Jean-Charles Putzolu – Mostar
L’antica città di Mostar in Bosnia ed Erzegovina offre ai suoi visitatori la possibilità di visitare un “Museo della guerra e del genocidio”. Creato dal nulla quattro anni fa da un piccolo gruppo di volontari per mantenere viva la memoria della guerra che ha dilaniato l’ex Repubblica Iugoslava tra il 1992 e il 1995, il museo accoglie numerose testimonianze. Al momento della sua creazione, la mostra occupava una sola stanza. Poi gli abitanti di Mostar hanno offerto spontaneamente oggetti e il loro vissuto e il museo si è dovuto trasferire e ampliare per poter esporre tutto il materiale.
La storia del dottor Eniz Begic
Così, in mezzo agli abiti e alle scarpe ritrovati insieme a resti umani in una delle innumerevoli fosse comuni disseminate in tutto il territorio della Bosnia, si può prendere coscienza di quello che gli abitanti di Mostar hanno attraversato. Si apprende, ad esempio, la storia di un medico musulmano bosniaco, il dotto Eniz Begic, stimato dalla popolazione locale, che prima della guerra curava tutti i suoi pazienti senza che gli venisse mai in mente di chiedere loro se erano croati, serbi o bosniaci. Arrestato dai serbi di Bosnia, sotto la guida del generale Ratko Mladic, il dottor Eniz fu condotto nel campo di concentramento di Omarska. A renderne testimonianza nel museo è uno dei suoi pazienti che si era messo alla sua ricerca fino a trovare il modo, grazie a un militare serbo-bosniaco conciliante, di far giungere ogni giorno del cibo al medico. Si era ripromesso di non fargli “mancare nulla” durante la sua detenzione. Al termine della guerra, il medico non è mai stato ritrovato. Ma alcuni testimoni del campo di detenzione hanno rivelato che il dottor Begic distribuiva sistematicamente il cibo che gli perveniva agli altri prigionieri “senza conservare nulla per sè”. Probabilmente è morto in circostanze ancora non chiarite.
Il museo è pieno di testimonianze come questa. È pieno anche di foto che bisogna avere il coraggio di guardare, che non sono state mostrate alla stampa dell’epoca, scattate da prigionieri o da militari. Ci sono anche dei video proiettati per i visitatori. Contengono il racconto dei testimoni diretti dei momenti peggiori di Mostar, dei caschi blu delle Nazioni Unite, che davanti alla telecamera ricordano il numero insufficiente dei loro effettivi per proteggere i civili all’arrivo delle truppe serbo-bosniache. Molte sono anche le esecuzioni sommarie documentate.
Riaffiora la guerra in Ucraina
Mentre si visita questo piccolo museo è impossibile non fare un paragone con la guerra che contrappone oggi la Russia e l’Ucraina. Il parallelismo si può fare guardando ogni foto, leggendo le testimonianze. In fondo al museo di Mostar c’è un stanza tappezzata di messaggi che i visitatori sono invitati a scrivere. Ognuno ha lasciato qualche parola, in tutte le lingue. I messaggi più recenti creano il legame con la guerra in Ucraina.
Il contrasto con l’attività brulicante e rumorosa della città vecchia è lampante. Sono trascorsi 30 anni dalla fine della guerra, la pandemia è passata e i turisti sono tornati, numerosi come prima. Le campane rintoccano, il muezzin richiama alla preghiera, le comunità rivivono insieme. Dei poco più di mille abitanti di Mostar, il 48 per cento è formato da croati, il 44 da bosniaci e il 4 da serbi. I serbi sono la sola comunità a non aver reinvestito nella città dopo la guerra. Prima del 1992 erano il 18 per cento. Eppure la mescolanza comunitaria oggi ha un configurazione diversa. Se, prima della guerra, serbi, croati e bosniaci abitavano negli stessi quartieri, oggi le zone sono suddivise “etnicamente”. La maggioranza dei croati vive sulla riva occidentale del Neretva, il fiume che attraversa Mostar, mente i bosniaci popolano la riva orientale. Si lavora e si passa da una riva all’altra del ponte senza alcun problema, ma resta la sensazione che ogni comunità abbia il suo territorio.
Un’altra conseguenza della guerra è che i matrimoni misti sono meno numerosi. Un fabbro della città vecchia rende la sua testimonianza. Sua moglie è cattolica, lui mussulmano. Tra due colpi di punteruolo su una decorazione in cuoio di sua creazione, il sessantenne racconta che ha combattuto con le forze bosniache mentre i cugini di sua moglie erano sull’altro fronte, nelle forze armate dei croati di Bosnia. “Tutto questo fa parte del passato – dice – ora ci ritroviamo in famiglia tutti insieme sia per le feste musulmane sia per quelle cristiane” e prosegue addossando la responsabilità delle tensioni attuali ai “politici” che definisce “corrotti”.
