Chiesa Cattolica – Italiana

Cabo Delgado, sfollati in aumento per gli agguati jihadisti

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Sempre più tesa la situazione nel nord del Mozambico dove la cittadina di Palma, vicino alla frontiera con la Tanzania, è caduta nelle mani dei miliziani che l’avevano attaccata mercoledì scorso. Ieri sono state evacuate, dopo due giorni di terrore, le 180 persone intrappolate in un hotel della cittadina, per lo più lavoratori del sito di gas naturale liquefatto nel nord del Paese, ma almeno sette di loro sono state uccise in un’imboscata. La rete di comunicazione via cellulare a Palma è stata interrotta quando è cominciato l’assalto. Residenti terrorizzati sono fuggiti nelle foreste vicine e lavoratori stranieri si erano rifugiati nell’hotel Amarula Palma. 

La Total interrompe le operazioni estrattive

La compagnia petrolifera francese Total, che proprio mercoledì aveva annunciato la ripresa dei lavori di costruzione del suo sito di gas, ha annunciato che sospende le operazioni dopo l’attacco jihadista.

Nell’ultimo anno il gruppo estremista islamico Al Shabab ha moltiplicato gli attacchi contro i villaggi del nord del Mozambico, mettendo in fuga quasi 700mila persone e causando oltre 2.600 morti, metà dei quali civili. Il gruppo armato è attivo dal 2017 e nel 2019 ha giurato fedeltà all’Isis. Chiamati dalla popolazione locale Shabaab (i giovani), gli jihadisti mozambicani del gruppo Ahlu Sunnah Wal Jamaah, noto anche come Ansar al Sunna, ha trovato ascolto fra una parte dei giovani senza prospettive di questa Provincia a maggiornanza musulmana.

Don Silvano Daldosso, fidei donum della diocesi di Verona, da oltre 13 anni è alla guida di 47 piccole comunità sparse in un territorio rurale di 100 km quadrati, nella diocesi di Nacala, missione di Cavà-Memba, in una zona confinante con la provincia di Cabo Delgado, nel nord-est del Mozambico. Si adopera per dare da mangiare agli sfollati, che a migliaia fuggono dagli scontri a Cabo Delgado:

Ascolta l’intervista a Don Daldosso

R. – E’ molto difficile se non impossibile comunicare con Cabo Delgado. Stanno arrivando centinaia e centinaia gli sfollati e dai loro racconti riusciamo ad avere una idea di ciò che sta capitando. E’ molto difficile avere notizie attendibili in altro modo e fino all’anno scorso non se ne sentiva nemmeno parlare; la matrice di quanto succedeva là era ricondotta a gruppi ribelli e giovani malcontenti della situazione, non lo si riferiva allo Stato Islamico su cui oggi, invece, converge l’interpretazione più comune. Io ho ricevuto l’informazione circa l’attacco ultimo mentre facevano la distribuzione degli alimenti, tramite un amico che era con me e che a sua volta ha un amico che lavora nei giacimenti. Sono informazioni che arrivano alla rinfusa e in maniera molto spicciola.

Cosa raccontano gli sfollati?

R. – Storie atroci. La maggior parte hanno messo in atto una fuga preventiva, prima che succedesse il peggio. In altri casi, raccontano di incendi di case, campi, raccolti. Sono storie di guerra, storie brutte che fan fatica loro stessi a riferire. Oltre quello che avviene lì, ci sono le storie della gente che si mette in cammino con niente, e fa centinaia di chilometri per allontanarsi il più possibile, soprattutto sono donne e anziani con bambini. E arrivando in altre zone queste persone sono ospitate in famiglie altrettanto povere per la situazione di fame che si sta vivendo, per le piogge molto in ritardo che hanno inciso tantissimo sui raccolti, scarsissimi. Nonostante ci sia la bellezza dello stile africano per cui si ha la porta sempre aperta e quel poco che si ha si condivide, la situazione è veramente difficile in certi contesti.

Quali sono le ricadute sulle vostre missioni?

R. – Nel contesto di pandemia l’attività pastorale è ridotta ai minimi termini. Non è permesso celebrare nelle cappelle quindi anche la Domenica delle Palme la faremo nelle case. Ci sarà il grande interrogativo di come integrare questi sfollati. La gran parte sono musulmani che partono da là, ma poi ci sono anche cristiani. A Memba, dentro la comunità cristiana, i pochi cristiani che sono arrivati da Cabo Delgado vengono accolti.

