Burundi, il vescovo di Ngozi: aiutateci a dare opportunità ai nostri giovani

Vatican News

Dal Paese africano alle prese con la grave crisi dovuta alla scarsità di carburante e beni primari, l’appello del presule che ne denuncia i mali cronici: corruzione e povertà: “Come Chiesa facciamo ciò che possiamo per risvegliare le coscienze ma i problemi sovrastano le nostre forze”. In un contesto dove c’è un medico ogni 20 mila abitanti, il progetto delle “madri canguro” aiuta a contrastare l’alta mortalità infantile

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Al 178.mo posto nella classifica delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il Burundi, che resta uno dei Paesi più poveri la mondo (oltre l’80% della popolazione è in stato di indigenza), sta vivendo una crisi economica preoccupante negli ultimi mesi. Scarseggiano i prodotti di base, dal carburante allo zucchero; soprattutto, è la carenza di elettricità a colpire più duramente, rallentando i tentativi di ripresa. La corruzione del sistema politico, denunciata da uno dei vescovi locali e già sottolineata come piaga cronica di molti Paesi africani da Papa Francesco nel suo viaggio apostolico in Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan, aggrava la situazione in un’empasse che, nonostante i progetti di alcune onlus anche italiane e il sostegno dei religiosi nel campo della sanità e dell’istruzione, chiede l’attenzione internazionale. 

Mancano prodotti primari, carburante ed energia elettrica

Le interruzioni di corrente elettrica si verificano ogni giorno, spesso per più di due ore alla volta. A gennaio, la Banca Mondiale aveva annunciato una nuova sovvenzione fino a 40 milioni di dollari per aiutare il governo a prevenire una grave carenza di prodotti di base, tuttavia sono sorte complicazioni da taluni attribuibili alla chiusura da parte del Burundi del confine con il Rwanda. La motivazione di carattere politico e di sicurezza (il Burundi accusa il vicino di sostenere i ribelli ma il Rwanda nega) non sarebbe responsabile della diffusa carenza di beni, secondo le autorità burundesi, che hanno dichiarato che la maggior parte degli scambi commerciali avviene attraverso il Congo. Il Burundi ha poche esportazioni e dipende fortemente dal sostegno dei donatori, il che rende le sue relazioni internazionali fondamentali. Resta il fatto che il problema più urgente da affrontare in questi giorni è proprio l’inaffidabilità della fornitura di energia che può bloccare le attività commerciali in tutto il Paese per ore e ore. Alcune aziende hanno investito in generatori, ma faticano a trovare il carburante per alimentarli. Quest’anno la fornitura di derivati del petrolio è stata sporadica, soprattutto a causa della carenza di valuta estera. Le autorità governative, dal canto loro, imputano le interruzioni di corrente ad apparecchiature obsolete che risalgono agli anni Sessanta. 

