Card. Bassetti: guardiamo al futuro aprendoci alla speranza

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“Possiamo andare incontro al futuro soltanto in un modo: aprendoci alla speranza, perché questa non è un pio desiderio, ma la concretezza della nostra vita e c’è un Dio che ci tiene per mano, che non ci abbandona, che ha scritto il suo nome nella nostra mano, che a un certo momento ci prende e ci solleva alla sua guancia perché tu lo possa accarezzare, ha bisogno delle nostre carezze”. Lo ha detto il Cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, in un’intervista concessa ad Alberto Savorana, responsabile dell’ufficio stampa e pubbliche relazioni della Fraternità di Comunione e Liberazione, a conclusione della 40^ edizione del Meeting dell’amicizia tra i popoli di Rimini. Nel suo intervento, il Cardinale Bassetti ha ricordato il piccolo Gioele: “la morte di questa piccola creatura – ha sottolineato – ha fatto rabbrividire gli astri del cielo, ma il sublime, e questo lo sento profondamente dentro, era con lui e l’accarezzava”.

Eminenza, ha parlato della pandemia improvvisa e sconvolgente come un fatto che ci interroga soprattutto sull’oggi. Tutti ovviamente ci siamo sentiti accomunati da questa circostanza, nessuno escluso, e papa Francesco ce lo ha ripetuto più volte, soprattutto in quella sera drammatica di venerdì 27 marzo: lui solo ad abbracciare il mondo intero in piazza San Pietro. Cito: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati”. La tempesta ha smascherato la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini, le nostre priorità. E allora le domando: qual è stata la sua riflessione sugli effetti prodotti da questo che lei ha chiamato “un nemico invisibile”?

Da principio anch’io ho sofferto quel momento di sconcerto, come quando ci si trova di fronte a un pericolo, ad un nemico più grande, e quindi il primo senso che si prova interiormente è il disorientamento. Poi, siccome sono un credente, ho sperimentato la forza dell’abbandono e della fiducia in Dio per chiedere a Lui la forza. Certamente, quel gesto del Papa la sera del 27 marzo è già inscritto nella storia dell’umanità: un’umanità fragile e sola – come solo era quell’uomo che saliva verso il crocifisso, l’unico modo per poter ricevere un conforto da donare ai fratelli. Il Santo Padre ha ricordato che siamo tutti fratelli – “sulla stessa barca” – fragili ma uniti. Da qui l’invito a non avere paura. La morte, la sofferenza, la fragilità, anche se non sperimentate direttamente, hanno unito tutta l’umanità. Come ha detto il Papa, speriamo che questo virus, che è stato capace di mettere in crisi tutte le nostre sicurezze, tutti i nostri punti di riferimento, non si trasformi in un grande virus che potrebbe essere quello di chiudersi in se stessi e leccarsi le proprie ferite. Il virus, che è così dannoso, potrebbe diventare ancora più dannoso se noi ci chiudiamo in noi stessi. Purtroppo questo è accaduto in un momento già molto critico: dal 2011 siamo in una crisi economica di cui in fondo non abbiamo ancora visto una via sicura di uscita.

Quando avviene qualcosa che è più grande di noi, si deve sempre dare la colpa a qualcuno. Ricordate gli untori del Manzoni: ecco, per qualcuno magari l’untore era diventato un governo che poteva avere scatenato tutto questo, per altri potevano essere le multinazionali… Si rischia sempre di gridare agli untori e ci siamo resi conto, invece, che facendo questo noi perdevamo l’unico punto di riferimento indispensabile nella nostra vita, ovvero il rapporto col Padre. Pensavamo che la vita fosse una specie di vitello d’oro e ci siamo resi conto che tutto – la carriera, il successo, i soldi… – è molto labile e che un virus può davvero mettere in crisi un intero sistema, il mondo intero.

Ecco allora che è necessario, come ci richiama il Papa, cominciare a concepire la vita in maniera diversa, renderci conto che siamo in un cambiamento d’epoca e che nessuno di noi sa quale sarà il futuro. Noi sappiamo che possiamo andare incontro al futuro soltanto in un modo: aprendoci alla speranza, perché questa non è un pio desiderio, ma la concretezza della nostra vita e c’è un Dio che ci tiene per mano, che non ci abbandona, che ha scritto il suo nome nella nostra mano, che a un certo momento ci prende e ci solleva alla sua guancia perché tu lo possa accarezzare, ha bisogno delle nostre carezze. I profeti ci parlano di questa tenerezza di Dio. Questo è il momento grande del Padre, della Provvidenza. Diceva un grande santo di Firenze che dopo la guerra aveva accolto più di mille orfani: la Provvidenza di Dio ti fa tribolare ma, giorno per giorno, la sperimenti. Dobbiamo abbandonarci con intelligenza a questa Provvidenza con tutto quello che abbiamo, con le nostre capacità, doni, virtù.

