Canada, Oblati di Maria: il perdono è la strada giusta

Vatican News

Fabio Colagrande – Città del Vaticano

“Come missionari Oblati di Maria, in Canada dalla metà dell’800, siamo testimoni che un cammino di guarigione e riconciliazione con le popolazioni indigene è possibile”. A parlare è padre Marc Dessureault, Oblato di Maria di origini canadesi, nato a Quebec, da dodici anni economo generale della congregazione a Roma. 

Una rinnovata amicizia con i popoli indigeni

“Abbiamo riconosciuto che la nostra collaborazione alle politiche di assimilazione attuate dal governo federale canadese, con il sistema delle scuole residenziali, è stato un errore storico e già trent’anni fa, nel 1991 – ammette il religioso – abbiamo chiesto perdono ai rappresentanti delle popolazioni autoctone. Oggi la rinnovata amicizia con quei popoli e la nostra presenza accanto a loro ci conferma che abbiamo fatto la scelta giusta”.

Padre Marc – ai microfoni di Radio Vaticana – commenta con gioia la conclusione del pellegrinaggio penitenziale di Papa Francesco in Canada durante il quale il Pontefice, a nome della Chiesa universale, ha ribadito la richiesta di perdono ai First Nations, ai Metìs e agli Inuit, per i modi in cui molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. “È un cammino di riconciliazione che noi come Oblati abbiamo intrapreso dal 1991 – spiega – ma è importante che oggi sia compiuto dal Pontefice e diventi così di tutta la Chiesa”.

Restano gli errori storici, ma la nostra presenza sempre apprezzata

Allo stesso tempo il religioso ci tiene a sottolineare come i missionari della sua famiglia religiosa siano stati per decenni, e siano tuttora, accanto agli autoctoni del Canada, creando legami di amicizia e collaborazione. “La nostra partecipazione al sistema delle scuole residenziali, dove sono stati compiuti abusi sui bambini indigeni, resta un grave errore storico ma non va confusa con la nostra presenza nei villaggi e nelle parrocchie indigene che è stata sempre positiva e apprezzata dagli stessi autoctoni”, sottolinea padre Dussureault. 

L’intervista a padre Marc Dessureault, economo generale degli Oblati di Maria

Come Oblati di Maria come commentate la conclusione di questo pellegrinaggio penitenziale del Papa in Canada?

Noi siamo arrivati in Canada nel 1841. Pochi anni dopo già ci avevano affidato le prime missioni presso i popoli autoctoni, i cosiddetti First Nations, come li chiamiamo anche adesso. Quindi è chiaro che per noi questo viaggio del Papa è stato molto importante, è stato davvero una buona notizia. Già dal 1991, infatti, abbiamo iniziato un cammino di riconciliazione con i popoli autoctoni, per quanto riguarda le scuole residenziali, e siamo stati chiari che questo programma è stato un errore storico, come lo è stata la nostra partecipazione.  Oggi sarebbe impossibile per noi collaborare a un programma del genere, che tendeva all’assimilazione culturale forzata delle bambine e dei bambini autoctoni, e certamente nemmeno il governo potrebbe proporlo. Ma per noi è anche chiaro che la nostra alleanza con i popoli autoctoni non è stata rotta per la vicenda di quelle scuole.

Dobbiamo sottolineare la differenza fra quello che purtroppo sono state quelle scuole e quella che è stata la presenza di noi Oblati nei territori delle Prime Nazioni in tutto il Canada. Dopo la nostra richiesta di perdono del ’91, la collaborazione nelle parrocchie insieme alle comunità delle Prime Nazioni è rimasta intatta. Anzi, dopo la richiesta di perdono, diversi capi indigeni ci hanno chiesto esplicitamente di non lasciare il Canada, di rimanere con loro. E infatti noi siamo rimasti, con un modello di evangelizzazione che ormai corrisponde al mondo di oggi. Credo perciò che questo cammino che abbiamo fatto dal ‘91 ci mostri che abbiamo fatto la cosa giusta, perché laddove stiamo ancora accanto agli indigeni, viviamo dei momenti di alleanza e amicizia molto stretta. Guardavo nei giorni scorsi le immagini in televisione della visita di Francesco al Santuario di Sainte-Anne-de-Beaupré, a Quebéc, e vedevo tanti confratelli che erano presenti a quella celebrazione con la loro parrocchia. Quindi l’importanza di questo viaggio è stata molto grande, perché Francesco ha proseguito questo cammino a nome di tutta la Chiesa, ma per noi è come una continuazione. Basti pensare che, quando i rappresentanti delle popolazioni indigene nel marzo scorso sono venuti a Roma, per incontrare il Papa, sono passati anche nella nostra casa degli Oblati e hanno cenato con noi. Quindi quegli errori del passato non hanno messo fine ai nostri rapporti, anzi, con il perdono si è rinsaldato un nuovo rapporto di amicizia.  

