Sui media vaticani, uno dei racconti di Dale Recinella, ex avvocato della finanza di Wall Street che oggi, insieme alla moglie Susan, assiste i detenuti in Florida
di Dale S. Recinella
Padre Aldrich era un tipo tosto. La sua imponente struttura teutonica domina i miei ricordi del seminario minore francescano nella periferia di Cincinnati, in Ohio, alla fine degli anni ’60. Oltre a ricoprire l’incarico di rettore del seminario, ci insegnava geometria, trigonometria e ad appassionarci alla Verità. L’edificio a tre piani del Seminario Serafico di San Francesco, sito al 10290 di Mill Road in Mt. Healthy, Ohio, ospitava due ali di dormitori per 300 seminaristi delle scuole superiori, un terzo piano di aule e un primo piano di aree ricreative e di ristorazione. Quella fu la mia casa dai 13 ai 18 anni.
Il secondo piano, interdetto a noi studenti, è dove vivono i frati nel chiostro. L’ala centrale è la cappella. Questo è lo spazio speciale dove inizia e finisce ogni giornata: le preghiere del mattino prima di colazione e le preghiere della sera prima di andare a dormire.
A Padre Aldrich piace molto sfidare noi e i nostri preconcetti con regolarità.
“Qual è il lavoro più importante che un frate può svolgere in questo monastero?”, chiese una mattina, mentre camminava avanti e indietro in classe davanti a noi.
“Il sorvegliante”, sbottò un compagno di classe.
“L’incaricato della disciplina”, offrì il successivo.
“Il cuoco”, azzardò un altro.
“Sbagliato”, Padre Aldrich respinse ogni suggerimento come un ricevitore a baseball respinge i lanci di un esordiente. Alla fine non potevamo più indovinare. Sembrava che avessimo esaurito la lista.
“È il fratello portinaio. Il fratello portinaio segna ogni giorno il ‘tempo’ dell’intero monastero. Il suo sorriso e i suoi modi gentili possono rendere la giornata piacevole per ogni persona qui. Il suo è il compito più importante di tutti. Un santo portinaio può rendere questo un edificio sacro.”
Eravamo sicuri che stesse scherzando. Nessuno di noi aveva nemmeno pensato di includere il gentile frate vestito di marrone, il cui compito era quello di aprire le porte della cappella, del refettorio, della sala studio, del locale per gli ospiti. La verità sfugge all’occhio incapace di distinguere, soprattutto la verità nascosta in bella vista.
Per quante porte ci fossero nel monastero, ce n’erano molte meno di quelle di una prigione della Florida. E ad ogni porta chiusa a chiave della prigione c’è una guardia penitenziaria, un fratello o una sorella portinai vestiti di marrone. Sono loro i primi ad accogliermi all’ingresso di ogni edificio, di ogni cortile, di ogni ala.
Il sergente all’ingresso della prigione è responsabile di ogni singola persona o oggetto che entra o esce da quella prigione durante il giorno. Le storie di armi e accessori per la fuga ingegnosamente introdotte clandestinamente nelle carceri sono innumerevoli. Eppure lui non manca mai di salutare ciascuno di noi con calore, perfino con incoraggiamento. Quando gli viene chiesto come riesca mantenere un atteggiamento ottimista, nonostante lo stress costante, sorride: “Credo nel potere del pensiero positivo. Buona giornata a tutti.”
La guardia con la chiave del tunnel della recinzione che porta al braccio della morte deve compiere qualche centinaio di viaggi a piedi al giorno dal locale delle guardie al cancello. Che piova o che si muoia di caldo, non importa. Eppure è sempre felice di essere d’aiuto, ha sempre una parola amichevole. All’altra estremità del tunnel c’è la guardia che controlla l’edificio. Non manca mai di sorridere e augurare il buongiorno a ciascuno di noi.
Le guardie preposte alle singole ali del carcere sono sommerse da compiti di routine. Le scartoffie infinite sono l’incombenza meno gravosa. Gli infermieri devono essere scortati, i detenuti accompagnati alle docce e alle visite psichiatriche o mediche. Il cibo e gli articoli per la pulizia devono essere distribuiti, la biancheria raccolta. In mezzo a tutto questo mi presento io per distribuire la Comunione.
“Buon pomeriggio, amico”, sorride il sergente. “Grazie per essere venuto oggi.”
Entrando in un’altra ala, chiedo se è il momento giusto. “Ogni volta che vieni a portare Dio a questi uomini è un buon momento”, risponde calorosamente l’addetto all’accoglienza.