Ha parlato di cambiamento d’epoca che la pandemia ha reso ancora più evidente; di recente, ha usato toni forti per descrivere questa situazione, parlando di crisi di civiltà e cambio di mentalità collettiva con un’attenzione al contesto in cui l’uomo si trova vivere e, quindi, anche il cristiano. Quali dati, quali fattori identifica di questo cambiamento d’epoca, di questa crisi di civiltà, perché tutti ne diventiamo più consapevoli?

Già san Giovanni Paolo II aveva detto che l’uomo moderno ha tolto la “D” a Dio, sostituendoLo con il proprio io. C’è il rischio di un individualismo esasperato, c’è il pericolo dell’affermazione di un utilitarismo per cui tutto ciò che non è utile per vivere qui e ora, è scartato e gettato alle ortiche.

Noi cristiani non accettiamo più tutto quello che Gesù Cristo, il Vangelo, la Chiesa ci propongono; abbiamo fatto del cristianesimo un armadio dal quale, volta per volta, prendiamo ciò che è più comodo. Per tanti di noi, il cristianesimo è ridotto a un armadio dal quale prendiamo soltanto ciò che è utile e questa appunto è la mentalità per cui il mio desiderio, i miei desideri, diventano ciò che per me è giusto. Questa è una mentalità molto pericolosa; è un delirio di onnipotenza dell’uomo moderno: ogni desiderio diventa un diritto o una rivendicazione. Per questo, finché c’è tempo, bisogna fare un passo indietro. San Paolo VI diceva che solo Cristo ci è necessario. Non guardiamo ciò che può essere più utile per noi nell’immediato, solo una cosa è necessaria: Cristo. Tutte le cose hanno il loro fondamento in Cristo e senza Cristo non è che ci sia qualcosa che luccica, non c’è nulla. Gesù ci dice: senza di me non potete fare nulla.

All’inizio di marzo, ha lanciato un appello ai cristiani in Italia invitandoli a una giornata di preghiera, sottolineando che la preghiera è il primo contributo che la Chiesa ci chiede. Assecondando questo suo invito, pochi giorni dopo, in una lettera a tutti gli amici della Fraternità di Comunione e Liberazione, Don Carron ha scritto proprio quello che Lei ha appena accennato e cioè che in questo momento di grande difficoltà il nostro sì a Cristo, la nostra preghiera a Cristo, è il primo contributo che possiamo dare alla salvezza del mondo. In quelle settimane in cui ci sarebbe stato tanto da fare, questo invito alla preghiera non era un po’ troppo poco come qualcuno anche tra i cristiani ha detto?

Dobbiamo metterci in testa che se vogliamo essere dei credenti coerenti, non possiamo contribuire a tanta inutilità che c’è nel mondo con le nostre pretese parziali e con i nostri egoismi piccoli e grandi. Ci vuole un grande colpo d’ala. La preghiera è il più grande atto di carità che si possa compiere nei confronti del nostro prossimo; le opere sono fondamentali, sono importantissime, ma quando io vado a trovare qualche mio prete che sta sulla carrozzella ed è completamente immobile, non può far nulla, non riesce nemmeno ad esprimere qualche parola e prega dalla mattina alla sera, vedo in quell’uomo un Mosè che sta sul monte. Due anni dopo che ero prete, fui mandato al seminario minore di Firenze e io non ci volevo stare, non ci campavo. Prima avevo una grande parrocchia dove avevo fatto il cappellano, in seminario mi sembrava veramente di soffocare con 15-20 adolescenti. Andai a confessarmi da un cappuccino che mi chiese quante ore al giorno pregassi. Io mi sentii rabbrividire perché con la messa, un po’ di meditazione, un po’ di breviario potevo arrivare a un’ora e mezzo. Lui mi rispose: io sono stato 58 anni missionario in India e tutti i giorni facevo 3 ore di adorazione, mi è capitato di costruire anche la Cattedrale di Nuova Delhi; era molto amico di Ghandi che è stato a pregare tutta la vita ed è stato l’unico che, senza i cannoni, ha liberato l’India. La Pira, in un comizio, disse tirando fuori la corona: questa è più potente della bomba atomica. Non era un prete o un frate, ma un sindaco che parlava in questo modo e aveva capito che la preghiera è la forza che muove. Poi ci vogliono le opere buone, chinarsi sui fratelli, però se hai un cuore che è posseduto da Dio, diceva Don Barsotti, per forza ti chini sugli altri perché è Lui che ti fa chinare sugli altri.

