Il 29 aprile, il Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, è intervenuto all’incontro di preghiera sul tema “Partecipare: costruire assieme la Chiesa e la città”, organizzato dalla Diocesi di Trieste in preparazione alla 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia (Trieste, 3-7 luglio 2024). Di seguito il testo della sua riflessione sul brano 1Cor 12,12-30.
Siamo un corpo, non dei pezzi singoli. Lo siamo, ma facciamo una grande fatica a pensarci insieme. Il corpo richiede il bene comune, perché il bene è comune. Se non è comune finiamo per credere che possa essere privato! E il bene così si perde. Crediamo poco che siamo relativi a qualcuno e pensiamo che qualcuno esiste solo se lui è relativo a me, se serve a me, se conviene a me. Dobbiamo compiere ancora la rivoluzione copernicana: dall’io al noi per capire l’io. Infatti capiamo il nostro valore non quando lo affermiamo sopra gli altri o senza di loro, ma solo in relazione, insieme. Il protagonismo, così banale e qualche volta penoso, è proprio quello che l’Apostolo ci descrive: pensarsi da soli. Siamo sulla stessa barca ma pensiamo e ragioniamo da singoli! A volte siamo costretti, dalle avversità della vita, come le pandemie, a confrontarci con la fragilità di tutto il nostro corpo e della nostra condizione umana e allora capiamo quanto siamo legati gli uni agli altri, perché in realtà tutto il corpo è fragile e ogni membro è debole e esposto. La persuasione dell’individualismo è, invece, fare senza l’altro per trovare il proprio io, vivere senza il prossimo, tanto che l’amore appare come limitativo. Non a caso nella nostra generazione diminuisce la comunità, i legami sono liquidi e mutevoli, sempre provvisori per paura che finiscano, mentre cresce a dismisura la solitudine, con le patologie che questa porta, con l’amplificazione della fragilità, con il nichilismo che viene dal pensarsi da soli. Siamo un corpo, il noi. Solo l’amore può generare un corpo che è pensarsi insieme. Solo l’amore spinge a infrangere il resistente involucro dell’amore per noi stessi che ci fa prendere e non donare, possedere e non regalare, avere e non essere. Il cristiano e la Chiesa nascono quando apriamo il nostro cuore al vero altro che è Dio che ci spinge ad amarlo negli “altri”. E questa apertura può avvenire solo dall’interno, perché non possiamo essere obbligati. Anzi. La Chiesa nasce dallo Spirito, cioè dall’amore, che ci unisce e tiene assieme il corpo. Ecco il perché della partecipazione, che non è un dovere sempre meno gradito, che fa crescere la disaffezione per quello che è comune perché non lo capiamo, ci sembra estraneo o inutile. Al contrario la partecipazione è il senso di ogni parte del corpo, che è la Chiesa ma anche la città degli uomini. È come a casa: sono io nel resto e il resto è anche me.
La Chiesa vive nella città. Per vivere deve essere essa stessa unita, non chiusa e l’unità non è data dalla chiusura, perché la divisione entra lo stesso. È sempre una tentazione credere di proteggere la Chiesa chiudendola, pensando che così è sé stessa. La Chiesa è sé stessa quando si misura con Babilonia, è sé stessa quando annuncia il Vangelo di Gesù perché piena di Spirito, accettando però il confronto con la complessità e le contraddizioni della città. Se restiamo chiusi ci ammaliamo, spiegò Papa Francesco. C’è una divisione che viene dallo zelo ossessivo, a volte interessato altre volte mal riposto, che non crede alla grazia e fa coincidere aspetti esteriori a quelli interiori. La Chiesa è sé stessa quando è per strada, con il suo Signore. E non è sé stessa quando non è samaritana, quando come gli scribi e i farisei condanna e non salva o come il fratello maggiore non ha nessun interesse che “tuo figlio”, suo fratello, che non riconosce più, sia tornato a casa. “Fratelli tutti” ci dà un orizzonte grande, per essere cristiani e per aiutare la costruzione di una casa comune non di estranei o di nemici, con le guerre che la distruggono, ma di fratelli tutti che sono spiritualmente uniti e insieme difendono quest’unica stanza del mondo, così fragile. La città degli uomini ha tanto bisogno di pace. Se vuoi la pace prepara la pace ma, aggiungerei, a cominciare da te stesso. Non si è artigiani di pace se non si è lavorato nel proprio cuore, liberandolo da divisioni indifferenze, chiusure, deformazioni dell’amore per sé che diventa mettersi al centro. Se non è buono che l’uomo sia solo, vuol dire che nessuno è un’isola. E potremmo aggiungere: non è buono che viviamo la città come tante isole! Spesso la città diventa un deserto di relazioni e il