di Andrea Monda
Papa Francesco parte per il suo 37° viaggio apostolico internazionale alla volta del Canada, 56° Paese visitato dall’inizio del pontificato. Sarà uno dei viaggi più lunghi che lo porterà nei luoghi più lontani da lui raggiunti: è prevista la visita a quattro località, Edmonton e la vicina Maskwacis nell’Ovest del Paese, Québec City e poi Iqaluit, vicino al circolo polare artico.
Un viaggio che parte da lontano e arriva lontano, non solo dal punto di vista geografico. È infatti, come ha affermato il Papa nell’Angelus di domenica scorsa 17 luglio, «un pellegrinaggio penitenziale» che lo condurrà nei luoghi bui dell’errore e del dolore. «Vorrei dirvi, di tutto cuore: sono molto addolorato» aveva detto il 1° aprile il Papa parlando alle delegazioni dei gruppi di indigeni che andrà a visitare in Canada: i gruppi delle First Nations (“Prime Nazioni”), dei Métis (“meticci”) e degli Inuit, ai quali aveva espresso «dolore e vergogna per il ruolo che diversi cattolici, in particolare con responsabilità educative, hanno avuto in tutto quello che vi ha ferito, negli abusi e nella mancanza di rispetto verso la vostra identità, la vostra cultura e persino i vostri valori spirituali» e aveva aggiunto: «Mi unisco ai fratelli vescovi canadesi nel chiedervi scusa. È evidente che non si possono trasmettere i contenuti della fede in una modalità estranea alla fede stessa». Ancora una volta il Papa presenta il volto della Chiesa come “ospedale da campo”, come soggetto capace di stare davanti alle ferite dell’umanità e di provvedere ad intervenire per curarle. Pure quando, ed è questo il caso, quelle ferite sono state procurate anche dall’azione di cattolici. Un viaggio quindi delicato, faticoso, doloroso, di cura e di purificazione. Una cura che inizia innanzitutto con la presenza, con la vicinanza. Il Papa ha sentito l’urgenza di muoversi e recarsi lì, dove la ferita ancora sanguina. Con la sua presenza Francesco porterà lo sguardo evangelico che si apre su tutto il mondo e insieme alla richiesta di perdono ci sarà anche la preghiera per tutte le ferite che oggi affliggono il mondo intero, dalla pandemia alle tante guerre che stanno devastando i cinque continenti. Tutto è connesso, ricorda spesso il Papa e le ferite di una parte dell’organismo si ripercuotono su tutto il resto. È nello stile di Papa Francesco lo stare, in silenzio orante, di fronte alle ferite, al male (commesso e ricevuto), al buio, alla crisi, con la fiducia che proprio attraversando la crisi si può ritornare alla luce, ad una umanità più piena e compiuta.
Esattamente trent’anni fa il poeta e cantautore canadese Leonard Cohen, compose una delle sue più belle canzoni, Anthem (Inno) il cui famoso ritornello recita così: «Suonate le campane che possono ancora suonare / Dimenticate la vostra offerta perfetta / c’è una crepa in ogni cosa / È così che entra la luce». Questa “crepa” (crack) è il segno della natura umana, è quella debolezza e fragilità che può rivelarsi il luogo della redenzione e del riscatto. Lo stesso Cohen commentando questo verso ha affermato che la situazione umana «non ammette soluzione o perfezione. Non è questo il luogo in cui si rendono perfette le cose, né nel matrimonio, né nel lavoro, né in niente, né nell’amore per Dio, né nell’amore per la famiglia o per il Paese. Le cose sono imperfette. E peggio, c’è una crepa in tutto ciò che si può mettere insieme, oggetti fisici, oggetti mentali, costruzioni di qualsiasi tipo. Ma è lì che entra la luce, è lì che c’è la resurrezione, è lì che c’è il ritorno, è lì che c’è il pentimento. È con il confronto, con la rottura delle cose». Questo “inno” alla fragilità e alla necessità della misericordia sarà anche l’inno che accompagnerà il viaggio di Papa Francesco, un viaggio lontano, dentro il cuore di ogni essere umano.