Nel 1991 durante il tradizionale pellegrinaggio al Santuario del lago Sant’Anna, visitato qualche giorno fa dal Papa, gli Oblati hanno chiesto scusa gli indigeni per essere stati parte in qualche modo del sistema coloniale. Perché quel gesto?

Naturalmente, non è che la Conferenza Oblata del Canada all’epoca si sia svegliata un mattino e abbia deciso di chiedere perdono. C’è stato un cammino attraverso il quale gli ex-allievi delle scuole residenziali hanno condiviso con i nostri missionari le sofferenze che avevano vissuto. Quindi, nei dieci anni che hanno preceduto quella richiesta di perdono, c’era stato già un dialogo nel quale gli indigeni avevano condiviso con noi la loro sofferenza. Per padre David Douglas Crosby, oggi vescovo di Hamilton, e allora presidente della Conferenza Oblata del Canada, fu poi chiaro che, essendo a conoscenza ormai delle sofferenze e delle ferite vissute, era ormai il momento di fare il punto su quella vicenda e chiedere perdono.

Nella storia della presenza degli oblati in Canada ci sono stati però anche tanto missionari che sono stati dalla parte degli autoctoni, aiutandoli nei momenti difficili…

Dobbiamo assolutamente sottolineare la differenza fra la storia delle scuole e la nostra presenza nelle parrocchie e nei villaggi degli indigeni. In certi luoghi, io ho conosciuto a volte dei confratelli che parlavano la lingua di un gruppo indigeno anche meglio della gente stessa. Come giovane oblato, ho conosciuto confratelli che hanno lavorato per creare dizionari nelle lingue indigene e tradurre tutta la liturgia nella lingua locale. Io stesso, alcune volte, come missionario, ho esercitato il ministero natalizio o pasquale in alcuni villaggi e lì si notava subito e l’apprezzamento della gente per la presenza degli Oblati. Certo, ci sono stati anche dei momenti difficili, alcuni casi di abusi commessi da nostri confratelli. E anche fosse stato un solo caso sarebbe stato sempre uno di troppo. Ma l’amicizia delle nostra famiglia con quelle popolazioni è un fatto.

Qual è oggi la presenza degli Oblati in Canada?

Eravamo arrivati negli anni Ottanta ad avere dieci province oblate in tutto il Paese. Ormai abbiamo solo tre province e circa 350 religiosi in tutto il Canada, mentre la media di età è abbastanza alta. Però, abbiamo anche dei confratelli più giovani che provengono dalle nostre province africane, o anche dell’Asia, e hanno accettato di andare come missionari presso i popoli autoctoni. Penso, per esempio, a due confratelli del Camerun che sono stati inviati presso il popolo degli Innu e sono là da quasi dieci anni. La cosa sorprendente è che “l’uomo bianco” per i popoli indigeni, anche a livello inconscio, ha sempre rappresentato una minaccia.  Invece i confratelli che arrivano dall’Africa e dall’Asia s’integrano molto velocemente. Ma poi, per esempio, durante il viaggio del Papa, quando ha visitato la Parrocchia del Sacro Cuore delle Prime Nazioni, a Edmonton, abbiamo visto che il parroco è uno dei nostri, è indiano, sta in Canada da più di dieci anni, è perfettamente integrato e ama molto il Ministero con il popolo autoctono.