Pubblichiamo l’omelia pronunciata dal Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, che il 23 agosto ha presieduto la Santa Messa in occasione del centenario del martirio di don Giovanni Minzoni.
La Parola di Dio “conta i passi del nostro vagare” e li illumina, come oggi in questa importante e cara memoria di un cristiano e di un sacerdote, don Giovanni Minzoni, nel centenario del suo barbaro assassinio. Ci parla di odio e delle conseguenze delle nostre scelte. Il mondo non ci odia quando ci parliamo addosso, tiriamo verità ridotte a pietre che non colpiscono nessuno, quando svuotiamo di libertà e forza l’amore chiesto dal Vangelo, riducendolo a terapia per un “io” che cerca di ridurre a fatto privato anche Dio. Il mondo odia la luce e così la teniamo nascosta, sotto il moggio, con una vita spenta di amore. L’apostolo, però, è chiarissimo: chi non ama rimane nella morte. L’amore si riconosce “nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi”. Chi ama non usa, non possiede, non gioca con le parole e con i sentimenti, non si esibisce, non si accontenta di dichiarazioni facili ma dona tutto, come Gesù, l’amato che ama e ci insegna ad amare. L’amore non è mediocre, perché è dare la vita. Gesù ci chiede di farlo per tutti perché il prossimo non è una categoria o un numero chiuso e l’amore rende tutto prezioso e bello. Ama tutti, certo, ma sempre dalla parte della persona, contro chi odia. Non si conciliano l’odio e l’amore! L’amore è tutt’altro che un sentimento vago, etereo, psicologizzato, talmente soggettivo da diventare un labirinto, che fornisce rassicurazioni senza sforzo. Esso si misura con le relazioni e gli incontri di ciascuno, con le domande che il mondo ci pone. Siamo amici, quindi liberi, non servi, che non possono fare altro. Il Maestro non impone, perché cerca amore, non oggetti da usare. Ama per primo, non offre istruzioni per l’uso o regole cui obbedire, ma amore da accogliere e vivere. Ecco, è solo questo amore che spiega le scelte e la testimonianza di don Minzoni, prete appassionato, amante della Patria, pastore creativo e fedele, uomo di preghiera e attento ai problemi concreti che aveva imparato ad affrontare in quella scuola di amore che fu la scuola sociale di Bergamo, con un’attenzione preferenziale per i poveri e i piccoli. A questo si deve aggiungere il suo impegno cristiano per sostenere il Partito Popolare.
Giovanni Paolo II, incontrando i Vescovi della Regione Emilia Romagna il 23 settembre 1990 presso la tomba di don Minzoni, proprio in questo Duomo di Argenta, descrivendo i preti uccisi prima, durante la II Guerra mondiale – e aggiungerei anche dopo – affermò che essi confessavano “un amore più grande di loro: lo stesso amore assoluto con cui Dio li aveva amati”. E aggiunse: “Il dono d’una fedeltà senza riserve alla propria missione don Minzoni l’aveva chiesto come grazia della prima Messa. Di due cose era convinto: che accettando di accorciare la vita per amore di Cristo avrebbe pagato sempre meno di quanto Dio aveva pagato per lui, e che accorciare la vita per amore dei suoi – prima i suoi soldati al fronte, i suoi ragazzi e la sua gente poi – era la via più sicura per raggiungere il perfetto amore di Dio, realizzando al massimo il suo sacerdozio”. Il suo sacerdozio, sottolineò ancora Giovanni Paolo II, “non sopportava separazione tra l’amore di Dio e la cura pastorale dei fedeli”. È morto per amore, perché per amore di Dio e del suo popolo ha affrontato il male, difeso il Vangelo e donato la vita, consapevole dei rischi. Posto di fronte alla stretta finale, rispose: “Sono pronto a morire”. Questa è la libertà del cristiano e del testimone, cioè del martire, che non è un eroe, ma una persona che ama più delle sue paure e che non teme di entrare in conflitto con le ideologie totalitarie e neopagane, evidenti o nascoste, con chi calpesta la persona, qualsiasi essa sia, ovunque e sempre. Il cristiano, che impara ad amare perché ama Cristo ed è amato da Lui, distingue il peccato dal peccatore e non combatte il secondo pensando così di contrastare il primo, ma ama il peccatore proprio perché solo amando combatte il peccato.
