Card. Zuppi: la Chiesa può e deve essere segno di speranza

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Pubblichiamo l’Introduzione del Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, alla sessione primaverile dei lavori del Consiglio Episcopale Permanente (Roma, 18-20 marzo 2024).

Cari Confratelli,
in preparazione a questa sessione del Consiglio Episcopale Permanente, mi sono chiesto, come sempre, quale fosse la priorità da offrire alla nostra riflessione e condivisione. Ho trovato un’unica e chiara risposta: la pace. I conflitti di cui l’umanità si sta rendendo protagonista in questo primo quarto del XXI secolo ci mostrano la fatica di essere fratelli, abitanti della casa comune. Vediamo anche le conseguenze di “non scelte”, di rimandi colpevoli, di occasioni perdute. È la fraternità stessa a essere messa in dubbio, la possibilità di convivere senza dover competere o addirittura eliminare l’altro per poter vivere. E se è messa in discussione la fraternità, lo è sempre anche l’individuo! Possiamo ancora accettare che solo la guerra sia la soluzione dei conflitti? Ripudiarla non significa arrestarne la progressione o dobbiamo aspettare l’irreparabile per capire e scegliere? A Papa Francesco, di cui proprio domani celebreremo gli undici anni dall’inizio del Suo ministero petrino, vogliamo rinnovare l’augurio delle Chiese in Italia e assicurare la nostra preghiera, perché «il Signore Dio nostro, che lo ha scelto nell’ordine episcopale, gli conceda vita e salute e lo conservi alla sua santa Chiesa come guida e pastore del popolo santo di Dio» (Preghiera universale, Venerdì Santo). Lo stiamo incontrando durante le visite ad limina delle Conferenze Episcopali Regionali, occasione di confronto e mutuo ascolto anche con i Suoi collaboratori. In questo tempo di conflitti, di divisioni, di sentimenti nazionalisti, di odi, di contrapposizioni, il servizio della Chiesa per l’unità brilla come una luce di speranza. E tale servizio, che coinvolge i Vescovi e tutte le comunità, si fa proprio partendo dal ministero del Vescovo di Roma, il Papa. Pace è sicuramente una delle parole chiave del Suo Pontificato: siamo sempre più consapevoli che «per accogliere Dio e la sua pace non si può stare fermi, non si può stare comodi aspettando che le cose migliorino. Bisogna alzarsi, cogliere le occasioni di grazia, andare, rischiare. Bisogna rischiare» (Omelia, 1° gennaio 2023). L’impegno personale e di tutte le nostre comunità resta quello di essere “artigiani di pace”, tessitori di unione in ogni contesto, pacifici nelle parole e nei comportamenti, ammoniti anche a dire “pazzo” al prossimo, per imparare ad amare il nemico e renderlo di nuovo quello che è: fratello. Ascoltiamo la voce di quanti soffrono, delle vittime, di quanti hanno visto violati i diritti elementari e rischiano che le loro grida si perdano nell’indifferenza o nell’abitudine. In modo concreto e possibile a tutti vorremmo che questa scelta di essere operatori di pace sia anzitutto nella preghiera incessante e commossa, ma che diventi anche solidarietà. Ad esempio, con l’Ucraina, mediante la diffusa accoglienza per le vacanze estive ai bambini orfani o vittime – lo sono tutti – di quella catastrofe che è la guerra. In questa stessa prospettiva vivremo durante la prossima Assemblea Generale una giornata di preghiera, digiuno e solidarietà. Invitiamo le nostre comunità ad accompagnare già dalle prossime settimane questo nuovo momento di unione e vicinanza verso quanti stanno soffrendo per i conflitti in corso. Allo stesso tempo, rinnoviamo l’appello alla partecipazione alla “Colletta per la Terra Santa” che si raccoglie il Venerdì Santo.