territorio qualcosa da difendersi ad ogni costo. Di conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano semplicemente “quelli”. Riappare “la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità”. La Chiesa è nella vita! E per capire la città dobbiamo andare in periferia. Non è questione toponomastica. (EG97). “Ci sono periferie che si trovano vicino a noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia”. Può essere un cittadino con tutte le carte in regola, però lo fanno sentire come uno straniero nella propria terra. Il razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato. E questo lo vediamo nella solitudine, che rende inutile, senza valore la vita, per di più scartata da un mondo consumista. Non è solo economico! Lo siamo diventati materiasti e consumisti dentro, tanto che usiamo gli altri ma non li amiamo. Amare non la perfezione o l’immediato, ma l’altro per quello che è. Cerchiamo l‘amicizia sociale all’interno di una società perché questa è condizione di una vera apertura universale. Chi guarda il suo popolo con disprezzo, stabilisce nella propria società categorie di prima e di seconda classe, di persone con più o meno dignità e diritti. In tal modo nega che ci sia spazio per tutti. È la comunità di destino. Dio abita nella città ma dobbiamo saperlo riconoscere. Guardiamo la città con (EG71) sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. “La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso. Il cristiano è spirituale e materiale e per tutti difende la dignità della vita, dall’inizio alla sua fine”. Alla vita e non al dolore, vita sempre amata e curata.
Si è soliti guardare al nostro Paese con pessimismo. Non ci si sente rappresentati. Ci si esclude non facendo funzionare e non sentendo nostro il resto. Il rischio di un’Italia “senza2. La Costituzione italiana, all’art. 1, mette in rilievo il ruolo del lavoro per esprimere la cittadinanza e il proprio contributo al bene della Repubblica. La persona umana è caposaldo della dottrina sociale della Chiesa, ma è sempre in discussione. Le nuove e vecchie forme di povertà, lo sfruttamento lavorativo, il lavoro povero, la distanza tra il lavoro e la vita familiare, le morti sul lavoro ci dicono che un tema da attenzionare è proprio quello del lavoro. Non c’è differenza.
Non c’è divergenza tra lo sguardo sociale e quello spirituale e uno arricchisce l’altro, permette di vedere, proprio come i due occhi. La comunione eucaristica mi unisce alla persona che ho accanto, e con la quale forse non ho nemmeno un buon rapporto, ma anche ai fratelli lontani, in ogni parte del mondo. Da qui, dall’Eucaristia, deriva dunque il senso profondo della presenza sociale della Chiesa, come testimoniano i grandi Santi sociali, che sono stati sempre grandi anime eucaristiche. “Chi riconosce Gesù nell’Ostia santa, lo riconosce nel fratello che soffre, che ha fame e ha sete, che è forestiero, ignudo, malato, carcerato; ed è attento ad ogni persona, si impegna, in modo concreto, per tutti coloro che sono in necessità”. Dal dono di amore di Cristo proviene pertanto la nostra speciale responsabilità di cristiani nella costruzione di una società solidale, giusta, fraterna. Specialmente nel nostro tempo, in cui la globalizzazione ci rende sempre più dipendenti gli uni dagli altri, il Cristianesimo può e deve far sì che questa unità non si costruisca senza Dio, cioè senza il vero Amore, il che darebbe spazio alla confusione, all’individualismo, alla sopraffazione di tutti contro tutti. Il Vangelo mira da sempre all’unità della famiglia umana, un’unità non imposta da fuori, né da interessi ideologici o economici, bensì a partire dal senso di responsabilità gli uni verso gli altri, perché ci riconosciamo membra di uno stesso corpo, del corpo di Cristo, perché abbiamo imparato e impariamo costantemente dal Sacramento dell’Altare che la condivisione, l’amore è la via della vera giustizia.
La Chiesa e la città, pur essendo due realtà distinte, hanno bisogno l’una dell’altra. La compassione è la nostra lettura e anche il vero modo con cui si diventa contemplativi. È il nostro sguardo contemplativo. La provocazione di essere ospedale da campo, perché lì è la Chiesa, e di interrogarsi sul ruolo della città, su come esercitarlo, perché altrimenti questo finisce, avvicinarsi è un rischio, ma anche un’opportunità: per ognuno di noi e per la persona alla quale mi avvicino, per l’io e per la comunità alla quale ci avviciniamo. Non dividiamo mai sociale e spirituale. L’uno ha bisogno dell’altro, dall’Italia a “senza” all’Italia “con”. Insieme. E tutto trova la sua pienezza.