Don Giovanni Minzoni non ha mai rinunciato a essere pastore di tutto il popolo, anche dei più distanti. Non c’erano lontani per lui. Proprio per l’amore cristiano è stato ucciso. Ci possiamo chiedere: in odium caritatis o in odium fidei? Nella realtà, carità e fede sono sempre intimamente unite, poiché una alimenta l’altra. Sempre San Giovanni Paolo II disse, parlando proprio di don Minzoni e di quegli altri preti, “che fecero vedere come sanno morire i preti”, che “spesso non è comandato di rinnegare direttamente la fede, ma l’amore cristiano: non di dissociarsi da Dio, ma dall’una o dall’altra porzione del gregge, rinunciando ad essere pastore di tutto il popolo”. È il vero rischio: svuotare l’amore. Per don Minzoni amore significava impegno di annuncio del Vangelo, legame con la sua comunità, “battaglie” sociali per proteggere le persone, a partire dai più poveri. Egli fu martire dell’amore per la sua comunità, parroco senza riserve che volle una comunità parrocchiale aperta e sbilanciata sulla carità. Prendeva sul serio la parola del Vangelo e l’Eucaristia, la preghiera quotidiana che lo sosteneva e le sfide sociali che lo coinvolgevano, perché è proprio vero che chi prega “supera la paura e prende in mano il proprio futuro”. Nell’infamia del sospetto e delle accuse ad arte fatte crescere per isolarlo dalla Chiesa e da tutto il popolo, si disse che “faceva politica” e che quindi in fondo se l’era cercata. Se è così il cristiano se la cerca sempre perché chiamato a un amore incarnato, nella storia, senza limiti; perché chiamato a un amore, che Papa Francesco chiamerebbe politico, libero da ogni ideologia e da quegli “ismi” che intossicano i cuori, a iniziare dal primo, il più banale e pericoloso: l’egoismo. Il suo amore per il Vangelo e per la sua comunità diventò amore politico, promuovendo l’Unione professionale, la cooperativa agricola cattolica, la cassa rurale. Per don Minzoni mettere in pratica il comandamento dell’amore significò educazione, cioè la creazione di un oratorio per i ragazzi e i giovani disorientati del Dopoguerra, alla ricerca di un “padre” e di valori stabili, evangelici, trascendenti, ben oltre le ideologie circolanti. Da questa carità educativa fece sgorgare il suo impegno per la nascita e la crescita dell’Azione Cattolica prima e poi dello scoutismo per i ragazzi e i giovanissimi, come anche una attenzione speciale alla formazione delle donne, inventando forme di catechesi per gli adulti e per la famiglia, organizzando la pastorale giovanile, avviando il doposcuola, la biblioteca circolante, il teatro, il cinema. Don Minzoni è stato ucciso dalla violenza fascista e dalle complicità pavide di chi non la contrastò. Fascismo, che assume colori diversi, sistemi e burocrazie di ogni totalitarismo e diversi apparati, significa il disprezzo dell’altro e del diverso, l’intolleranza, il pregiudizio che annienta il nemico, il razzismo raffinato o rozzo che sia, la violenza fisica che inizia sempre in quella verbale e nell’incapacità a dialogare con chi la pensa diversamente. Minzoni lo affrontò senza compromessi, opportunismi, convenienze. Per questo era e rimane una sentinella del mattino che nella notte continua a farci credere nella luce.
Ricordo tre episodi che decretarono probabilmente la sua condanna a morte e che ci mostrano la sua passione evangelica e sacerdotale. Celebrò i funerali di un assessore socialista ucciso dai fascisti, durante i quali condannò l’omicidio come mostruoso cinismo, viltà e settarismo. Scrisse una fermissima lettera dopo che i fascisti avevano impedito una processione degli scout verso il santuario della Celletta, nella quale indicò i veri nemici della Chiesa “nei paladini dell’ordine, nei moralisti della disciplina che ostentandosi combattono l’opera dei parroci o meglio del Papa”. Infine il 9 agosto, pochi giorni prima quindi dell’assassinio, ebbe una discussione pubblica con il gerarca Balbo che aveva minacciato dure sanzioni se non si fosse sciolta l’associazione scoutistica perché questo era l’ordine del Duce. Minzoni rispose che prendeva ordini solo dal Papa e che i suoi ragazzi sarebbero rimasti uniti in nome di Dio per il loro e unico vero bene che non era quello di imparare a usare i fucili. Pochi giorni prima della morte disse: “Ci prepariamo alla lotta tenacemente e con un’arma che per noi è sacra e divina, quella dei primi cristiani: preghiera e bontà. Ritirarmi sarebbe rinunciare a una missione troppo sacra. A cuore aperto, con la preghiera che spero mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo. La religione non ammette servilismi, ma il martirio”. Cioè, amore. Papa Francesco, istituendo la “Commissione dei Nuovi Martiri”, ha scritto: “I martiri […] hanno accompagnato in ogni epoca la vita della Chiesa e fioriscono come ‘frutti maturi ed eccellenti della vigna del Signore’ anche oggi”. Don Giovanni Minzoni è parte di questa luminosa schiera di amici di Dio e ci insegna la forza dell’amore cristiano che non teme l’odio del mondo, seme di vita che non finisce, amico di Cristo, mai servo di idoli e ideologie, ma fratello dei più piccoli, attento a costruire quel mondo dove tutti sono fratelli.