La via per una pace giusta e sicura
Le parole del Santo Padre sulla pace sono tutt’altro che ingenuità. È sofferta e drammatica condivisione di un dolore che non potremo mai misurare. Viviamo un lunghissimo Venerdì Santo, quando si fece e si fa buio su tutta la terra e le tenebre cancellano la vita e ogni luce, a volte sembra anche la speranza e le stesse coscienze. La Chiesa è sempre Maria sotto la croce dei suoi figli: non può abituarsi al buio e crede alla luce anche quando ci sono solo le tenebre. L’empatia e la pietà femminili prevalgono su tutto, su ogni valutazione pur indispensabile relativa ad aggressori e aggrediti, a ragioni e torti. La vita viene prima di tutto. La Chiesa è madre e vive la guerra come una madre per la quale il valore della vita è superiore a ragionamenti o schieramenti lontani da questo. San Giovanni XXIII, un mese prima dell’inizio del Concilio, diceva: «Le madri e i padri di famiglia detestano la guerra: la Chiesa, madre di tutti indistintamente, solleverà una volta ancora la conclamazione che sale dal fondo dei secoli e da Betlemme, e di là sul Calvario, per effondersi in supplichevole precetto di pace: pace che previene i conflitti delle armi: pace che nel cuore di ciascun uomo deve avere sue radici e sua garanzia» (Radiomessaggio, 11 settembre 1962). In realtà sono le sole ragioni che possono portare alla composizione dei conflitti, a risolverne le cause, facendo trionfare il diritto e il senso di responsabilità sovranazionale. La storia esige di trovare un quadro nuovo, un paradigma differente, coinvolgendo la comunità internazionale per trovare insieme alle parti in causa una pace giusta e sicura. Proprio su questo versante gli Stati e i popoli europei, le stesse istituzioni dell’Unione europea, devono riscoprire la loro vocazione originaria, improntando le relazioni internazionali alla cooperazione attraverso – come affermava Robert Schuman nella Dichiarazione del 9 maggio 1950 – «realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Questa Europa vivrà a giugno una grande occasione di partecipazione popolare per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Facciamo nostro l’appello dei Vescovi europei che, in un recente documento sulle prossime elezioni, affermano: «Il progetto europeo di un’Europa unita nella diversità, forte, democratica, libera, pacifica, prospera e giusta è un progetto che condividiamo e di cui ci sentiamo responsabili. Siamo tutti chiamati a portarlo avanti anche esprimendo il nostro voto e scegliendo responsabilmente i deputati che rappresenteranno i nostri valori e lavoreranno per il bene comune nel prossimo Parlamento europeo».

L’impegno degli artigiani di pace
Vorrei offrire un’immagine da sfondo a queste considerazioni: quella di Giuseppe e dei suoi fratelli (Gen 37-50), una storia di prossimità originaria, di rivalità sino quasi alla morte, di inimicizia che cresce e diventa violenza se non sconfitta e, infine, storia di riconciliazione. Il racconto di Genesi inizia con un dato: «Questa è la discendenza di Giacobbe» (Gen 37,2). Le vicende che seguono dipendono da questa premessa: tutti i protagonisti, oltre e prima che fratelli tra di loro, sono figli di un unico patriarca. Dimenticare questa verità rischia di compromettere le relazioni tra pari. Cosa può voler dire questo oggi? In primo luogo, significa ricordare a noi stessi quella dimensione antropologica che ci accomuna come esseri umani. Fratelli tutti lo siamo già. Dobbiamo esserne consapevoli e imparare ad esserlo! In epoca di diffuso e smemorato individualismo non è poco! Siamo tutti bisognosi di essere riconosciuti nella nostra singolarità, unica e irripetibile. Ma perché questo avvenga c’è bisogno del noi, della comunità, di luoghi di relazione vera tra le persone, di quell’alleanza che diventa amicizia. Tutte le nostre realtà si devono misurare proprio con questo e devono diventare luoghi concreti di fraternità, esperienza di paternità e fratellanza.
In secondo luogo, per noi credenti significa tornare alla semplice fede in quel Dio Padre, che Gesù ci ha rivelato: il Dio che vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Tm 2,4), che ha mandato il Figlio non per condannare il mondo, ma perché sia salvato per mezzo di lui (Gv 3,17). La storia biblica di Giuseppe è piena di ingenuità e astuzie, sogni e delusioni, innocenza e violenza. È la storia degli uomini. Le tensioni familiari montano sino a quando il piano di eliminare il fratello viene deciso e poi non messo in atto (cf. Gen 37,18-28). Facilmente possiamo riconoscere tante situazioni nelle quali si sta pianificando l’eliminazione del fratello. Basta pensare ai conflitti in corso. Per tutti vogliamo rinnovare il nostro appello: pace! Riconosciamo in queste parole il saluto del Signore risorto. È una responsabilità perché questo annuncio possa incarnarsi in tutte le contraddizioni di questa nostra storia. Non possiamo rassegnarci a un aumento incontrollato delle armi, né tanto meno alla guerra come via per la pace. L’Italia – l’Europa no? – «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (Costituzione, art. 11).
