata da una mano invisibile, in cui «diventa difficile fermarsi per recuperare la profondità della vita». La sua visione di Fratelli Tutti e di una Chiesa comunione ci permette di non lasciarci trascinare dagli affanni. La visione non è solo un progetto, ma ben di più. Talvolta, anche da un punto di vista personale, ci sembrano esaurire le nostre possibilità.
«Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra» (Sal 121, 1-2). Non stanchiamoci di alzare gli occhi strappandoli dall’onnipresente io, dalle sue infinite interpretazioni che non aiutano a risolvere il vero problema del suo significato che è trovare il noi, per chi vivere. Alzare gli occhi ci è necessario per capire oggi il nostro popolo, tutto, quello prossimo e quello più lontano, ma che per questo non ha voltato le spalle al Vangelo. È la folla che sempre accompagna Gesù e che lo muove a compassione. In questo Consiglio permanente affronteremo come sempre alcuni problemi necessari di “governo”, anche di sistema, sappiamo quanto importanti. Insieme compiamo l’esercizio di guardare oltre e di guardare intorno, chiedendoci cosa il popolo porta nel cuore, quali le sue preoccupazioni e la sua ricerca, sempre coinvolti dalla compassione di Gesù per le pecore stanche e sfinite perché senza pastore. Altrimenti tutto si esaurisce nelle discussioni interne e non nel ripensare l’interno in chiave missionaria, di farlo sulle nostre misure e non cambiare queste su quanto è richiesto.
Un orizzonte pieno d’interrogativi
Alzando gli occhi all’orizzonte vediamo i lampi della guerra in Ucraina, iniziata dall’invasione russa di uno Stato indipendente. È una storia espressione di una crisi gravissima nelle relazioni internazionali, tanto da avere sullo sfondo persino la minaccia atomica. Non possiamo abituarci a convivere con la guerra in Ucraina. Non possiamo accettare l’indifferenza, evidente o raffinata, come se la guerra fosse una malattia ineluttabile. Papa Francesco – cui inviamo la manifestazione del nostro affetto, della nostra comunione e del nostro comune sentire – ha affermato con il suo profondo pathos per la pace: «…con la guerra siamo tutti sconfitti! Tutti noi, in qualsiasi ruolo, abbiamo il dovere di essere uomini di pace. Nessuno escluso! Nessuno è legittimato a guardare da un’altra parte». Ribadiamo la necessità della pace e l’urgenza di raggiungerla innanzitutto per amore del popolo ucraino! Ogni giorno che passa significa morte, lutto, odio. La guerra è terribile, contagia nel mondo globale, provoca tante sofferenze nel mondo intero, come vediamo con la crisi alimentare che fa pagare un prezzo a popolazioni inermi e lontane, causa un riarmo preoccupante e pericolose, insieme a ricadute belliche in altre parti del mondo come la Siria o il Caucaso. Il mondo deve porre fine a questa guerra e affrontare seriamente gli altri conflitti aperti, che sono meno sotto gli occhi di tutti, ma pure così dolorosi. Con sgomento assistiamo all’uccisione dei sogni delle giovani generazioni e sentiamo il dovere di esprimere la solidarietà verso questa gente che chiede libertà e giustizia.
Sorge la domanda profonda e urgente per tutti, specialmente per i credenti: che significa essere uomini e donne di pace? Cosa significa educare alla pace ed essere artigiani di pace? Il Papa ci offre un esempio con le sue parole e i suoi gesti. I suoi insistenti inviti, le sue riflessioni e appelli, la sua commozione nel giorno dell’Immacolata esprimono l’ansia personale e l’urgenza della pace. Nel recente discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede (12 gennaio 2023), il Papa ha ricordato che la pace è possibile alla luce di quattro beni fondamentali: la verità, la giustizia, la solidarietà e la libertà.
Ma l’interrogativo riguarda la Chiesa e noi tutti. Anzitutto la nostra preghiera, lamento di intercessione innanzi a Dio e protesta contro la guerra. Le nostre comunità, le nostre liturgie domenicali, debbono risuonare insistentemente di preghiera per la pace. Mai dimenticare la forza della preghiera: questa dimensione orante, tanto decisiva nella Chiesa che Clemente di Alessandria chiamava eirenikòn genos, una stirpe pacifica.