Manca il carburante e l’energia elettrica è a singhiozzi

Il vescovo di Ngozi: dateci una mano per i nostri giovani

All’indomani dell’anniversario dell’indipendenza, che si celebra l’1 luglio, il Burundi – con una storia decennale di travagliate tensioni etniche – appare come un Paese imploso proprio a causa di quelli che monsignor George Bizimana, vescovo di Ngozi, definisce “due problemi gravi” e inevitabilmente interconnessi: la corruzione strutturale e la povertà. “La gente rimane nella povertà perché le strutture politiche ed economiche sono nelle mani dei potenti. La povera gente non riesce ad andare avanti – lamenta – e i prezzi continuano ad aumentare. A monte c’è sempre la corruzione. Non riusciamo ad avere accesso agli aiuti dell’Occidente. Siamo molto fragili. La gente fa quello che può ma quando c’è un sistema corrotto è difficile. Certo, si riesce a portare avanti la coltivazione dei campi da cui si può trarre sostentamento, ma la povertà è ormai generalizzata, coinvolge tutti”. Ricorda quando il Papa visitò la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan: “Ha parlato in maniera giusta e opportuna. Il problema è che la ricchezza naturale c’è ma viene gestita in modo non trasparente. I potenti ne approfittano mentre la gente resta nella povertà. Noi come Chiesa facciamo ciò che possiamo per risvegliare le coscienze e anche per denunciare le situazioni” ma, sostiene, sono questioni troppo stratificate nel tempo, “difficile sradicarle in poco tempo”. Il vescovo osserva che “si vedono tanti cantieri ma c’è squilibrio tra la produzione di energia e la fruizione”. A soffrire della penuria di corrente e di acqua è la pastorale stessa: “A livello sociale dobbiamo fare sinergie. La Chiesa vorrebbe contribuire allo sviluppo ma mancano i mezzi materiali. I problemi sono più grandi delle nostre forze”, spiega ancora monsignor Bizimana. “Dateci una mano per dare una opportunità soprattutto ai giovani: qualche fabbrica o qualche cooperativa. Sarebbe bello!”.

Padre Todeschi: è un popolo che sa molto amare

Il vescovo di Ngozi, a nord del Paese, racconta che le congregazioni religiose si sforzano tanto per offrire una educazione di qualità in Burundi e anche per realizzare le cosiddette ‘scuole di mestiere’. Lo conferma padre Modesto Todeschi, missionario saveriano che raggiungiamo al telefono nella capitale Bujumbura, arrivato nel Paese dal lontano ’66. Ha 85 anni, già Superiore Regionale, la voce impastata ma solerte: racconta di come il Burundi lo abbia accolto così bene, “è un popolo che sa molto amare. Sono innamorato di questa gente”. Aveva imparato la lingua del posto da un padre bianco belga, poi la insegnò ad altri missionari. Confessa ancora tanto. “Ho rischiato diverse volte la pellaccia, come quella volta, in una zona di combattimento, passando in un campo di manioca. Un mio confratello mi diceva: hai cercato il martirio ma non ci sei ancora riuscito”. Per quattro anni è stato responsabile del centro pastorale per i catechisti. “Siamo una dozzina adesso, pochi, con due parrocchie (una al nord e una a Bujumbura), un seminario e una casa di accoglienza. Io ho fatto anche l’animatore vocazionale con la grazia di avere una decina di sacerdoti ordinati localmente. Quando dico che sono qui da tanti anni, aggiungo che quello che mi è impossibile è solo di diventare nero! Abbiamo 33 ragazzi in noviziato”. Anche padre Modesto parla della povertà: “Adesso, mancando la benzina è un dramma”. Il vescovo aggiunge che i giovani vogliono andar via ma, sottolinea, non è facile perché non ci sono sbocchi sul mare. “I più tentano la via della Tanzania e dell’Uganda dove possono avere un po’ di speranza”.

Fedeli cattolici all’uscita dalla messa nella cattedrale di Ngozi, a nord del Paese

L’aiuto dei missionari, “è un segno, i frutti prima o poi matureranno”

Anche le Suore della Misericordia sono operose nell’aiuto delle persone più in difficoltà; raccontano di una società patriarcale nelle campagne, dove “le donne sono sacrificate, eppure mai si lamentano, sempre serene”. Una di queste religiose ammette che in effetti “non ci sono tante soddisfazioni nel quotidiano venire incontro ad alcune loro esigenze basiche, ma è come il seme messo nella terra, prima o poi darà il suo frutto. Questo dà la forza di andare avanti. Anche se non vediamo niente, si ha la coscienza di essere un segno, che se il Signore ci ha voluto qui, qualcosa dà frutto. Ce lo ripeteva spesso il cardinal Tonini”. Sebbene “rispetto ad altri Paesi dell’Africa centrale dove ha lavorato, il Burundi resta quello più vivibile, nonostante la povertà, il grande problema dell’approvvigionamento rende difficile tutte le attività”: è la voce di Antonio Zivieri, ex console d’Italia, da vent’anni fa testimone della fine della guerra civile, poi della ricostruzione, poi ancora delle nuove tensioni nel 2015 e della lenta ripresa successiva. “Le iniziative legate alla Chiesa sono in genere quelle che funzionano meglio”, osserva e, tra le realtà più interessanti per lo sviluppo del Paese, segnala l’Unione di Cooperative UNI.CO.MU (Union des Cooperatives de Mutoyi). Laici e religiosi lavorano insieme e la concretezza della loro opera è visibile in più ambiti: nella creazione di un centro medico polivalente e di centri di sanità periferici; nella risistemazione di strade e ponti, nella costruzione di acquedotti e linee elettriche, nel creare opportunità di occupazione in falegnameria, in officine, in mangimifici, allevamenti avicoli… 