I fratelli non avevano riconosciuto Giuseppe, pienamente integrato nella classe dirigente egiziana. Erano sospettati di aver approfittato di lui, rubandogli in casa. Giuseppe, per metterli alla prova, volle trattenere schiavo Beniamino. Ma ad un certo punto, dice la Genesi, «non poté più trattenersi» (Gen 45,1). C’è un momento in cui si deve rompere il muro dell’estraneità: «Io sono Giuseppe! È ancora vivo mio padre?» (Gen 45,3). I fratelli erano atterriti: nel potente egiziano, che aveva in mano la loro vita, riemergeva il fratello con il quale non sapevano parlare amichevolmente e che volevano uccidere. La chiave è l’invito di Giuseppe: «Avvicinatevi a me» (Gen 45,4). Due mondi diversi si avvicinano. Sono fratelli. La prima domanda è: «È ancora vivo mio padre?». Una radice comune: il padre. È da lì che si deve ripartire. C’era stata una terribile carestia. Dalla crisi, si esce riscoprendosi fratelli, altrimenti si diventa concorrenti e nemici. È questo il primo passo di una rinascita. Che bisogno aveva Giuseppe di quei fratelli traditori? Invece fiorisce la fraternità. Giuseppe spiega: «Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione» (Gen 45,7). Anche lui ricomprende la sua vicenda e la sua sofferenza. «Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui» (Gen 45,15). La fraternità ritrovata fa rifiorire la conversazione che prima sembrava impossibile. Deve essere questa la nostra incessante intercessione, l’impegno di tanti artigiani di pace che speriamo ispirino degli architetti che costruiscano una pace giusta e sicura.

Fraternità e sinodalità scorrono insieme
Il Cammino sinodale delle Chiese in Italia sta consentendo di chiarire a noi stessi la bellezza e la precarietà di un processo che viviamo per le strade della nostra società. Quando si sta fermi in casa, si gode di una certa comodità, si pensa di capire tutto ma in realtà non si capisce il mondo e, quindi, neanche se stessi, si finisce per riempirsi di ossessioni e si dimentica cosa ci è chiesto. Le sfide in atto possono essere affrontate solo nella consapevolezza di questo cammino, tra il “già” e il “non ancora”, liberandoci da amarezze, consapevoli della responsabilità e alla ricerca di un senso. Questo – non va mai dimenticato – per i cristiani è una persona: il Crocifisso Risorto. La lettura dei materiali ricevuti dalle Diocesi italiane ha rilevato entusiasmo, energia, pazienza, disponibilità, ascolto, ma anche le difficoltà, le disillusioni, la tentazione di accontentarsi di definire, le paure, l’indifferenza, le resistenze ad avviare tale processo. Se da un lato si percepisce una crisi della partecipazione alla vita della comunità, dall’altro si desidera un luogo familiare dove potersi coinvolgere. Nella prima fase del Cammino abbiamo imparato che, quando si mettono in ascolto, i cristiani diventano ospitali, aprono la loro casa per ristorarsi e ristorare alla mensa della parola e del corpo di Gesù. Con la Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari collocarono la Chiesa nel mondo e in rapporto con il mondo non per occupare spazi, non per gestire poteri, ma come espressione «di solidarietà, di rispetto e d’amore verso l’intera famiglia umana» (GS 3). Queste parole costituiscono una svolta epocale: una Chiesa nel mondo anziché una Chiesa contro il mondo, una Chiesa che si apre al dialogo anziché una Chiesa che si chiude sentendosi assediata. Ascoltando le voci delle Diocesi si percepisce una debolezza che sembra investire questioni come il posto dei poveri all’interno della Chiesa e la valorizzazione del loro apporto, il dialogo con la cultura, i rapporti ecumenici e interreligiosi, l’interlocuzione con i mondi dell’economia, delle professioni, della politica, ma anche l’apporto della vita consacrata. In alcuni casi non sono nemmeno menzionati, in molti segnalano la difficoltà o la rarità di esperienze significative, o la frustrazione di un desiderio che non riesce a concretizzarsi quanto si vorrebbe, o anche la constatazione del fatto che “si vorrebbe, ma non si sa da che parte cominciare”. È tempo di tradurre l’ascolto in scelte di governo, chiare, lungimiranti, che permettano al nostro Cammino di avere un’incidenza effettiva e una corresponsabilità che permei la Chiesa ai vari livelli. Ne abbiamo l’opportunità. La sinodalità deve significare modi e forme concrete di vita comune, semplici, vere, esigenti e umanissime, personali e comunitarie, perché la Chiesa sia comunità, servizio, relazione, amore per la Parola e per i poveri, luogo di pace e di incontro. La sinodalità deve essere accompagnata dalla freschezza della fraternità, vissuta più che interpretata, offerta più che teorizzata, nella vita e non in laboratorio, capace di rivisitare e animare i nostri ambienti. Fraternità non virtuale, simbolica ma reale, con la fatica di riconoscerci nei fratelli così come essi sono, non come li immaginiamo noi. La nostra è una fraternità sempre segnata dal peccato, ma resa pura perché nella creta viene versato il tesoro del suo amore. Fraternità e sinodalità scorrono insieme.