Minoranza creativa e Chiesa di popolo
Un’intuizione importante, che Benedetto XVI ha proposto all’attenzione della Chiesa, è quella delle minoranze creative. Colgo l’occasione di questo richiamo, per esprimere il nostro dolore per la sua recente scomparsa, nonostante fosse “sazio di anni” e di una vita carica di bene per la Chiesa, l’umanità, la cultura. Gli siamo grati per il suo servizio generoso alla Chiesa, per i suoi quasi otto anni di ministero come Vescovo di Roma, Primate d’Italia, Papa della Chiesa universale: ha amato l’Italia come sua seconda patria e la sua Chiesa. Anche se minoranza, la Chiesa non può cercare riparo nella chiusura, come se unica via sia estraniarsi dal mondo e la distanza garantisca la salvezza dell’identità. Non vogliamo nemmeno accettare svogliatamente di essere minoranza, in fondo con la paura di prenderci responsabilità e di essere creativi. Lo diventiamo se uniti e se pieni di Spirito, docili a questo anche per non finire catturati dalle preoccupazioni interne. Senza andare dove ci manda Gesù che ci ha chiamati per sederci con Lui, finiamo per discutere inevitabilmente su chi sia il più grande o del vittimismo di Marta. La minoranza non è solo l’espressione di una progressiva riduzione, ma esprime una volontà autentica di vivere il Vangelo, capace di energie di bene, che si riversano sulla società intera che è sempre il suo orizzonte. Del resto la nostra è una società di minoranze, di frammenti, se non di tante isole, le solitudini dell’“io”. E guai quando questo avviene anche nelle nostre comunità! La Chiesa deve ritessere il senso comunitario in una società dell’io e dell’estraneità, richiamando a un destino comune. Questa visione della minoranza creativa è tutt’altro che contraddittoria con quella di Chiesa di popolo di cui è testimone Francesco. Anch’essa è una realtà nel nostro Paese, come manifesta la pietà popolare. Una Chiesa di popolo è una realtà che non pone confini, “dogane” – disse all’inizio Francesco: una Chiesa di popolo per il popolo della città. Certamente ci interroga la flessione nella partecipazione dei cristiani alla Messa domenicale dopo la pandemia, ma dobbiamo sempre pensare che i nostri confini sono ben più larghi. La Chiesa non finisce sulle sue soglie.
La Chiesa e il popolo italiano
Quest’anno si compiono i settantacinque anni della Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio del 1948, nata dal ripudio del fascismo e della guerra, ma anche dalla volontà di guardare insieme il futuro. Varie riforme sono possibili e in discussione, ma la principale resta viverne lo spirito e applicarla fino in fondo e in tutte le sue parti. Non è difficile vedere in essa il sentire comune profondo proprio della Dottrina Sociale della Chiesa. Il valore normativo della persona motiva l’architettura dei poteri. Desidero ricordare anche come si compie quest’anno, nel mese di agosto, il centenario dell’omicidio di don Giovanni Minzoni, arciprete di Argenta. Lo ricordiamo con rispetto e affetto, anche per dire che i sacerdoti sanno vivere e morire per il loro ministero. Lo abbiamo visto durante e dopo la seconda guerra mondiale, lo abbiamo vissuto di fronte alle minacce della mafia e della camorra. Scriveva don Minzoni: «A cuore aperto, con la preghiera che spero mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte, per il trionfo della causa di Cristo… La religione non ammette servilismi, ma il martirio». Così vivono e muoiono i preti. Questa memoria incoraggia noi preti italiani, che talvolta ci interroghiamo sul tanto lavoro e ci sentiamo quasi abbattuti: i nostri predecessori hanno resistito al male e hanno creato il bene in situazioni tanto difficili. Ci inseriamo in una lunga catena di servitori del Vangelo e del popolo italiano che si sono spesi con fedeltà e creatività sociale e pastorale.
La memoria di un altro prete, in tutt’altra situazione storica, di cui ricorre il centenario della nascita, don Lorenzo Milani, in questo 2023 ci aiuta a guardare il futuro. Di don Milani, ha detto Francesco: «La sua era un’inquietudine spirituale alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola che sognava sempre più come un “ospedale da campo” per soccorrere i feriti, per recuperare gli emarginati e gli scartati», specialmente i giovani. La sua memoria ci aiuta ad avere rinnovata passione per i giovani.