Dalle colonne di “Avvenire”, recentemente ha annunciato una grande iniziativa della Chiesa in Italia nel segno della speranza e per aiutare il popolo alla ripartenza. E lo ha annunciato come una proposta, un’offerta, un contributo che si sente di dare alla vita di tutto il nostro popolo. Ci può accennare brevemente qualche elemento di questa proposta, di questo documento?

È la grande iniziativa del Mediterraneo che ho mutuato dalla mia vicinanza al professor La Pira. Quando negli anni Cinquanta si stava delineando in tutto il suo pericolo la guerra fredda, lui convocò i sindaci di tutto il mondo e poi fece un’iniziativa proprio sul Mediterraneo. Io mi sono convinto che il Mediterraneo ha una vocazione particolare. Sulle 28/30 civiltà che ci sono state sulla terra che noi conosciamo, una ventina sono nate attorno al Mediterraneo. Dunque, c’è un progetto di Dio sul Mediterraneo: Abramo è un mediterraneo, Gesù Cristo è un mediterraneo, gli apostoli sono mediterranei, san Francesco e Benedetto, che hanno portato il cristianesimo in Europa, sono mediterranei. D’accordo col Papa, mi sono sentito di invitare tutti i presidenti delle Conferenze episcopali del Mediterraneo per un bellissimo convegno che è finito domenica 23 febbraio, pochi giorni prima del lockdown. Questi vescovi sono venuti, ci siamo incontrati, ci siamo conosciuti, abbiamo potuto dirci quali sono i nostri problemi, quanto è importante vedere certi problemi non solo con i nostri occhi miopi, ma anche con il respiro di tutta una Chiesa mediterranea che nasce dal seno di Abramo. Appena sarà possibile, non rifacendo un convegno, ma con gemellaggi vogliamo condividere il nostro essere Chiesa mediterranea. Il Papa stesso è venuto e ha fatto un discorso non solo di incoraggiamento, ma programmatico in questo senso.

Una delle parole chiave di quell’incontro è senz’altro, oltre alla conoscenza, quella del dialogo. Il compianto cardinale Tauran, che è stato uno dei profeti in questo dialogo con i mondi del Medio Oriente, diceva che siamo condannati al dialogo, per sottolineare l’assoluta necessità di questo modo di rapportarsi con l’altro nell’epoca dell’individualismo sfrenato. Perché è così urgente soprattutto oggi, quando tutto tenderebbe a distanziare l’uno dall’altro?

Proprio perché tutto tende a distanziare; anche i mezzi di comunicazione invece di unirci dividono. Papa Francesco ci ha creduto, fino in fondo, ad Abu Dhabi, nella firma di quel documento, dove sono trattati tutti i principali problemi del mondo, ma anche dell’etica umana, dell’antropologia. È importante che sia stato firmato dal Santo Padre e dal Grande Imam di Al-Azhar: questo è il dialogo di cui parlava il cardinale Tauran. Il dialogo è importante perché tu devi accogliere l’altro, capirlo, ascoltarlo, metterti nei suoi panni.

Dopo la preghiera, l’appello alla testimonianza non è anch’esso un po’ poco rispetto alle grandi strategie che uno immaginerebbe per uscire da questa situazione di pandemia, dai grandi conflitti? Può la testimonianza di uno, di qualcuno, avere la forza, l’energia, la tenuta per innescare un cambiamento nel mondo?

No, ci vuole una marcia in più. La testimonianza si può dare in tanti modi anche facendo del bene, anche rispettando gli altri, ma non basta. Gesù ci chiede di più: la testimonianza è una luce, è la luce del Verbo che illumina ogni uomo che viene nel mondo. La vera testimonianza costa sempre lacrime e sangue. Proprio in queste settimane abbiamo celebrato il martirio di Massimiliano Kolbe che finì la sua vita quando gli fecero la puntura letale dicendo: ciò che conta non è vivere, ciò che conta è amare, è l’amore. E l’amore vero che arriva anche a dare la vita è il massimo della testimonianza.