Il dibattito non fa paura
Si parla e si scrive sulla Chiesa, quella in Italia, il suo futuro, le difficoltà, i problemi. Non nascondo che mi appassiono molto di più alle pagine scritte con tanto amore e dono di sé da ogni cristiano e da ogni comunità che cerca, come può, di essere luce in un mondo troppo buio. Un aspetto toccato, a volte con valutazioni opposte, è la diminuita rilevanza e consistenza della Chiesa. Per qualcuno è prova di scelte sbagliate, per altri effetto di scelte non compiute, per altri ancora constatazione angosciata di scelte da compiere. Il dibattito non ci fa paura. Anzi, abbiamo più volte invitato, anche nel Cammino sinodale, a interrogarsi in maniera larga e consapevole sulla missione della Chiesa oggi in Italia, di fronte al futuro complesso e incerto del nostro mondo. E a farlo nel dialogo, tra tanti cristiani, in maniera popolare come è avvenuto e non nelle polemiche digitali, sterili, polarizzate, di convenienza.
Non si può gestire il presente con una cultura del declino, quasi si trattasse solo di mettere insieme forze diminuite, di ridurre spazi e impegno o di agoniche chiamate al combattimento. Riandare nostalgicamente al passato non è fare storia, perché questa ha una robusta connessione con il senso del futuro. Guardare al passato è una tentazione facile con l’avanzare dell’età, forse facile in un Paese anziano come l’Italia o in una Chiesa dove non poche persone sono avanti negli anni. Sì, guardare continuamente con nostalgia al passato è espressione di una senilità ecclesiale, quella che San Giovanni XXIII descriveva in questi termini: «Voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa» (Discorso, Solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).
È la tentazione della nostalgia di una presunta età dell’oro, quella prima del Concilio per taluni, dopo il Vaticano II per altri. Ma nella Chiesa non c’è mai una mitica età dell’oro. I credenti non possono guardare al passato e lamentarsi del presente della Chiesa o di quello del Paese. La Chiesa viene da una lunga storia, per certi versi ne è segnata, ma – radicata nel presente – guarda al futuro con speranza. Nella lettera per il Giubileo del 2025, il Papa scrive: «Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Il prossimo Giubileo potrà favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza. Per questo ho scelto il motto Pellegrini di speranza» (Lettera a S.E. Mons. Rino Fisichella per il Giubileo 2025, 11 febbraio 2022).
Bisogna ricomporre un clima di fiducia e di speranza nella nostra Chiesa, liberarsi da amarezze e renderle impegno, progetto, esperienza. La Chiesa può e deve essere, vivendo così, un segno di speranza nella società italiana. Questo clima di fiducia dipende da ogni credente e da noi, pastori, insieme, collegialmente, sinodalmente, in comunione piena con il primato di Pietro, da difendere e amare sempre.
Sono illuminanti le parole di Papa Benedetto nell’Enciclica Spe salvi: «La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova» (n. 2). Sì, chi ha speranza vive diversamente! Nella debolezza delle nostre risorse, noi vediamo una forza, come insegna l’apostolo Paolo. La nostra Chiesa in Italia non è invecchiata tanto da non poter generare! Del resto il tema della “sterilità guarita” accompagna non poche pagine della Bibbia. La nostra Chiesa genera e può generare figlie e figli credenti nel Signore. La nostra Chiesa non deve conservare i resti del passato o, al contrario, correre dietro la banalità del pensiero comune (un tempo lo avremmo chiamato conformismo!), ma generare figli e figlie di Dio, con l’umile servizio all’altro e con la costruzione di comunità, di relazione, di interessi comuni. Solo se pieni del suo amore, forti del suo Spirito, lo potremo fare! È quanto Papa Francesco ci ha voluto dire fin dall’inizio del Suo ministero, con l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, quando ha ricordato che la Parola seminata con generosità cresce con forza: «La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (n. 22).