Tante volte i Vescovi italiani sono intervenuti sulla scuola e sull’emergenza educativa. La scuola è il laboratorio del futuro di un Paese, in cui si prepara il domani e dove vanno investite le energie migliori e le risorse necessarie. In essi si rivela il desiderio di futuro e maggiore pressione sugli adulti perché prendano subito decisioni lungimiranti. Lo vediamo con le richieste – a volte scomposte – di rispettare il pianeta in cui viviamo. A questo proposito, Papa Francesco scrive nella Laudato si’: «La coscienza della gravità della crisi culturale ed ecologica deve tradursi in nuove abitudini. […] I giovani hanno una nuova sensibilità ecologica e uno spirito generoso, e alcuni di loro lottano in modo ammirevole per la difesa dell’ambiente, ma sono cresciuti in un contesto di altissimo consumo e di benessere che rende difficile la maturazione di altre abitudini. Per questo ci troviamo davanti ad una sfida educativa» (n. 209). Questo è il nostro compito di Pastori: un compito che riguarda la formazione della coscienza ad una ecologia integrale, che guarda all’ambiente ma soprattutto alle persone che in questo ambiente vivono. Si tratta di raccogliere la sfida di un cambio anche culturale in atto nel nostro Paese. Questo non riguarda solo i giovani, ma – direi – soprattutto gli adulti e gli educatori in genere. Da questo punto di vista, l’ampia rete delle scuole cattoliche dovrebbe essere percepita come un’alleata e non come una avversaria della scuola pubblica, anche creando sinergie, collaborazioni e progettualità comuni per la crescita del sistema scolastico ed educativo. In questo contesto, è importante ricordare anche il ruolo degli Insegnanti di religione cattolica, che hanno l’occasione straordinaria di intercettare le domande di senso dei ragazzi in età scolare e offrire loro chiavi di lettura importanti per tutta la loro vita. Vorrei ricordare anche il problema di tanti italiani che lasciano il Paese, spesso giovani: nel 2020, 160.000 persone, di cui 120.000 cittadini italiani. Ci dobbiamo interrogare su una società non accogliente verso i giovani. Perché accoglienza è parola chiave e spesso si ha paura di accogliere il futuro, che è la vita. È la paura dell’accoglienza alla vita, che porta tragicamente alla soppressione di essa nel grembo della madre.
Una nuova stagione
Grandi e impegnative sfide per il bene dell’Italia aspettano il nuovo Governo, cui rinnovo i migliori auguri, assicurando che la Chiesa, in spirito di cooperazione, continuerà il suo impegno per l’intera comunità italiana, per i più deboli, per la coesione della società, per l’educazione e il bene comune. Guardando da vicino le persone che ci circondano, non possiamo non rilevare i morsi della crisi economica in atto. La povertà nel nostro Paese è aumentata in modo considerevole a partire dalla crisi del 2008 e con essa la diseguaglianza dei redditi, della ricchezza e delle opportunità. Prezioso è il lavoro che Caritas Italiana, con altri uffici della Conferenza Episcopale, sta facendo: un monitoraggio della situazione, avanzando anche proposte nel merito (Caritas, Rapporto sulle politiche di contrasto alla povertà in Italia). La pandemia, che ancora mostra temibili colpi di coda, è stata una calamità che ha provocato tante, troppe morti, e toccato con dolore tante famiglie e comunità. A motivo poi della crisi bellica il nostro Paese sta pagando gli aumenti dei costi dell’energia, che intaccano il potere d’acquisto di famiglie. Sentiamo decisiva la programmazione del PNRR e la preoccupazione che questo sia davvero la costruzione di un sistema e di strutture e infrastrutture capaci di dare sicurezza per il futuro, di vincere il precariato e offrire speranze e garanzie. Questo richiede una determinazione e una collaborazione unica, uno sguardo largo, verso il futuro, non ridotto al contingente e piegato a interessi di parte o speculativi. Di fronte alle povertà e alle fragilità diffuse nel nostro Paese, occorre poi una costante vicinanza delle nostre Chiese alle famiglie, alle imprese e al mondo del lavoro. Oggi un lavoratore su otto ha un ingaggio precario, mal pagato, che non consente un tenore di vita adeguato alla dignità della persona e alla costruzione di un progetto di vita personale e familiare. Le associazioni del mondo cattolico, del Terzo settore, e la stessa Conferenza Episcopale sono pronte a collaborare con le autorità competenti per valutare e proporre strumenti adeguati a disegnare un sistema di welfare che migliori le opportunità di inclusione sociale e lavorativa per ciascuno.