Con un’espressione simile, il grande teologo Hans Urs von Balthasar diceva, a conclusione di un suo testo, come giudizio sulla situazione dell’uomo contemporaneo: per il mondo, solo l’amore è credibile. Cioè, solo questo sguardo di tenerezza portato sull’altro può muovere in qualche modo l’uomo di oggi. Entrando ancora di più sul tema della dinamica del dono che è il titolo di questo nostro dialogo, le vorrei chiedere di reagire a una espressione di Don Giussani. Lo cito: la carità è un dono di sé commosso, la legge dell’io è una sola: amare. Dio, che è la fonte dell’essere, ha una sola dinamica descrivibile esclusivamente come dono di sé, commosso. Così noi siamo fatti parte, siamo fatti a cedere, appena appena, sulla soglia del grande mistero che fa tutte le cose, il mistero del Dio padre che ama generando il figlio, facendo scaturire in questo rapporto la realtà dello spirito che è identica a ognuno di loro. La legge di Dio è l’amore, la legge dell’io è dare sé. Non è forse questo il contributo più urgente che oggi, come cristiani, possiamo dare ai nostri fratelli, uomini in questo tempo di così desiderata e difficile ripartenza?

Rispondo con un’altra affermazione di Giussani che mi sembra spieghi molto bene e giustifichi fino in fondo quello che lei diceva. Giussani parte da questo senso di nichilismo, di vuoto di senso che noi troviamo attorno a noi e a questo vuoto di senso, diceva Don Giussani, può rispondere solo una carne, solo uno sguardo. E poi, è l’ammirazione, la commozione, questo senso della bellezza che ti pervade. Infatti, quando a messa arriva il momento del segno della pace ora che non ci possiamo più dare la mano e dobbiamo rispettare, io dico “scambiatevi un segno di pace” non con la mano, ma chi vi impedisce di farvi un sorriso? In un sorriso ci può essere una carica d’amore nei confronti di chi ti sta vicino e che non conosci del quale aveva proprio bisogno per cambiare la sua vita. Al nichilismo, al vuoto di senso – dice Giussani – può rispondere solo una carne, uno sguardo. Solo Cristo si prende tutto a cuore della mia umanità, senza l’esperienza di questa presa sull’io non c’è cristianesimo. Non c’è cristianesimo come avvenimento, non c’è possibilità di cambiamento, non c’è niente di più facile da capire di un avvenimento che ha la forma di un incontro. Si capisce allora perché papa Francesco riproponga spesso la frase della “Deus Caritas est”, quelle parole di Benedetto che ci conducono al centro del Vangelo: all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e, cioè, una direzione decisiva. A coloro che l’hanno accolto Egli ha dato il potere di diventare figli di Dio. Il cristianesimo non è innanzitutto un’etica, una morale, tanto meno una filosofia – certo occorre anche un pensiero acuto per riflettere sui misteri di Dio – ma il cristianesimo è innanzitutto questo incontro. Diceva papa Benedetto: c’è un incontro e se manca questo incontro tu puoi fare il predicatore del cristianesimo per tutta la vita, tu vuoi essere il più grande moralista, ma personalmente non sei nulla. Tu puoi dare agli altri solo quello che hai recepito di questo incontro. E allora mi sembra che questo possa ricollegarsi con il pensiero di Isaia: quanto resta della notte? L’alba viene.

Mi ricordo che una volta c’era una conferenza dove c’erano tanti uomini importanti di Firenze. C’erano padre Turoldo, padre Balducci, don Barsotti. Arrivò anche il professor La Pira. C’era stato un teologo, che aveva descritto in maniera pessimistica la situazione della Chiesa come se fosse quasi una grande azienda in fallimento. E questo è terribile perché se la Chiesa si coglie soltanto come fenomeno e non più come mistero, allora non torna più nulla: la Chiesa è questo mistero pulsante dell’amore di Cristo, di Dio, per l’umanità. La Pira, invitato a parlare, disse: venendo qua sono passato davanti all’orto delle Mantellate e ho domandato all’ortolano perché quel pesco l’altro ieri non fosse fiorito e oggi invece sì. Il contadino rispose: professore, perché è venuta la primavera. Scusi signor contadino, è lei che fa venire la primavera? No, la primavera non c’è qualcuno che la manda, la primavera viene.

La primavera viene, viene la primavera nostra perché noi anche se ci sembra di essere inariditi come degli stecchi possiamo rifiorire, viene la primavera del mondo se noi siamo degli artefici a costruirla, viene la primavera dell’umanità. Abbiamo avuto dei Papi, da Giovanni Paolo II a Benedetto, a Francesco, che sono stati un soffio nella Chiesa, nell’umanità.