Il progetto “mamme canguro” della onlus Ahamoro 

La povertà dilagante aggrava la malnutrizione fin dalla nascita e questa incide sul già alto tasso di mortalità materna e infantile. La penuria di medici ed operatori sanitari (un medico ogni 20 mila abitanti, un infermiere ogni 5 mila) e la precarietà delle strutture di assistenza hanno spinto un gruppo di professori della facoltà di Medicina dell’università di Verona a dare vita, nel 2004, alla onlus Amahoro (che vuol dire ‘pace’) che collabora con l’ospedale di Ngozi. Grazie all’aiuto di questa associazione, la struttura è diventata centro di insegnamento per la formazione pratica degli studenti dell’ateneo burundese, in particolare centro nazionale per la diffusione del progetto Kangaroo Mother Care (KMC), partito nel 2022. La KMC è un metodo di cura utilizzato con i neonati pretermine o di piccolo peso alla nascita: consiste nel porre il piccolo pelle a pelle con un adulto in maniera continuativa. Nato ufficialmente in Colombia negli anni Settanta per supplire alla mancanza di incubatrici, è praticato in molti ospedali nel mondo: si mette in fascia, mei tai o altro tipo di marsupio in posizione verticale, tra i seni della madre. Dal punto di vista economico, presenta vantaggi economici non di poco conto in quanto riduce i giorni di ospedalizzazione e, soprattutto, evita l’utilizzo di attrezzature costose e spesso inadatte alla preparazione tecnica del personale in paesi con scarse risorse. 

Una mamma con il neonato prematuro tra i seni, come previsto dal metodo Kangaroo Mother Care

Sfruttare una tecnologia sostenibile, altrimenti non funziona

“È un progetto ambizioso in quanto ci vuole tempo per cambiare la cultura”, spiega Ezio Maria Padovani, neonatologo dell’università di Verona e ideatore del progetto. “Bisogna cambiare modo di lavorare: il medico non è più il centro della struttura ma lo è il paziente. Il medico in qualche modo deve rinunciare a un ruolo prioritario. È la mamma che, con l’infermiere, cura il bambino”. In effetti, in gioco c’è la concezione di una terapia che si faccia carico dei bisogni non solo della salute fisica ma anche degli aspetti psicologici ed emotivi del paziente stesso. Tutto questo richiede una riorganizzazione del lavoro e un ripensamento del ruolo degli operatori, che inevitabilmente dovranno stabilire una alleanza con i genitori per favorire al meglio lo sviluppo del neonato. “Il lavoro che facciamo adesso corrisponde alla capacità di adattamento. Perché la tecnologia deve essere sostenibile, altrimenti non funziona”, precisa il medico che racconta di quell’episodio così impresso nella sua memoria, quando un bambino rimasto orfano fu messo in una scatola di cartone da una suora. “Il Burundi, dove torno periodicamente, mi ha insegnato di vigilare sullo spreco, anche sotto il profilo professionale. La povertà di tutti i giorni impone che non ci sia programmazione, progettazione. Esiste l’oggi. Si vive alla giornata, nel bene e nel male”.