Tutti ci rendiamo conto di come il popolo italiano invecchi: la crisi demografica da tempo ci attanaglia. Già nel 2011, il Progetto culturale della CEI, aveva pubblicato un importante volume su Il Cambiamento demografico, con prefazione del Cardinale Ruini. È un tema che impegnerà anche questo Governo per cercare misure che favoriscano le nascite, pur consapevoli che per invertire il trend della natalità sarà necessario tanto tempo e dovremo passare attraverso un inverno demografico. La natalità è la proiezione di una società verso il futuro. Possiamo domandarci se sia un sintomo o una causa, ma in ogni caso la risposta che la comunità intera deve dare è invertire la rotta. Se vengono meno le risorse “nuove” di una società, sono a rischio la tenuta del welfare, la sostenibilità del sistema previdenziale, il sistema sanitario e il PIL non può che decrescere con conseguenze devastanti sotto il profilo dell’occupazione e dell’imprenditoria. Non c’è tempo per ulteriori ritardi nell’improntare una seria politica di rilancio della natalità a livello nazionale.
Con grande soddisfazione accolgo la volontà del Governo di riprendere le fila della legge delega per le politiche in favore delle persone anziane, cioè 14 milioni di cittadini, tesa a un riequilibrio fra spesa ospedaliera e servizi sul territorio, in una efficace integrazione sociale, sanitaria e assistenziale, un “continuum assistenziale” che inizia da servizi di rete e inclusione sociale e digitale, da una “assistenza domiciliare continuativa e veramente integrata”, da cure palliative, da centri diurni e, infine, da una residenzialità capace di cure di transizione da ospedale verso casa e capace di una presenza nei piccoli Comuni, incluse ovviamente le importanti aree interne che non devono essere dimenticate. È un elemento importante anche l’approvazione del piano di potenziamento delle cure palliative al fine di raggiungere, entro il 2028, il 90% della relativa popolazione, così come l’innalzamento delle pensioni minime, la revisione dei limiti per l’accesso alla pensione di donne e uomini, il mantenimento di meccanismi di flessibilità che promuovono la libertà di scelta del lavoratore, migliorando la sostenibilità del sistema.
Il Paese ha bisogno anche di rigenerare e mantenere nel tempo la propria vitalità sociale ed economica, favorendo con i mezzi più appropriati l’equilibrio demografico. La difficoltà, in particolare, nel raggiungere requisiti minimi rispetto al binomio lavoro e casa per diventare economicamente indipendenti e formare un nucleo familiare è tra le preoccupazioni maggiori che i giovani esprimono in tutte le indagini che sondano le loro condizioni, ad iniziare dal precariato del lavoro. Appare indispensabile un grande sforzo a riguardo per garantire sicurezza abitativa, capace di dare dignità alle persone e generare vita. Le nuove generazioni non devono essere vincolate ad adattarsi al mondo di oggi, a quello che il presente offre, ma incoraggiate a mantenere alta l’ambizione di cambiare la realtà per costruire un futuro più in sintonia con propri desideri e potenzialità.
Nel Messaggio per la Giornata della Vita abbiamo sottolineato come avanzi una cultura della morte: si risolvono i problemi eliminando le persone! Accogliere è parola decisiva nella nostra visione della vita orientata al futuro. Siamo tante volte intervenuti sulla questione dei migranti e dei rifugiati. Si tratta di comprendere con responsabilità e umanesimo un fenomeno che è una realtà del nostro mondo globale, da non gestire con paura e come un’emergenza, ma come un’opportunità. Tale problematica richiama la centralità della scuola, spazio decisivo d’integrazione nella cultura e nella lingua italiana, ma anche la necessità di maggiori flussi regolari di ingresso, di corridoi umanitari e ricongiungimenti familiari. Soprattutto è importante come accogliamo: non facciamo vivere umiliazione, tempi lunghi di attesa, viaggi infiniti, anticamere senza senso, marginalizzazione. Siamo consapevoli come queste e tante altre problematiche italiane non possano essere affrontate senza guardare all’Europa. È ovvio, ma va sempre ricordato. La Chiesa, così radicata nella storia e nella cultura europea, ricorda agli europei che non possono vivere per sé stessi. L’accoglienza dei migranti lavoratori chiede di essere organizzata su incontro fra domanda e offerta di lavoro. Non dimentichiamo anche il problema di 500.000 persone, anche lavoratori non regolari in Italia.
