Il porporato ha tenuto la prima predica di Quaresima alla Curia Romana in Aula Paolo VI: quando è fatto nello Spirito Santo, “il compromesso non è un cedimento, o uno sconto fatto sulla verità, ma è carità e obbedienza alle situazioni”
L’Osservatore Romano
La storia e la vita della Chiesa non si sono fermate con il Vaticano II: «Guai a fare di esso» quello che si è tentato di fare con il concilio di Trento e cioè «una linea di arrivo e un traguardo inamovibile». Lo ha detto il cardinale Raniero Cantalamessa durante la prima predica di Quaresima sul tema «Ipsa novitas innovanda est: Rinnovare la novità», svoltasi stamane, venerdì 3 marzo, nell’Aula Paolo VI.
Se la vita della Chiesa si fermasse, ha osservato il predicatore della Casa Pontificia, «succederebbe come a un fiume che arriva a uno sbarramento: si trasforma inevitabilmente in un pantano o una palude». In proposito il porporato cappuccino ha ricordato il pensiero di Origene che, nel III secolo, osservava che non basta «essere rinnovati una volta sola; bisogna rinnovare la stessa novità». Sulla stessa linea anche il neo dottore della Chiesa sant’Ireneo che scriveva: la verità rivelata è come «un liquore prezioso contenuto in un vaso di valore. Per opera dello Spirito Santo, essa ringiovanisce continuamente e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene». Il “vaso” che contiene la verità rivelata, ha spiegato il cardinale, «è la vivente tradizione della Chiesa». Il “liquore prezioso” è «in primo luogo la Scrittura, ma la Scrittura letta nella Chiesa, che è poi la definizione più giusta della tradizione». Lo Spirito è, infatti, «per sua natura, novità».
Del resto, anche la società «non si è fermata al tempo del Vaticano II, ma ha subito una accelerazione vertiginosa». I mutamenti che un tempo «avvenivano in un secolo o due, oggi avvengono in un decennio». Questo bisogno di continuo rinnovamento non «è altro che il bisogno di continua conversione, esteso dal singolo credente alla Chiesa intera nella sua componente umana e storica». La Ecclesia semper reformanda.
Il vero problema non «sta dunque nella novità; sta piuttosto nel modo di affrontarla». Infatti, ogni novità, ogni cambiamento si trova «davanti a un bivio; può imboccare due strade opposte: o quella del mondo, o quella di Dio: o la via della morte o la via della vita». Ora, esiste «un mezzo infallibile per imboccare ogni volta la via della vita e della luce: lo Spirito Santo».
Il cardinale ha evidenziato come l’intento delle sue riflessioni quaresimali sia proprio quello di incoraggiare a mettere lo Spirito Santo nel cuore di tutta la vita della Chiesa, e, in particolare, in questo momento, nel cuore dei lavori sinodali. Nello specifico, l’obiettivo di questa prima predica è di raccogliere la lezione che viene dalla Chiesa nascente. Gli Atti degli apostoli mostrano infatti una comunità che «è, passo passo, condotta dallo Spirito. La sua guida si esercita non solo nelle grandi decisioni, ma anche nelle cose di minor conto».
Certo, non è un cammino rettilineo e senza intoppi, quello della Chiesa nascente. «La prima grande crisi — ha ricordato Cantalamessa — è quella relativa all’ammissione dei gentili». E la decisione presa dagli apostoli a Gerusalemme di accogliere i pagani nella comunità è «risolta con quelle straordinarie parole iniziali: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi” (At 15, 28)».
Non si tratta di fare «dell’archeologia della Chiesa, ma di riportare alla luce, sempre di nuovo, il paradigma di ogni scelta ecclesiale». Non è difficile, infatti, «scorgere l’analogia che c’è tra l’apertura che allora si operò nei confronti dei gentili, con quella che oggi si impone nei confronti dei laici, in particolare delle donne, e di altre categorie di persone».
In questo senso, l’esempio della Chiesa apostolica «non ci illumina soltanto sui principi ispiratori, cioè sulla dottrina, ma anche sulla prassi ecclesiale», perché «ci dice che non tutto si risolve con le decisioni prese in un sinodo, o con un decreto»; c’è la necessità di «tradurre nella pratica tali decisioni, la cosiddetta “recezione” dei dogmi». E per questo occorrono «tempo, pazienza, dialogo, tolleranza; a volte anche il compromesso»: del resto, quando è fatto nello Spirito Santo, «il compromesso non è un cedimento, o uno sconto fatto sulla verità, ma è carità e obbedienza alle situazioni».
In tutta la vicenda ricordata dal porporato, Pietro «appare chiaramente come il mediatore tra Giacomo e Paolo, cioè tra la preoccupazione della continuità e quella della novità». In questa mediazione, «assistiamo a un incidente che ci può essere di aiuto anche oggi». Accade che Paolo «ad Antiochia rimprovera Pietro di ipocrisia per aver evitato di sedere a tavola con dei pagani convertiti». Secondo il predicatore, i “conservatori” del tempo imputavano a Pietro la colpa di «essersi spinto troppo oltre, andando dal pagano Cornelio»; ma Paolo «gli rimprovera di non essersi spinto abbastanza oltre».
Pietro però non ha affatto «peccato di ipocrisia». La prova è che, in altra occasione, Paolo «farà, lui stesso, esattamente, quello che fece Pietro ad Antiochia»: a Listra egli fece circoncidere il suo compagno Timoteo «a motivo — è scritto — dei giudei che si trovavano in quelle regioni (At 16, 3), cioè per non scandalizzare nessuno». E ai Corinzi scrive di «essersi fatto “giudeo con i giudei, per guadagnare i giudei” (1 Cor 9, 20)».
Il ruolo di mediatore che Pietro esercitò tra «le opposte tendenze di Giacomo e di Paolo» continua ancora oggi «nei suoi successori». Non certo — e questo «è un bene per la Chiesa» — «in modo uniforme in ognuno di essi, ma secondo il carisma proprio di ognuno che lo Spirito Santo — e si presume i cardinali sotto di lui — hanno ritenuto il più necessario in un dato momento della storia della Chiesa».
Davanti agli eventi e «alle realtà politiche, sociali ed ecclesiali, noi — ha riconosciuto il predicatore — siamo portati a schierarci subito da una parte e demonizzare quella avversa, a desiderare il trionfo della nostra scelta su quella degli avversari». Se scoppia una guerra, ha osservato, «ognuno prega lo stesso Dio di dare la vittoria ai propri eserciti e annientare quelli del nemico». Non «che sia proibito avere preferenze in campo politico, sociale, teologico e via dicendo, o che sia possibile non averle»; non si dovrebbe mai, però, «pretendere che Dio si schieri dalla nostra parte contro l’avversario». E neppure «dovremmo chiederlo a chi ci governa».
Quest’anno, ha ricordato Cantalamessa, si celebra il quarto centenario della morte di san Francesco di Sales, vissuto in un’epoca anch’essa segnata da aspre controversie. Si dovrebbe diventare tutti, in questo senso, “salesiani”: «Condiscendenti e tolleranti, meno arroccati sulle nostre personali certezze», consapevoli di quante volte «abbiamo dovuto riconoscere dentro di noi di esserci sbagliati sul conto di una persona o di una situazione, e di quante volte abbiamo dovuto adattarci anche noi alle situazioni».