Segnali che preoccupano e interrogano
Se così compreso, il nostro camminare insieme trova riflesso nella società. «La Chiesa “in uscita” – ha affermato Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium – è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano» (n. 24). Per questo, ci sentiamo pienamente coinvolti dalle sorti dei nostri territori.
In tal senso, suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi. Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale. Su questo versante, la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile, nella consapevolezza che «il Paese non crescerà, se non insieme», come peraltro già ricordato in passato (Cf. «La Chiesa italiana e le prospettive del Paese», 1981).
Nella stessa misura ci interpellano i segnali che giungono, in modo inedito, dal mondo giovanile. Non dimentichiamo che ha sofferto più di altre generazioni le conseguenze psicologiche e sociali della pandemia e mostra ora diversi sintomi di un disagio esistenziale segnato da un futuro avvolto nell’incertezza e da un presente avaro di punti di riferimento. La Chiesa in Italia avverte questa fatica dei ragazzi e dei giovani e desidera farsi carico della loro attesa di sentirsi ascoltati e capiti nelle istanze, nei sogni e nelle sofferenze che esprimono in forme non sempre lineari ma che vanno accolte come segnali per ritrovare il filo di un dialogo. La loro è una presenza in continuo cambiamento che esprime domande profonde e una ricerca di autenticità e di spiritualità cui occorre offrire una risposta credibile, non vittimista ma vicina, non precaria ma stabile, sapendo andare oltre incomprensioni, pregiudizi e schemi interpretativi non più attuali. Di tutto ciò parleremo in queste giornate, sollecitati da una recente ricerca dell’Istituto Toniolo.
Pensiamo, poi, agli anziani: negli ultimi anni la loro condizione è diventata una vera e propria emergenza. L’Italia è tra i Paesi più longevi al mondo e questo ha diverse conseguenze: l’avanzare dell’età è spesso inversamente proporzionale alla capacità di svolgere le attività quotidiane in autonomia, tanto da rendersi necessario un supporto esterno. Per gli anziani e le loro famiglie questo significa iniziare un iter faticoso e complesso per capire a quali servizi si può accedere e a chi ci si debba rivolgere per ricevere risposte a tanti interrogativi. La pandemia ha portato alla luce la situazione di scarsa assistenza e di solitudine in cui vivono milioni di anziani. Serve un nuovo welfare, che sostenga questa grande fascia della popolazione, soprattutto quella non autosufficiente. In quest’ottica, è necessario continuare a lavorare – società civile, enti ecclesiali e Istituzioni – per concretizzare la riforma delineata con la Legge Delega del marzo 2023 e a non tradire le attese di persone, famiglie e operatori.
Guardiamo, infine, con apprensione alla tematica del fine vita. Ogni sofferente, che sia in condizioni di cronicità o al termine della sua esistenza terrena, deve sempre essere accompagnato da cure, farmacologiche e di prossimità umana, che possano alleviare il suo dolore fisico e interiore. Le cure palliative, disciplinate da una buona legge ma ancora disattesa, devono essere incrementate e rese nella disponibilità di tutti senza alcuna discrezionalità di approccio su base regionale, perché rappresentano un modo concreto per assicurare dignità fino alla fine oltre che un’espressione alta di amore per il prossimo. La piena applicazione della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, inoltre, è ulteriore garanzia di dignità e di alleanza per proteggere la persona nella sua sofferenza e fragilità. 

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Giovanni XXIII, che si ispirava a Giuseppe, di cui portava il nome assieme a quello di Angelo, amava presentarsi come lui: «Ego sum Ioseph, frater vester», dice all’inizio del Suo pontificato. Per dire che il legame della fraternità era il più forte e che andava perseguito mettendo al centro quello che unisce. Parlando del Papa e della fraternità nel notissimo Discorso alla luna, aggiungeva: «La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato Padre per la volontà di Nostro Signore, ma tutt’insieme: paternità e fraternità e grazia di Dio, tutto, tutto! Continuiamo, dunque, a volerci bene, a volerci bene così, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro, cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte quello – se c’è – qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà. Niente: Fratres sumus!» (11 ottobre 1962).
Affidiamo le nostre riflessioni e il lavoro di questi giorni alla protezione della Vergine Maria e del suo sposo, Giuseppe, patrono della Chiesa universale, custode che ci insegna l’essenzialità del servizio, che avremo modo di festeggiare domani. Per loro intercessione invochiamo il dono della pace.