Il vecchio ponte di Mostar attira sempre tanti curiosi. È il simbolo della città, ma sembra aver perso la sua funzione principale che era di unire le comunità. È stato distrutto il 9 novembre 1993 da un bombardamento croato, per isolare ancora di più la popolazione bosniaca assediata. Sebbene ricostruito identico e inserito nel patrimonio mondiale dell’Unesco nel 2005, lascia trasparire il dolore e l’odio che hanno infranto la multietnicità storica del posto.
La guerra non è dunque scomparsa. Ha lasciato tracce ovunque nella città. Anche se la ricostruzione è in fase avanzata, edifici sventrati e muri colpiti ricordano a ognuno il dramma vissuto, i bombardamenti, i tiri dei cecchini, le vite perse per andare a riempire una tanica d’acqua. I cimiteri di Mostar mostrano l’entità della perdita di vite umane. Su diversi livelli, le tombe rivelano l’età dei dispersi. La maggior parte era sotto i trent’anni. Il più giovane ne aveva 19. In un angolo della strada una scritta dipinta su una pietra dice a chi la guarda: “non dimenticare”.
Milan, 17 anni, che lavora durante l’estate in un centro culturale turco di Mostar, sa della guerra solo quello che la scuola gli ha insegnato finora. La scuola, e quello che gli ha raccontato la sua famiglia: “Noi ne subiamo ancora le conseguenze”, dice, prima di lanciarsi in una spiegazione socio-economica: “Non c’è lavoro per tutti e le persone lasciano il Paese. Non posso dire che siamo poveri, ma si stava meglio prima”. Prima, Milan precisa, era il periodo iugoslavo del maresciallo Tito. “Eravamo un Paese che si era sviluppato dopo la seconda guerra mondiale. Eravamo in crescita ed eravamo una potenza armata”, aggiunge il ragazzo.
La pace sempre fragile in Bosnia ed Erzegovina
La guerra in Ucraina è riuscita a risvegliare i vecchi demoni. Poco dopo lo scoppio delle ostilità tra Mosca e Kiev lo scorso 24 febbraio, la presidenza collegiale della Bosnia ed Erzegovina si è quasi sgretolata. La presa di posizione a favore di Mosca da parte del nazionalista serbo-bosniaco, Milorad Dodik, rappresentante serbo della presidenza, ha minacciato il delicato equilibrio tra le comunità croate, serbe e bosniache, ugualmente rappresentate nella presidenza collegiale. Per il momento Dodik ha fatto marcia indietro e rassicura l’Unione Europa sulla necessità per la Bosnia ed Erzegovina di restare “neutrale” in questo conflitto. Un farsi da parte che rassicura anche la giovane curatrice del “Museo della guerra e del genocidio” a Mostar. Menvirsa, bosniaca musulmana di 32 anni, aspira solo a vivere in pace.
Milorad Dodik non è al suo primo giro di prova. Il 9 gennaio scorso ha fatto sfilare a Banja 800 militari della Repubblica Srpska in occasione della festa nazionalista serba dichiarata illegale dalla Corte Costituzionale della Bosnia perché discriminante verso comunità musulmane bosniache e cattoliche croate. Trent’anni fa, il 9 gennaio 1992, i serbi della Bosnia annunciavano la creazione di un proprio stato in Bosnia ed Erzegovina. Due mesi dopo scoppiava una guerra che ha causato più di centomila morti, e il cui orrore e la cui brutalità, documentati da immagini e racconti dei sopravvissuti, sono emersi dal loro passato recente per imporsi oggi in Ucraina. Lo testimoniano due foto scattate a trent’anni di distanza, che rivelano il “cainismo esistenziale” denunciato da Papa Francesco lo scorso aprile. La prima è una foto del museo di Mostar. Mostra una donna all’ottavo mese di gravidanza uccisa, con il nascituro, da una proiettile che l’ha colpita al ventre. L’altra foto è del 9 marzo scorso. È quella dell’evacuazione di una donna incinta, colpita a morte nel bombardamento di un reparto maternità di Mariupol in Ucraina.
Con la sua storia, il ponte di Mostar rispecchia pienamente i ripetuti appelli del Papa, ribaditi nei suoi auguri al Corpo diplomatico lo scorso gennaio. Non senza difficoltà, il vecchio ponte si sforza di riunire famiglie e comunità lacerate, di favorire il perdono e la riconciliazione. La sua vocazione sarebbe di ridivenire un “ponte di incontro tra i popoli, (…) di fraternità e di pace”, in opposizione al “rumore assordante delle guerre e dei conflitti”.