Maggiore è il livello di sicurezza dell’ala, più è ingombrante la mia presenza durante la giornata lavorativa delle guardie. Un’ala richiede che una guardia stia fisicamente con me per tutto il tempo. Se più uomini hanno bisogno di parlare o pregare, ciò può sottrarre tempo prezioso alla sua giornata.
“Mi dispiace che ci sia voluto così tanto tempo”, mi scuso con la guardia che mi ha pazientemente accompagnato attraverso un’ala di massima sicurezza. “Sembrava che ogni singolo uomo stesse cercando di connettersi con Dio oggi”.
“Non sono sorpreso”, sorride l’ufficiale. “Non sto qui solo ad osservare, lo sai. Prego per te e per ogni uomo mentre gli parli. È incredibile vedere le mie preghiere ricevere risposta a pochi metri di distanza!”
Ci sono giorni in cui mi chiedo se guardiani come questi potrebbero trasformare una prigione della Florida in un luogo sacro.
La parte più impegnativa di questa prigione è la zona con le celle di isolamento. Corridoi di trenta celle, quindici per lato. Queste celle hanno porte in acciaio massiccio al posto delle sbarre e sono montate su un binario in modo che si aprano scorrendo lateralmente. Una porta che si apra sui cardini potrebbe essere usata come arma dal detenuto all’interno della cella, che potrebbe sfruttare il suo peso corporeo per attaccare la guardia che ha aperto la porta.
Quando le porte sono chiuse, ci sono solo due aperture nella cella. Una è lo sportello del cibo, una feritoia rettangolare all’altezza della cintura al centro della porta. È abbastanza grande da lasciar passare un vassoio per il cibo o uno scopino per il gabinetto. Poiché uno sportello in acciaio con cerniera inferiore copre e chiude con un lucchetto la feritoia (tranne che durante i pasti), l’apertura è chiamata “sportello”.
L’altra apertura è la fessura involontaria, larga meno di un centimetro, che risulta dal combaciare imperfetto della porta con il muro. Chiamata “crepa”, la fessura si estende da cima a fondo della porta. Durante i miei giri lo sportello viene aperto solo per chi riceve i Sacramenti. La crepa è il mezzo di comunicazione tra noi e i detenuti non cattolici in reclusione.
Ogni porta ha una finestrella in plexiglas rinforzata con una rete metallica. È troppo stretta e troppo corta per mostrare l’intero viso di un uomo. Quando mi trovo esattamente di fronte alla cella di un detenuto, posso vedere la sua bocca e il suo naso oppure i suoi occhi e il suo naso, ma non riesco mai a vedere il suo viso intero.
L’isolamento è il luogo in cui viene rinchiuso un uomo quando infrange le regole del carcere.
I detenuti chiamano l’isolamento “gattabuia”. Alcuni uomini trascorrono trenta giorni in isolamento. Alcuni vi passano anni.
Conosco un uomo che ha trascorso tre anni in una di queste celle. Mi dice che ha mancato la sedia elettrica per un solo voto della giuria, che era un animale feroce quando arrivò in prigione. Dopo tre anni, fu trasferito dall’isolamento a una normale cella di massima sicurezza insieme ad altri cinque prigionieri. Uno di loro portò il mio amico a Gesù Cristo.
Questo accadde decenni fa. Il mio amico è stato in prigione per molto, molto tempo. Lui e io abbiamo pregato insieme ogni settimana per anni. I suoi sforzi per vivere la sua fede negli ambienti più ostili, rifiutando di rendere male per male, assistendo e aiutando i detenuti appena arrivati, il suo cammino costante con Gesù in mezzo a tanta oscurità, mi fa sentire umile e banalizza la mia fede facile. Mentre io e il prete ci spostiamo da uno sportello del cibo all’altro, da una crepa all’altra, ripenso al mio amico e ai suoi anni dietro quella porta d’acciaio.
Un giovane chiede di confessarsi. Il sacerdote accosta l’orecchio alla feritoia del cibo. Mi allontano di due celle per garantire loro la privacy. Poi sento la voce di un uomo dietro di me.
“Fratello, se sei un uomo di Dio, per favore parlami”.
C’è un Afroamericano alto nella cella dietro di me. La sua faccia è accartocciata contro la fessura.
Mi avvicino e gli chiedo se è cristiano. Lui annuisce: “sì”.
Gli chiedo se vuole che lo guidi attraverso una preghiera. Reprime un tremolio nella voce e dice: “Per favore”.
Gli dico di mettere la mano sul finestrino della sua porta, e metto la mia mano all’esterno della finestra, di fronte alla sua. Appoggia l’orecchio alla fessura. Metto la faccia vicino alla fessura. Preghiamo.
