Roberta Barbi – Città del Vaticano
Sono spesso lavori di pubblica utilità quelli cui vengono destinati i detenuti, nel caso di questo protocollo d’intesa, firmato ieri, nella sede del Ministero della Giustizia, tra il Commissario Straordinario alla Ricostruzione, Giovanni Legnini; la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Matteo Maria Zuppi, il Presidente del Consiglio nazionale dell’Anci, Enzo Bianco, e il Vicepresidente Ance con delega per la ricostruzione del Centro Italia Piero Petrucco.
Ricostruire edifici per ricostruire vite
Si tratterà di lavori di ricostruzione, di “ricostruire gli edifici per ricostruire le proprie vite”, ha sottolineato, durante l’incontro, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per la quale iniziative come questa “permettono di guardare al carcere anche come una risorsa per l’intera collettività”. I detenuti di 35 istituti del Centro Italia saranno, dunque, impegnati in cinquemila cantieri di opere di ricostruzione pubblica e in 2.500 cantieri di chiese danneggiate nel sisma del Centro Italia del 2016. “È simbolo di una comunità che si raccoglie intorno al messaggio del Vangelo che è liberazione, libertà – racconta a Vatican News don Raffaele Grimaldi, Ispettore dei Cappellani delle Carceri d’Italia – i detenuti vivranno più forte il contatto con la dimensione religiosa che li aiuterà a ricostruire le propria vita anche attraverso un cammino di fede”.
Il lavoro, strumento indispensabile di reinserimento sociale
Il presupposto su cui si basa il nuovo protocollo è l’importanza che riveste il lavoro nell’ambito del reinserimento sociale dei detenuti e nell’abbattimento del tasso di recidiva, senza dimenticare che l’articolo 27 della Costituzione Italiana stabilisce i termini in cui il carcere deve essere riabilitativo e non punitivo. “Soltanto con il lavoro si può recuperare chi è stato imprigionato nella rete del malaffare – prosegue l’Ispettore dei Cappellani – ma deve esserci disponibilità a questo cambiamento”. Ognuno dei firmatari del protocollo avrà un proprio ruolo in merito. Il Dap individuerà gli idonei e ne favorirà l’inserimento in cantieri vicini alla struttura in cui stanno scontando la pena, in accordo con il magistrato di Sorveglianza, saranno coinvolte anche l’Associazione nazionale dei Comuni italiani (Anci) dove si trovano gli istituti di pena interessati e l’Associazione nazionale dei costruttori edili (Ance) nell’individuazione delle imprese. “È la comunità esterna che fa appello a una comunità interna come il carcere – spiega ancora don Grimaldi – il mio unico timore è che si possano bloccare le uscite dei detenuti attraverso la burocrazia, impedendo loro di lavorare, in questo modo il protocollo partorirebbe ben poca cosa”.
La mano tesa della Chiesa
In questo quadro, il ruolo della Cei sarà quello di promuovere, presso le imprese impegnate nella ricostruzione delle chiese, la manodopera dei ristretti: “Dare ai detenuti la possibilità di lavorare è un modo per farli sentire parte della comunità – ha precisato il presidente della Cei, cardinale Zuppi – per dare loro una prospettiva di futuro e un’alternativa valida per non tornare a delinquere una volta scontata la pena”. Una Chiesa in uscita, dunque, che tende la mano ai più fragili perché, come spesso sottolinea Papa Francesco quando parla di carcere, a chi sta dentro non deve essere mai tolta la speranza. “Mai chiudere quella finestra – conclude don Grimaldi – dietro ogni detenuto c’è una storia da leggere e comprendere e c’è anche una responsabilità del mondo esterno. La Chiesa non smetterà mai di trasmettere speranza a chi è dentro”.