Le resistenze al Vangelo
Rileggendo il libro degli Atti colpiscono i fallimenti di Paolo: l’idea che il suo annuncio del Vangelo sia stato una cavalcata trionfale è impropria. Non possiamo nascondere che anche il nostro presente è disseminato di comportamenti e di eventi che contrastano chiaramente con il Vangelo. Penso alla questione della pedofilia, che purtroppo riguarda membri della Chiesa istituzionale o persone legate più o meno direttamente a noi, ma riguarda soprattutto tante donne e tanti uomini, nostre sorelle e nostri fratelli, che sono profondamente feriti da un male che ha le sue radici nell’uso distorto del potere e che mina alla radice la fiducia nella vita, negli altri, nella Chiesa, nel Signore stesso. Plaudo al lavoro svolto con sapienza dal Servizio Nazionale per la Tutela dei Minori della CEI, che lo scorso 17 novembre ha presentato il Primo Report nazionale sulle attività di tutela nelle Diocesi italiane. Né va dimenticato l’accordo sottoscritto il 28 ottobre dalla CEI con la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori per combattere in modo sempre più efficace gli abusi sessuali all’interno della Chiesa. Si tratta di passi, che come Chiesa in Italia dobbiamo e vogliamo continuare a compiere con fermezza per stare dalla parte dei più fragili e per far crescere una cultura caratterizzata dal rispetto, dalla cura e dalla tutela della dignità di ogni persona.
La predicazione del Vangelo
Guardando all’esperienza di Paolo, come emerge dal brano di Atti 18 e altrove, mi chiedo: cosa ha veramente fatto la differenza? Qual è l’eredità che lascia alla storia dopo di lui? L’autore di Atti scrive che quando si posero le condizioni favorevoli Paolo «cominciò a dedicarsi tutto alla Parola» (At 18,5). Da una parte lavora e fa di tutto per meritare l’accoglienza degli amici, dall’altra parte sa che la sua priorità consiste nel portare a tutti la luce della risurrezione di Cristo. Le sue energie devono essere spese per un compito alto: aiutare la gente di Corinto ad andare oltre gli affari e ad aprirsi a un orizzonte di trascendenza. In particolare, si tratta di predicare la Buona novella di Cristo, morto e risorto per tutti. Abbiamo appena celebrato la Domenica della Parola di Dio quest’anno dedicata al tema Bibbia e missione. L’annuncio del kerygma, di Gesù morto e risorto, continua a passare dalla testimonianza personale, da uno stile di vita coerente con il Vangelo. Si può anche non essere accettati, ma almeno si diventa un punto interrogativo e un indice rivolto verso l’alto. Tutti cercano sempre le risposte ai grandi interrogativi della vita.
Verso l’Assemblea Generale
Siamo decisamente in cammino verso la prossima Assemblea generale (22-25 maggio 2023). Alla luce del testo di Atti e delle riflessioni che ho appena condiviso, cosa possiamo fare perché questo appuntamento diventi una reale occasione di conversione ecclesiale? Il mio pensiero va ad un ripensamento anche della struttura della CEI, più capace di esprimere la centralità della Parola di Dio e di servire meglio le Chiese che sono in Italia e rinforzare e servire la collegialità tra noi. Ma questo lo dovremo fare insieme, perché la Conferenza Episcopale prima di essere una struttura è il segno della collegialità, della comunione, del camminare insieme. Espressione di quel “prendersi cura” di un popolo numeroso che ci è affidato. Il programma fondamentale del Concilio Vaticano II era mettere a contatto il Vangelo con il mondo, “a servizio” perché la Chiesa esiste per mettere a contatto il Vangelo con il mondo. Auspico che questo possa essere il desiderio di ciascuno di noi in questo tempo che ci è donato.