Preghiamo per il perdono. Preghiamo per la guarigione. Preghiamo per la liberazione. Preghiamo per la protezione. Preghiamo per la speranza e la perseveranza. Preghiamo il Nome che è la nostra Vittoria. Preghiamo il Sangue che è la nostra Protezione. Preghiamo la Tomba Vuota che è la nostra Speranza. Preghiamo lo Spirito che è la nostra Forza.
Dopo che abbiamo finito, sussurra attraverso la fessura: “Grazie, fratello. Avevo tanto bisogno di pregare, ma non sapevo come fare. Grazie.”
L’isolamento a lungo termine in Florida non sembra un luogo in cui le cose possano crescere. Ciascuna delle ali è composta da atri a tre piani che ospitano quasi un centinaio di uomini in celle individuali di due metri per tre, dietro una solida porta d’acciaio. Il rumore è costante e sgradevole, l’atmosfera opprimente e disperata. Sarebbe un miracolo meno impressionante se un albero mettesse radici nel cemento, piuttosto che un’anima desse buoni germogli in isolamento. I miracoli accadono davvero ancora oggi?
Da una cella in mezzo al corridoio, al piano più basso di un’ala di isolamento, l’uomo all’interno mi saluta con un sorriso smagliante.
“Amico, ti stavo aspettando. Perché non me l’hai detto?”
Conosco bene quest’uomo. Sono anni che parliamo e preghiamo insieme attraverso la porta della sua cella. È un ragazzo grosso ed è nero. A meno che tu non sia un giocatore di football, queste caratteristiche possono attirarti molti guai in tenera età nel profondo sud. Alcuni uomini gestiscono questa negatività meglio di altri. Quest’uomo ha risposto a tono.
Quattro anni fa gli dissi che era la persona più arrabbiata che avessi mai incontrato. Non più. Le nostre discussioni originali si concentravano sull’immoralità della violenza. Ora la sua relazione con Dio è sbocciata; sta avanzando nella sorgente delle domande personali profonde.
“Perché non ti ho detto cosa?” Sbircio attraverso la piccola finestra di plexiglas nella sua cella. Mi blocca la vista sventolando un santino che non avevo mai visto prima.
“Perché non mi hai parlato di lui?”, ride, agitando l’immaginetta di un uomo di colore che è un santo canonizzato. “Perché non mi hai detto che esiste un santo nero nella Chiesa cattolica?”
“Non lo consideravo niente di speciale. Ci sono molti santi neri nella Chiesa cattolica”.
“Stai scherzando! Quanti?”
“Tantissimi, soprattutto dei primi anni del cristianesimo e degli anni delle missioni”.
“Caspita! E non pensi che sia qualcosa di speciale?” le sue parole sono punteggiate da schiaffi su entrambe le ginocchia. Sta ridendo così forte che le parole riescono a malapena a uscire.
“Questo perché sei bianco, fratello Dale. Se tu non fossi bianco, sapresti che è davvero qualcosa di importante.”
Due ali dopo mi trovo al piano rialzato, nella cella di un giovane bianco che sta studiando la fede cattolica attraverso un corso chiamato RCIA. RCIA è un corso fai da te in isolamento. I materiali sono forniti dai Cavalieri di Colombo. Sono qui per rispondere alle domande che sorgono quando un uomo con un background fondamentalista si confronta con l’insegnamento della Chiesa cattolica. Dopo che abbiamo finito le domande, spiega perché vuole diventare cattolico.
“Quando vivevo nella Florida centrale, costruirono questa bellissima chiesa cattolica vicino a Disney World. Prende il nome dalla Madonna. Penso che sia la cosa più bella che abbia mai visto. I cattolici non hanno paura della bellezza. I cattolici fanno della bellezza una parte della loro fede. Io ho bisogno di una fede bella”.
“Inoltre, mi piace l’intimità. I cattolici parlano del Padre e dello Spirito Santo come se fossero reali, proprio come Gesù. E gli angeli e i santi sono reali. E tutti si aiutano a vicenda con la preghiera e l’amore. È come una grande famiglia. Voglio quell’intimità nella mia fede.”
“E adoro il Rosario. Il Rosario è una delle cose più belle che mi siano mai capitate. Non mi separo mai dal mio”.
“Soprattutto”, la sua voce si addolcisce, “mi piace il fatto di poter trasmettere questa fede ai miei figli. Dopo tutti gli errori che ho commesso, questo è qualcosa di prezioso che posso fare per loro, qualcosa che migliorerà la loro vita. Voglio donare loro una fede meravigliosa, una fede che conta”.
Ne sono convinto: con la grazia di Dio, un albero può crescere nel cemento.