Una sera mi trovavo a dire il breviario sul terrazzo di casa mia, era la fine di marzo e ho sentito garrire le rondini in maniera forte. Era tanto che non succedeva questo fenomeno perché probabilmente prima della pandemia l’atmosfera era un po’ più inquinata. Ma le rondini quest’anno sono tornate con anticipo. Allora ho pensato: la primavera viene non tanto perché noi uomini la costruiamo, ma perché Dio la manda. Aiutiamo Dio a costruire la primavera degli uomini e della storia, aiutiamolo con gioia, con passione, con entusiasmo e cerchiamo di diventare tutti bambini. In fondo la sorpresa della vita, le emozioni più belle le vivono i bambini. Ecco, cogliamo proprio questo senso della primavera: è l’augurio che faccio a tutto il Meeting, è l’augurio che faccio in particolare a voi, è l’augurio che faccio anche a tutta la Chiesa italiana.

Ci dica qualcosa di questo tema che abbiamo scelto attraverso una frase dello scrittore ebreo Heschel in nesso con la descrizione che ha fatto poco fa di un cristianesimo che è carne, che è verbo incarnato, che è uno sguardo. Come il tema del Meeting può essere un aiuto, un contributo a far uscire il cristianesimo dall’armadio, cioè a renderlo di nuovo attrattivo, attraverso questa capacità di stupore e di meraviglia che abbiamo messo al centro del Meeting di quest’anno?

È la frase che io vi ho commentato: privi di meraviglia, restiamo sordi al sublime. È un concentrato su cui noi possiamo fare una riflessione che non finisce più perché il sublime abbraccia tutto il mistero di Dio e tutto il mistero dell’uomo perché il mistero di Dio e il mistero dell’uomo sono parenti. Dio è persona ma anche l’uomo è persona. Quando Dio crea, il Libro della Genesi vide che era buono, ma quando creò l’uomo si compiacque della sua creatura perché aveva in mano un essere con cui poteva dialogare, uno simile a Lui, creato a Sua immagine. “Privi di meraviglia restiamo sordi al sublime”. Questa frase mi fa pensare a due cose: ai profeti e ai bambini.

La meraviglia è la forma tipica del pensiero dei profeti e proprio qualche settimana fa, in occasione della festa di san Benedetto, ho avuto modo di dire che oggi è senza dubbio il tempo dei profeti, di coloro che sanno mettersi in ascolto della Parola di Dio e sono in grado di leggere in profondità il mondo che li circonda. Io pregherò tanto perché queste parole non cadano a vuoto, ma che ciascuno di voi ritorni a casa sentendo che il Signore l’ha aiutato dal di dentro ed è divenuto un po’ più profeta di Dio. Abbiamo bisogno non di super esperti freddi e senza uno sguardo lungo e profondo. Oggi abbiamo bisogno di profeti, di uomini e di donne con fede che si lasciano meravigliare e sono capaci di scorgere la presenza di Dio nel mondo e nel tempo in cui viviamo.

Accanto ai profeti, coloro che sono capaci di meraviglia sono i bambini. Nel Vangelo di Matteo, Gesù rispondendo ai discepoli che gli avevano detto che era il più grande, rispose che se non si diventa come bambini non si entra nel regno dei cieli. Gesù ci esorta a prendere come prospettiva lo sguardo dei bambini e non quello degli adulti o dei potenti. L’incontro con Gesù, ovvero il sublime di cui parla Heschel, non è un incontro del passato ma è un incontro che si fa ogni giorno, ogni volta in maniera diversa e, per questo, sorprende, meraviglia, dà gioia. È una grande esortazione ad avere gli occhi e il cuore dei bambini e a gettare alle ortiche le nostre concupiscenze, la nostra avarizia e, soprattutto, la nostra superbia.

In un mondo che si è costruito troppi vitelli d’oro, con troppi falsi profeti, lo sguardo del bambino ci fa essere piccoli e limitati e ci permette di scoprire lo splendore stupefacente del Cristo. Oggi vorrei ricordare un piccolo bambino che è morto in Sicilia, Gioele. Non sappiamo in che modo sia avvenuta la sua morte straziante. Un piccolo fratello di Gesù, che era stato in Vietnam durante quella terribile guerra, diceva che i bombardamenti oscuravano il sole e soprattutto facevano piangere le stelle per il sangue innocente versato dai bambini. Sicuramente la morte di questa piccola creatura ha fatto rabbrividire gli astri del cielo, ma il sublime – e questo lo sento profondamente dentro – era con lui e l’accarezzava, perché Gesù ha detto: lasciate che i piccoli e i bimbi vengano a me.