Quanto paralizza il Paese questa impennata di attacchi?

R. – Sotto il profilo ‘turistico’ il Paese non è bloccato completamente. E’ possibile entrare ed uscire, è un po’ più difficile entrare come missionari e come Ong. Siamo preoccupati per ciò che sta succedendo, per un terrorismo che sta crescendo. Sorprende quanto successo a Palma dove c’era una presenza massiccia dell’esercito: è un attacco organizzato, preparato, mirato. Attaccare un hotel vuol dire voler attirare l’attenzione pubblica. E’ un fenomeno che esiste già dal 2017. Ora solo nella nostra Provincia gli sfollati sono 70mila. Non è più solo una questione mozambicana e chi sta muovendo i fili di queste azioni lo fa evidentemente in maniera strategica, con addestramento ad hoc. Ci sono anche mozambicani.

Cosa potrebbe disinnescare questo clima di violenze inaudito?

R. – Difficile dirlo. Il rischio è che ci sia un disegno ben preciso, come dicevo. Da piccoli scontri in piccoli villaggi, oggi gli attacchi avvengono in punti strategici. Varie volte hanno tentato di entrare a Pemba. Dicono che ci sono cellule anche nelle Province limitrofe.

Che appello si sente di fare?

R. – Il governo locale può chiedere aiuto a livello internazionale, sembra sia restìo a farlo. Non dimentichiamo che la provincia di Cabo Delgado è la più povera ma anche la più ricca di risorse naturali. Ci sono degli interessi a livello economico molto forti, anche sotto traccia. Dal punto di vista geo politico, è molto strategica la zona, non solo a livello di Africa australe, ma a livello di economia mondiale. Creare disordini a sfondo terroristico può creare discese e salite economico-finanziarie importanti. L’attacco di fatto è coinciso – in maniera più o meno casuale – con la Total che ha ripreso i lavori per l’estrazione del gas.

Un anno e mezzo fa il Papa visitava il Mozambico nell’ambito del suo Viaggio in Africa australe. Come leggere l’acuirsi della crisi nel Paese alla luce di quello che fu il suo messaggio nella vostra terra?

R. – Il Papa aveva creato una bella aspettativa nonostante sia stato un passaggio molto rapido il suo. Aveva creato una bella ventata, anche a livello politico. Sono stati giorni molto vivi, molto intensi. Ciò che si può fare ora è appellarsi a voi comunicatori. E’ necessario che si prenda atto che è in corso una catastrofe umanitaria, che lo si tenga presente come società, come Chiesa. Al di là dell’attacco all’hotel oppure delle decapitazioni di adulti e bambini – che sono scene scioccanti, senza dubbio – non possiamo non pensare a chi muore per strada, camminando ore e ore senza mangiare, da almeno tre anni a questa parte. E’ un dramma che si ripete giorno dopo giorno.

Come resistere di fronte a questi scempi?

R. La nostra opera primaria è tentare di annunciare la Buona Novella e farlo in un tempo come questo, con la pandemia in corso – non se parla ma esiste – dove non ci sono le misure, le possibilità che esistono negli altri Paesi, dove la fame sta facendo più vittime del Covid. E fra una settimana dire che Gesù Cristo è la vita dentro a tutto questo. La gente fa un pasto al giorno e molto magro. E’ una bella sfida. Quello che si può fare è rendere presente questo Gesù Cristo che ha molto da dirci davanti a tutto questo.

Che Pasqua sarà?

Con le restrizioni, una Pasqua nel cenacolo, probabilmente più originale, più vera. Né incensi, né candele, forse non avrà nemmeno le caratteristiche delle cerimonie più ‘normali’ di questi giorni, la benedizione dell’acqua e del fuoco. Sarà una Pasqua celebrata nelle case, in piccoli gruppi in qualche casa. Ricorderà molto la Pasqua ebraica al tempo della liberazione del popolo di Israele nei momenti in cui si è consumata la salvezza del popolo. Sarà l’occasione per rendere la Pasqua libera dagli schemi tradizionali e soliti. La renderemo una Pasqua familiare, fatta di semplicità e di ascolto della Parola che ci rende risorti, anche oggi.

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